Libano: storia di un collasso economico
Scritto da Pasquale Angius in data Dicembre 13, 2021
Il Libano è al collasso: politico, sociale, umanitario ed economico. Come si è generata questa catastrofe? Ripercorriamone la storia dal punto di vista economico.
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Il collasso libanese
Il Libano è al collasso economico, una notizia che non è più notizia perché ormai la crisi economica, sociale e politica libanese si trascina da alcuni anni. Ma come si è arrivati a questa situazione, come ha fatto un paese che per decenni è stato definito la “Svizzera del Medio Oriente” a ridursi alla fame?
Sul Libano, negli ultimi anni, pare si sia abbattuta la classica “tempesta perfetta”, una serie di eventi negativi che sommandosi l’uno all’altro hanno avuto esiti catastrofici. Elenchiamone i principali: una costante instabilità politica determinata dalla particolare struttura etnica e religiosa del paese, la crisi siriana con l’afflusso negli anni passati di un milione e mezzo di profughi, le demenziali politiche monetarie della Banca Centrale libanese che hanno posto le premesse per il collasso finanziario, la pandemia da Covid-19, l’esplosione nell’estate del 2020 di un deposito di 2.750 tonnellate di nitrato d’ammonio nel porto di Beirut che, oltre a fare molte vittime, causò danni per oltre 4 miliardi di euro.
Ma cominciamo da alcuni dati per comprendere le dimensioni del problema. Oggigiorno quasi il 60% della popolazione libanese vive al di sotto della soglia di povertà, il che significa praticamente che 3 libanesi su 5 hanno difficoltà a mettere assieme il pranzo con la cena. Soltanto il 15% della popolazione è stato vaccinato contro il Covid-19 con almeno 1 dose. Il 64% dei libanesi non ha accesso in maniera regolare all’acqua potabile. Il PIL pro capite nel 2021 si è ridotto a circa 2.500 euro annui, un terzo del valore di appena 5 anni fa.
Il PIL libanese è in caduta libera. Nel 2018 si è ridotto del 2%, nel 2019 ha perso quasi 7 punti percentuali, nel 2020 ne ha persi più di 20, nel 2021 ne ha persi altri 14 e le previsioni per il 2022 sono di un ulteriore calo di soli, si fa per dire, 3 punti percentuali.
La valuta nazionale, la lira libanese, negli ultimi due anni si è svalutata del 90%. Il debito pubblico è pari a due volte il PIL, l’inflazione nel 2021 si è avvicinata al 150%.
L’esplosione al porto di Beirut dell’agosto del 2020 ha paralizzato i commerci con l’estero. Il 70% dell’import-export del paese passava da quel porto, quei flussi oggi sono ridotti al lumicino.
Il tasso di disoccupazione è al 40% ma in alcune zone del paese, per esempio nella città di Tripoli che si trova nel nord, si arriva all’80%.
La classe media ormai non esiste più, chi può cerca di emigrare andando a ingrossare le fila della cosiddetta diaspora libanese, quasi 18 milioni di persone che vivono al di fuori del loro paese natale.
Quotidianamente i libanesi sono costretti a fare lunghe code alle stazioni di benzina perché c’è forte carenza di rifornimenti di carburante. In un paese dove ormai non esistono più servizi pubblici, senza auto non ci si muove e la carenza cronica di benzina ha fatto nascere un fiorente mercato nero dei carburanti, per chi ancora ha i soldi per comprarli.
La società elettrica nazionale non riceve più fondi dallo Stato per acquistare i combustibili e quindi riesce a garantire l’elettricità soltanto per tre o quattro ore al giorno. Le poche aziende ancora in attività, se vogliono produrre, debbono dotarsi di un generatore e poi trovare il combustibile per farlo funzionare.
La sera le strade restano al buio perché non funziona più l’illuminazione pubblica, e di giorno spesso anche i semafori restano spenti.
L’elevata inflazione e la scarsa fiducia nel sistema bancario spingono molte persone a regolare le transazioni finanziarie, anche gli acquisti più semplici e di piccolo importo, utilizzando le cripto valute, aggirando quindi il sistema valutario ufficiale.
