La transizione ecologica ed energetica: “Non sarà un pranzo di gala”
Scritto da Pasquale Angius in data Novembre 29, 2021
La transizione ecologica è diventata un tema di grande attualità ma l’impressione è che non siano chiare le implicazioni e le difficoltà di questa transizione.
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Transizione ecologica ed energetica
Oggi ci occupiamo di transizione ecologica ed energetica. Potremmo partire da una banalità dicendo che: «Le stagioni non sono più quelle di una volta!». Partiamo invece da una citazione di Mao Tse Tung, il più grande leader politico cinese del XX secolo, che è la seguente:
«La rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità. La rivoluzione è un’insurrezione, un atto di violenza con il quale una classe ne rovescia un’altra».
Mao Tse Tung aveva guidato il Partito comunista cinese in una durissima lotta sia contro gli invasori giapponesi, sia contro il governo nazionalista capeggiato da Chiank Kai Shek e, dopo quasi vent’anni di battaglie, riuscì nel 1949 a proclamare la Repubblica Popolare Cinese. Quella rivoluzione politica e sociale iniziata nel 1927 e trasformatasi in guerra civile, aveva causato milioni di morti e devastazioni in tutto il paese. Mao aveva ragione, non era stata un “pranzo di gala”.
Applicando il concetto espresso dal leader cinese all’attuale fase storica nella quale si pone con urgenza un cambiamento radicale del nostro modello di sviluppo − quella che è stata chiamata la transizione ecologica ed energetica − possiamo ben dire che anche in questo caso non sarà un “pranzo di gala”. I contesti sono diversi, la battaglia che bisogna combattere oggi non la si fa con le armi ma sarà comunque una rivoluzione economica, sociale e politica della cui portata ci renderemo conto soltanto negli anni a venire.
Ma partiamo dall’inizio: cosa si intende con l’espressione “transizione ecologica ed energetica”?
Gli scienziati da anni cercano di sensibilizzare sia l’opinione pubblica che le leadership politiche sui rischi rappresentati dai cambiamenti climatici e dal crescente inquinamento del pianeta. Le risorse della Terra non sono infinite, un modello di sviluppo economico basato su una crescita costante dei consumi di risorse − minerarie, energetiche, agricole, forestali − sta creando problemi che sono evidenti a tutti, anche a chi non è uno scienziato. Come dicevamo all’inizio con una battuta, “le stagioni non sono più quelle di una volta”, e questo è un problema serio.
La consapevolezza che dalle analisi e dalle discussioni sia necessario passare alla fase operativa, cominciando a fare qualcosa per modificare la situazione, comincia a diffondersi. Il recente G20 tenutosi a Roma ha discusso di questi problemi. Anche nella Conferenza sul clima tenutasi a Glasgow qualche giorno dopo, sono stati presi impegni solenni per limitare il riscaldamento globale. L’Unione Europea ha stabilito che una parte rilevante degli investimenti del Recovery Fund debbano essere destinati alla transizione ecologica ed energetica. Quello che una volta in Italia si chiamava ministero dell’Ambiente, con la formazione del governo Draghi, è stato ribattezzato ministero per la Transizione ecologica, un atto simbolico, certo, ma indice del fatto che la consapevolezza comincia a farsi strada a tutti i livelli. L’Italia ha destinato quasi 69 miliardi dei 200 e rotti del Recovery Fund per la transizione ecologica ed energetica.
Si tratta di una serie di interventi che investono tutti i settori economici, dall’industria all’agricoltura, alle costruzioni, ai trasporti. Occorre ripensare il nostro modello di sviluppo economico e riorganizzarlo in maniera tale da ridurre inquinamento, emissioni nocive, consumo del suolo e delle materie prime, un programma molto vasto e ambizioso che parte innanzitutto dalla riconversione energetica.
L’energia è alla base della nostra economia e oggigiorno, nonostante gli sforzi fatti negli ultimi decenni per sostituire combustibili fossili con fonti rinnovabili, anche nei paesi virtuosi − e una volta tanto l’Italia rientra tra questi − la percentuale di energia prodotta da fonti green è ancora soltanto attorno al 18-20%.
Negli ultimi mesi abbiamo sentito pronunciare molti impegni solenni dai leader politici di tutto il mondo. Abbiamo letto che nell’arco di pochi anni, o al massimo qualche decennio, avverrà la decarbonizzazione (il passaggio alle fonti green), i trasporti saranno rivoluzionati dall’elettrico o dall’idrogeno e scompariranno i motori a benzina o diesel. Ma effettivamente le cose stanno così? L’impressione è che, come spesso accade, la politica, pressata dall’opinione pubblica e dai mass media, tenda a far promesse che poi non riuscirà a mantenere. Non riuscirà a mantenerle perché l’obiettivo primario della gran parte dei politici, non solo in Italia, non è quello di mantenere le promesse prese ma quello di mantenere il potere e i privilegi connessi a quel potere. Ma c’è anche un’altra ragione che persino i mass media a volte dimenticano: le cose sono in realtà molto più complicate di come ci vengono presentate.
