Caro energia: perché ci siamo ridotti “alla canna del gas”?

Scritto da in data Febbraio 21, 2022

Nell’ultimo anno i prezzi dei prodotti energetici fossili − petrolio e gas − sono cresciuti di 4 o 5 volte, cerchiamo di capire le ragioni di questo salasso.

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Una nuova emergenza economica

Dopo l’emergenza pandemica, forse in via di risoluzione, com’era facilmente prevedibile ci troviamo ad affrontare le nuove emergenze economiche che la pandemia ha causato. Nell’ultimo anno i prezzi dei prodotti energetici, petrolio e gas, sono aumentati di 4 o 5 volte. Una stangata che sta mettendo in difficoltà le famiglie, ma anche le imprese e gli enti locali, soprattutto i comuni che si ritrovano a pagare bollette impazzite. Eufemisticamente si parla di “caro energia”, ma quello che stiamo subendo è un autentico shock che potrebbe mettere a rischio la ripresa economica.

Secondo le stime del centro studi della Cgia di Mestre, nel primo semestre del 2022 i rincari dei prodotti energetici costeranno a famiglie e imprese 44,8 miliardi di euro. Se da questa cifra togliamo gli interventi fatti dal Governo Draghi − a partire dalla Legge Finanziaria fino all’ultimo provvedimento preso venerdì 18 febbraio − che ammontano a circa 11 miliardi, si arriva a 33,8 miliardi dei quali 8,9 saranno pagati dalle famiglie e 24,9 dalle aziende. E queste stime valgono solo per il primo semestre del 2022. Un conto effettivamente salato che mette in difficoltà molte famiglie ma anche molte imprese che rischiano di produrre in perdita e di finire fuori mercato, o di essere costrette a sospendere la produzione per un periodo più o meno lungo. Gli interventi del Governo sono insufficienti per affrontare questo vero e proprio “tsunami” che si è abbattuto sulla nostra economia. Il problema è che le risorse sono poche, a meno che non si voglia aumentare ulteriormente il debito pubblico, i prezzi dei prodotti energetici, anche se si presume che si riducano con l’arrivo della primavera, banalmente perché si riduce la domanda di gas per riscaldamento, sono comunque destinati a restare molto al di sopra degli anni passati ancora per lungo tempo. Nessuno sa bene cosa fare, il già citato centro studi della Cgia di Mestre suggerisce di seguire quel che hanno fatto altri paesi europei come, per esempio, la Francia che ha imposto un tetto del 4% agli aumenti delle bollette accollando allo Stato, e quindi alla fiscalità generale, l’eventuale differenza. Altri paesi come Portogallo, Polonia o Estonia hanno rinviato nel tempo gli aumenti per consumatori, famiglie e aziende, addebitandoli per ora al bilancio statale.

La situazione non è semplice, il rischio reale è che la crescita economica per il 2022 venga mangiata dall’aumento dell’energia e dall’inflazione ritrovandoci a fine anno con una crescita reale attorno allo zero, con tutte le conseguenze negative sulle finanze statali, sul debito pubblico e anche sui conti delle imprese e delle famiglie. Già una riduzione della produzione industriale e dei consumi si è registrata nel mese di gennaio e probabilmente febbraio seguirà a ruota. Ma cosa è successo, come abbiamo fatto a ridurci “alla canna del gas”?

Vediamo prima alcuni semplici dati. Per anni il prezzo del gas è rimasto stabile tra i 10 e i 20 euro a megawatt/ora, fino all’inizio del 2021. Dalla primavera del 2021 sono cominciati i rialzi fino ad arrivare nell’autunno a 180 euro per ridiscendere poi ai circa 80 euro di oggi, prezzi comunque 4 volte superiori a quelli che avevamo soltanto un anno fa. L’Italia consuma ogni anno circa 75 miliardi di metri cubi di gas naturale, di cui 3-4 sono di produzione nazionale, la parte restante viene importata e la metà delle importazioni proviene dalla Russia. Il resto lo importiamo da Algeria, Libia, Qatar e via di seguito. Tutta l’Unione Europea importa il 46% del suo fabbisogno di gas dalla Russia.

Ma cerchiamo di capire cosa è successo nell’ultimo anno, cominciando dalle ragioni di natura economica.

Le cause della crisi

Una prima causa economica è stata lo squilibrio gigantesco tra domanda e offerta di prodotti energetici. Quando, a partire dalla primavera del 2021 dopo la crisi causata dal Covid-19, le economie un po’ di tutti i paesi sono ripartite, c’è stato un boom della domanda mentre l’offerta non è stata in grado di far fronte a questi aumenti e quindi sono cresciuti i prezzi. In questa situazione, paesi come la Cina, per esempio, hanno offerto prezzi più elevati per accaparrarsi le forniture. Il gas liquefatto, per esempio, che viene portato a destinazione dalle navi metaniere viene venduto attraverso delle aste. La Cina, determinata a rifornire le proprie industrie, è riuscita ad accaparrarsi queste forniture facendo salire i prezzi a discapito dell’Europa. Come accade in tutte le aste chi è più sveglio, si muove prima, ha maggior determinazione e più soldi, alla fine si aggiudica il prodotto.