Un anno e mezzo fa circa, il 7 marzo del 2020, l’allora premier Hassan Diab dichiarò in diretta televisiva che: «Il debito è diventato più grande di quanto il Libano sia in grado di sostenere ed è impossibile pagare gli interessi». Due giorni dopo, lunedì 9 marzo, il Libano non riuscì a pagare un prestito di 1,2 miliardi di dollari andato in scadenza. Un evento epocale perché il Libano, nonostante la sua storia travagliata, aveva sempre onorato i suoi debiti, persino nel periodo della guerra civile tra il 1975 e il 1990 o nel 2006, durante la guerra nel sud del paese tra gli israeliani e le milizie di Hezbollah. Un evento storico perché quel mancato pagamento mandò il Libano in default, cioè in fallimento come nazione.
Ma torniamo alla domanda iniziale. Come si è arrivati a questa catastrofe?
Le cause del collasso del Libano
Il Libano nasce come Stato indipendente dopo la Seconda Guerra Mondiale. Era stato per secoli un dominio ottomano e dopo la Prima Guerra Mondiale, con la sconfitta turca, era diventato assieme alla Siria un protettorato sotto mandato francese.
Il Libano in realtà è uno Stato unificato soltanto nelle carte geografiche: è un paese multietnico, multireligioso, multiconfessionale, in perenne guerra civile che resta magari per molti anni latente, sotto una superficiale, apparente, riconciliazione nazionale ma che, periodicamente sfocia in guerra aperta, sanguinosa e distruttiva.
Il paese ha quindi alternato nella sua storia recente periodi di calma e di grande crescita e floridità economica − i libanesi, eredi degli antichi Fenici, sono un popolo di grandi commercianti e imprenditori − a periodi di guerra e distruzioni come avvenuto, per esempio, dal 1975 al 1990.
Negli anni Cinquanta l’adozione di nuove normative trasformò, di fatto, il Libano in una sorta di paradiso fiscale che attirava capitali da tutta l’area mediorientale ma anche dall’Europa. Il paese divenne una sorta di grande lavatrice per i capitali sporchi provenienti da traffici di armi, droga, attività mafiose. Ma dalle banche libanesi passava, all’epoca, anche un terzo del commercio mondiale di oro. Poi il petrolio divenne il nuovo business che generava enormi profitti, e il sistema bancario libanese colse al volo l’opportunità.
Tra gli anni Cinquanta e la metà degli anni Settanta nacquero nuove banche e il sistema finanziario del paese continuò a svilupparsi, modernizzarsi e professionalizzarsi.
Nel 1975 scoppia la guerra civile e il sistema bancario riuscì ad adattarsi alla nuova situazione finendo per suddividersi il finanziamento delle varie milizie che si contendevano il potere politico, trasformandole in entità pseudo-statali, ognuna delle quali controllava un determinato territorio. Si creò quindi un intreccio di relazioni e di interessi tra gruppi bancari, partiti e milizie politiche che, nei territori sotto il loro controllo, si occupavano anche della riscossione delle tasse in sostituzione dello Stato centrale che non era più in grado di svolgere le sue funzioni. Le milizie ricevevano anche generosi contributi dall’estero, sia da libanesi espatriati che li sostenevano come da governi stranieri che supportavano i vari contendenti. Le milizie cominciarono poi a occuparsi anche di traffico di droga, gestione delle infrastrutture del paese a cominciare dai porti, di vendita di idrocarburi. In quegli anni si crearono e si consolidarono i rapporti tra élite politiche, gruppi imprenditoriali e gruppi bancari, un intreccio di interessi, di scambi di favori, di relazioni che sono durate anche dopo la fine del conflitto. La fine della guerra civile arrivò quando i vari potentati politici ed economico-finanziari che controllavano tutti i settori chiave dell’economia nazionale − da quello immobiliare a quello turistico, dal comparto farmaceutico alle infrastrutture, alle banche, al commercio di idrocarburi − riuscirono a trovare un punto di equilibrio.
Durante la guerra civile il sistema bancario libanese si espande all’estero sia per la necessità di mettere al sicuro i capitali delle varie milizie, sia per gestire i flussi di denaro che provenivano da diverse fonti per finanziare le varie fazioni.