La Commissione Europea ha lanciato la proposta di imporre alle case automobilistiche lo stop ai motori endotermici, praticamente quelli a benzina e diesel, entro il 2035. Ma il 2035 è dietro l’angolo, mancano solo 14 anni e in un tempo così ristretto si dovrebbe passare a una nuova tecnologia per il trasporto automobilistico.
Il primo problema che si pone è: quale sarà questa nuova tecnologia? I motori endotermici con cosa li sostituiamo? La soluzione non è chiara. Qualcuno, per esempio Elon Musk, fondatore della Tesla, ci dice che lo standard sarà quello elettrico; altri, per esempio i giapponesi, pare stiano puntando molto sull’auto a idrogeno.
Ci sono molte questioni di carattere tecnico che riguardano le due diverse tecnologie, a cominciare dal fatto che richiedono, per esempio, reti di rifornimento diverse, l’una basata sull’elettricità e l’altra sull’idrogeno. Ora, non possiamo affrontare in questa sede le questioni tecniche ma decidiamo di orientarci sull’auto elettrica, almeno questo sembra l’orientamento prevalente nelle case automobilistiche europee.
Anche la Cina ha puntato molto sulle auto elettriche investendo negli ultimi anni quasi 80 miliardi di euro per sviluppare questa nuova tecnologia ma, va ricordato, quel paese è il primo produttore al mondo di batterie al litio, quelle che servono per far funzionare le auto elettriche, e quindi stanno perseguendo una propria strategia che non è detto sia quella più conveniente per noi. Ci sono aziende automobilistiche come la Volvo − una volta un marchio svedese oggi di proprietà di un’azienda cinese − che hanno già annunciato come entro il 2030 passeranno completamente all’elettrico.
Un primo problema di natura economica è che l’auto elettrica ha un motore più semplice rispetto a quelle tradizionali a benzina o diesel. Ciò si traduce in una riduzione dei componenti necessari per produrre quel veicolo. Il fatto di per sé potrebbe essere positivo: in prospettiva potrebbero ridursi i costi sia di produzione che di manutenzione. Peccato che l’Italia sia attualmente uno dei maggiori produttori mondiali di componentistica per il settore automobilistico tradizionale, con migliaia di aziende iper-specializzate e in alcuni casi leader mondiali nella loro nicchia di mercato, in gran parte inserite nella catena del valore della produzione automobilistica, soprattutto germanica ma non solo. Molte di queste aziende saranno costrette a chiudere, a licenziare o, quando possibile, a riconvertirsi verso nuove produzioni. Secondo alcune stime in questo comparto, nell’arco dei prossimi dieci anni, più di 60.000 lavoratori potrebbero perdere il loro posto di lavoro.
Nelle aziende dove si producono componenti per i motori diesel il problema è dietro l’angolo. Con l’abbondono sempre più rapido di quella tipologia di motori da parte delle case automobilistiche, già sappiamo che nei prossimi due anni in Italia chiuderanno diverse aziende che danno lavoro a più di 5.000 lavoratori. Per citarne alcune, due stabilimenti del gruppo Stellantis, il nuovo nome che si è dato il vecchio gruppo Fiat dopo la fusione con il gruppo francese Peugeut: uno a Cento, in provincia di Ferrara, e un altro a Pratola Serra, in provincia di Avellino, che danno lavoro a 2.600 dipendenti che producono motori diesel ed è probabile che chiudano. Altri 1.400 posti di lavoro sono a rischio nello stabilimento della Boesch di Bari, dove tra l’altro fu inventato il diesel common rail.
Ma il problema non è soltanto italiano. In Germania, per esempio, si calcola che entro il 2030 il passaggio all’elettrico farà perdere nel comparto automobilistico quasi 400.000 posti di lavoro.
Ammesso che si riesca a trovare una regia politica, che a oggi non si vede, per affrontare questi problemi e si riesca a riconvertire chi oggi lavora nel settore auto tradizionale, occorreranno enormi investimenti. Riconvertire gli impianti produttivi e formare decine di migliaia di lavoratori facendogli cambiare lavoro, specializzazione e competenze richiede uno sforzo immane anche semplicemente dal punto di vista organizzativo. Dove si troveranno i soldi?
Questa transizione non si può affrontare senza politiche industriali quantomeno coordinate a livello europeo mentre, a oggi, sembra mancare totalmente qualunque regia. Ogni paese va per i fatti suoi e in Italia per ora non si è visto nessuno, a livello governativo, che abbia consapevolezza del problema, delle sue dimensioni, delle sue implicazioni e tantomeno qualcuno capace di proporre delle soluzioni.
C’è un secondo problema tutt’altro che secondario. Gli stati − tutti, compreso il nostro − dai consumi di benzina e gasolio ricavano, ogni anno, decine di miliardi di entrate fiscali. All’incirca il 70% del costo di questi prodotti finisce in tasse e accise. Ogni anno il fisco italiano incassa circa 37 miliardi di euro dalla vendita delle benzine. Se trasformiamo l’intero parco auto in elettrico quel buco di 37 miliardi nelle entrate statali come verrà coperto? Finora oggi nessuno lo ha ancora spiegato, forse non ci hanno nemmeno pensato, ma non stiamo parlando di pochi spicci.