Dopo la guerra civile
Dopo la guerra civile fu creato anche un equilibrio politico e istituzionale su una base di tipo confessionale. In pratica, le più alte cariche dello Stato e i seggi parlamentari venivano suddivisi non tra i partiti ma tra i principali gruppi religiosi presenti nel paese, che sono: cristiani maroniti, musulmani sunniti, musulmani sciiti e drusi.
Alla fine degli anni Novanta il Governatore della Banca Centrale libanese, Riad Salameh, decide di ancorare la lira libanese a un tasso di cambio fisso con il dollaro statunitense. Quel cambio veniva stabilito a 1.507,5 lire per 1 dollaro. L’ancoraggio a una valuta forte come il dollaro avrebbe dovuto dare stabilità alla valuta locale e avrebbe rappresentato una sorta di garanzia di credibilità nei confronti degli investitori, sia locali che internazionali. In pratica chi aveva un conto in lire libanesi poteva tranquillamente convertirle, se necessario, in dollari a quel cambio fisso in qualunque momento. In questo modo le due valute sembravano perfettamente intercambiabili e quindi non c’era più la necessità di acquistare dollari per premunirsi da variazioni del cambio o da altri eventi economici avversi.
Dopo la guerra civile il Libano ebbe un periodo di forte crescita economica, trainata dal settore immobiliare, con il grande business della ricostruzione, sia di Beirut che delle infrastrutture danneggiate durante il conflitto, ma anche con l’ulteriore sviluppo del sistema finanziario, con gli aiuti stranieri, con lo sviluppo del turismo e anche con la generosità degli stati arabi del Golfo Persico che concessero sia prestiti che contributi a fondo perduto. Un’altra fonte affidabile di valuta pregiata, soprattutto dollari, erano le rimesse dei libanesi emigrati che inviavano ogni anno in patria quasi 7 miliardi di dollari.
Il Libano era vissuto per decenni su una situazione paradossale: pur essendo uno dei paesi politicamente più turbolenti e instabili del Medio Oriente, dal punto di vista finanziario era invece uno dei più stabili e affidabili. C’era un robusto sistema bancario privato, molto efficiente e professionale, che attirava capitali da tutti i paesi del Medio Oriente e non solo.
Persino dopo la crisi finanziaria internazionale del 2008, seguita al fallimento della banca d’affari americana Lehman Brothers, le banche libanesi continuavano ad aumentare il loro giro d’affari e i loro depositi macinando utili, mentre molti istituti bancari statunitensi ed europei dovevano ricorrere agli aiuti dei rispettivi Stati per evitare il fallimento.
Ma nella primavera del 2011 gli scenari cambiano: scoppia la guerra civile in Siria. In pochi anni si riversano sul piccolo paese dei cedri un milione e mezzo di profughi siriani che vanno ad aggiungersi ai 500.000 profughi palestinesi che già vivevano nel paese ormai da decenni. Due milioni di profughi su una popolazione complessiva di 6,8 milioni di abitanti, un terzo circa del totale. Facendo le proporzioni con il nostro paese è come se in Italia, un paese di circa 60 milioni di abitanti, si riversassero 20 milioni di profughi. Numeri impossibili da gestire per chiunque.
La guerra civile in Siria portò, tra l’altro, anche un deflusso di capitali da quel paese proprio verso il sistema bancario libanese. Si calcola che circa 40 miliardi di dollari siano defluiti dalla Siria, negli ultimi dieci anni, verso il Libano.
2014: l’inizio della crisi
Dal 2014 cominciano però i primi problemi. Il prezzo del petrolio tra la metà del 2014 e l’inizio del 2016 passa da 100 dollari al barile a 24 dollari al barile. Molti libanesi della diaspora, che lavoravano nei paesi produttori di petrolio, perdono il lavoro o vedono ridursi i loro introiti e quindi riducono anche le rimesse verso il proprio paese.
Per fronteggiare questa riduzione dell’afflusso di valuta pregiata, la Banca Centrale libanese inventa nuovi espedienti di ingegneria finanziaria aumentando le emissioni di titoli in USD e offrendo tassi di interesse favorevoli − molto più elevati di quelli di mercato − a chi effettuava depositi in dollari. Vengono al pettine i nodi dell’intreccio perverso tra potere politico e potere finanziario. Il Libano è un piccolo paese con un sistema bancario ipertrofico, ma la sua è un’economia fragile. Il settore agricolo produce soltanto il 20% del fabbisogno nazionale, il resto viene importato. Il settore manifatturiero produce soltanto l’8% del PIL, un terzo riguarda industrie di trasformazione nel settore alimentare e delle bevande. In pratica il Libano non produce quasi nulla, importa gran parte dei beni sia alimentari che industriali di cui necessita e quindi le importazioni superano di gran lunga le esportazioni. Le partite correnti della bilancia dei pagamenti sono perennemente in deficit e, inoltre, il settore agricolo e industriale sono troppo asfittici e non riescono ad assorbire occupazione. La soluzione diventa l’impiego statale. L’amministrazione pubblica diventa un grande “stipendificio” per dare un’occupazione fittizia e un reddito a chi non trova opportunità nel fragile settore privato dell’economia.
Il sistema politico ha utilizzato per decenni il settore statale per alimentare clientele, creando posti di lavoro distribuiti su base partitica o di appartenenza etnico-religiosa. Il risultato è un settore pubblico inefficiente e sovradimensionato, mantenuto accrescendo il debito pubblico. Debito a sua volta finanziato da un sistema bancario molto forte che riusciva ad attrarre investimenti esteri garantendo alti tassi d’interesse e grazie a un cambio con il dollaro particolarmente favorevole e mantenuto stabile.
Ma quando, a partire dalla fine del 2014, l’incantesimo si rompe, l’unico modo per continuare ad alimentare un sistema economico costruito su fondamenta molto instabili è quello di continuare ad alzare la posta. Per riuscire ad attrarre capitali la Banca Centrale e il sistema bancario libanese cominciano a offrire tassi d’interesse stratosferici sui depositi in dollari. Nel 2018, però, la situazione si aggrava. Le petro-monarchie del Golfo, che per anni avevano generosamente finanziato il Libano, riducono le loro elargizioni per due ragioni principali. Una prima economica: la riduzione dei prezzi del petrolio ha messo in difficoltà anche i loro bilanci; un’altra di natura politica. Una delle principali componenti del Libano multiconfessionale e della complessa architettura istituzionale sono gli Hezbollah, l’organizzazione politica dei musulmani sciiti, movimento forte sia politicamente che militarmente, sostenuto e finanziato dagli iraniani, nemici giurati delle monarchie sunnite del Golfo Persico.
Tra il 2018 e il 2019 la crisi è sempre più evidente, i depositi bancari si riducono, il debito pubblico va fuori controllo, esplode il deficit commerciale e cominciano anche le proteste popolari. La gente scende in piazza e se la prende con una classe politica ritenuta corrotta, inadeguata e incapace di gestire i problemi del paese. Nell’autunno del 2019 la situazione precipita quando le banche mettono limiti ai prelievi in dollari. Intanto le élite politiche, finanziarie e imprenditoriali del paese, che spesso si fondono e si confondono, hanno già messo in salvo le loro ricchezze, molti trasferendole in paradisi fiscali; chi subisce i contraccolpi negativi della situazione è il resto della popolazione.
Il 2020 poi è l’annus horribilis! Prima arriva la pandemia da Corona Virus, poi all’inizio di marzo il Libano va in default non rimborsando la tranche di un prestito internazionale e infine, a inizio agosto, l’esplosione di un deposito di nitrato d’ammonio nel porto di Beirut devasta un terzo della capitale, causa 214 vittime, più di 7.000 feriti, 300.000 senzatetto e danni per circa 4 miliardi di euro. Da allora la situazione non ha fatto altro che continuare a peggiorare giorno dopo giorno. Nello scorso mese di settembre si è riusciti a formare un nuovo governo ma nessuno è in grado di dire se e quando il Libano riuscirà a trovare la strada per rimettersi in piedi. Il cambio ufficiale tra la lira libanese e il dollaro statunitense è ancora fissato a 1.507,5 ma al mercato nero, l’unico che funziona realmente, all’inizio di dicembre 2021 un dollaro veniva scambiato a 23.000 lire libanesi.
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