Proviamo a vedere qualche altra difficoltà che si pone nel passaggio dalle energie fossili a quelle green.
Negli ultimi 15 anni il nostro paese ha ridotto i consumi elettrici complessivi di circa il 20%. Le ragioni di questa riduzione sono molte, ne citiamo due: certamente l’impiego di nuove tecnologie che riducono i consumi consentono quindi di risparmiare energia, ma anche per esempio la crisi del 2008-2009 che ha ridotto del 25% la produzione industriale del nostro paese. Se migliaia di aziende, con i loro impianti produttivi, chiudono si riducono anche i consumi elettrici.
Ora, nonostante tutti gli sforzi fatti negli ultimi vent’anni, nonostante tutti gli incentivi dati allo sviluppo di energie green, dal fotovoltaico all’eolico, alle biomasse e via di seguito, ancora l’80% della produzione di energia nel nostro paese proviene da fonti fossili. Ricordiamo che una buona parte degli incentivi per lo sviluppo delle rinnovabili li paghiamo nelle nostre bollette elettriche, che sono tra le più care d’Europa!
L’obiettivo che il governo italiano si è dato è quello di produrre entro il 2030 ben 70 Gigawatt di energia da fonti rinnovabili. L’obiettivo è ambizioso e sarebbe anche condivisibile, ma quel che non torna sono le tempistiche. Pensare di passare in un periodo di 10, 15 o 20 anni alla sostituzione della gran parte delle fonti fossili con le rinnovabili è assolutamente irrealistico per varie ragioni.
Innanzitutto, ci sono enormi problemi amministrativi. Le normative per la realizzazione di nuovi impianti fotovoltaici ed eolici sono complicate, contorte e lunghe. Ci vogliono diversi passaggi e autorizzazioni amministrative, concessi da enti diversi. Mediamente ci vogliono 7 anni per concludere soltanto la fase di autorizzazione, poi bisogna costruire gli impianti e renderli produttivi, altro tempo che va via. Ammesso poi che non ci siano ulteriori intoppi, che qualche ente locale − un comune, una Provincia, una Regione, una Soprintendenza, una Comunità Montana o chissà chi altro − non decida di fare ricorso al TAR, il Tribunale Amministrativo Regionale, e di bloccare l’intero procedimento. Spesso sono cittadini o comitati di cittadini che fanno pressione sulla politica affinché si opponga all’installazione di nuovi impianti in base alla logica per cui, per esempio, l’eolico ci va bene a condizione che le pale non le veniate a mettere nel nostro territorio, perché ci rovinate il paesaggio; le pale sono brutte, viviamo di turismo, oppure disturbano il volo degli uccelli e quindi deturpano l’ambiente. Si tratta di quella che gli americani chiamano la “sindrome Nimby” (Not in my backyard), che tradotto significa “non nel mio giardino”.
Queste difficoltà a livello normativo e burocratico negli ultimi anni hanno portato a un rallentamento degli investimenti nel fotovoltaico e nell’eolico, contrariamente a quel che invece si dovrebbe fare per accelerare la transizione alle fonti rinnovabili.
Un altro problema è che per compiere una transizione energetica che sia sostenibile, non soltanto dal punto di vista ambientale ma anche da quello economico e sociale, occorre spingere per creare una filiera italiana di produzione nei settori delle rinnovabili. Spieghiamoci meglio. L’abbandono dei combustibili fossili riduce l’occupazione in quel settore ma quell’occupazione si può recuperare nella produzione delle rinnovabili. Servono però politiche industriali che agevolino la nascita di aziende nazionali che producano, per esempio, pale eoliche o pannelli fotovoltaici. Il rischio altrimenti è di fare come si è fatto negli anni passati, quando sull’onda dell’entusiasmo ambientalista si diedero forti incentivi al fotovoltaico ma senza occuparsi della filiera produttiva. Il risultato fu che i pannelli solari li importavamo dalla Cina, per cui i contribuenti italiani per anni si sono trovati a pagare nella bolletta elettrica incentivi che sono serviti ad aiutare lo sviluppo dell’industria cinese dei pannelli fotovoltaici.
Le problematiche che riguardano la transizione ecologica ed energetica sono varie e alcune anche molto complesse. Oggi abbiamo soltanto accennato alcuni dei problemi più evidenti, ne riparleremo in maniera più approfondita prossimamente.
Indubbiamente occorre rimboccarsi le maniche, cominciare a fare qualcosa e smetterla di fare soltanto “bla bla bla”, come direbbe Greta Thunberg. Purtroppo, l’impressione che si ha affrontando queste tematiche è che ci siano molti impegni solenni, molta retorica, molta confusione e poca consapevolezza delle reali dimensioni del problema. Si continuano a dare scadenze e tempistiche che a dir poco non sono realistiche, nella speranza forse che l’opinione pubblica, prima o poi venga distratta da qualche altro argomento.
Il problema però è reale: i cambiamenti climatici producono effetti deleteri e forse sarebbe il caso di darci tutti assieme una bella svegliata.
Per oggi abbiamo finito, buona giornata a tutti.
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