Come sappiamo peraltro le disgrazie non vengono mai da sole e quindi lo scorso anno si sono aggiunti eventi meteorologici avversi. L’inverno scorso, quello tra il 2020 e il 2021, è stato nel Nord Europa più rigido rispetto agli altri anni, facendo crescere la domanda di gas e quindi anche il prezzo. A sua volta l’estate 2021 è stata molto calda, con una forte crescita dei consumi energetici per i condizionatori; se aumentano i consumi energetici aumenta la domanda di petrolio e gas per alimentare le centrali, e quindi aumentano i prezzi.

Si sono poi aggiunte crisi locali. Il Brasile nel 2021 ha avuto un periodo di forte siccità; quel paese è un grande produttore di energia idroelettrica, ma a causa della siccità la produzione idroelettrica non è stata sufficiente e quindi hanno dovuto ricorrere a fonti fossili facendo aumentare ulteriormente la domanda e i prezzi.

Nell’estate 2021 c’è stata, inoltre, quella che i tecnici chiamano “siccità eolica” − in pratica poco vento − e quindi diversi paesi del Nord Europa, dal Regno Unito alla Germania ai paesi scandinavi che usano molto eolico, hanno dovuto far ricorso anche loro alle fonti fossili per produrre l’energia di cui avevano bisogno, facendo ulteriormente crescere la domanda.

Altri problemi sono legati alla transizione energetica. Dire che la transizione energetica o, meglio, le modalità con cui questa transizione è stata annunciata e gestita dai responsabili politici dell’Unione Europea è una delle cause degli attuali rialzi dei prodotti energetici fossili, non significa dire che quella transizione è sbagliata o non si debba fare, ovviamente. Ma andiamo con ordine.

Un primo problema è legato a quella che potremmo definire una questione di comunicazione. Se sbraitiamo ai quattro venti che entro il 2030 i paesi dell’Unione Europea dovranno abbandonare le fonti fossili e riconvertirsi a quelle rinnovabili, stiamo mandando un messaggio molto chiaro a quei paesi che attualmente ci riforniscono di fonti fossili: la Russia, la Libia, l’Algeria, l’Azerbaijan, i paesi del Golfo Persico, la Nigeria e via di seguito. In pratica gli stiamo dicendo che tra otto anni, quindi dopodomani, non compreremo più da loro petrolio e gas. Allo stesso tempo la ripresa dell’economia mondiale richiede un aumento dei consumi energetici e, quindi, delle importazioni di petrolio e gas che rappresentano ancora l’80% dei nostri consumi. Tra l’altro, per molti dei paesi produttori gli introiti derivanti dall’esportazione di combustibili fossili sono l’introito principale della loro economia. Ci troviamo quindi in una situazione quasi schizofrenica, perché pretendiamo che i nostri fornitori ci diano più petrolio e più gas per sostenere la ripresa economica, ma contemporaneamente gli stiamo dicendo che tra qualche anno il loro petrolio e il loro gas se lo possono tenere perché noi passeremo alle fonti rinnovabili.

La questione è semplice. Per potenziare le forniture di petrolio e gas occorrerebbe potenziare le infrastrutture di estrazione e di distribuzione, dai pozzi di trivellazione fino ai gasdotti e agli oleodotti, ma chi è disposto a investire in quelle infrastrutture se tra pochi anni a noi gas e petrolio non ci serviranno più? Praticamente nessuno. Elementare Watson… avrebbe detto Scherlock Holmes. Evidentemente non è altrettanto elementare per le burocrazie di Bruxelles che guidano i destini del nostro continente e ogni tanto danno l’impressione di vivere sulla Luna!

Tra l’altro un nuovo gasdotto, che parte dalla Russia e arriva direttamente in Germania scorrendo sotto il Mar Baltico, è già pronto e si chiama “Nord Stream 2”, che si affianca al vecchio “Nord Stream 1”. I russi chiedono di attivarlo, ma i tedeschi non possono perché gli Stati Uniti hanno imposto alla Germania di tener fermo, e quindi inutilizzato, quel gasdotto perché vogliono tenere i russi sotto pressione per la questione dell’Ucraina. Il risultato finale è che i tedeschi sono stati costretti ad aumentare i consumi di carbone, che possono produrre abbondantemente in casa, anche se è una fonte energetica molto più inquinante del gas!

A loro volta i francesi hanno avviato nuovi programmi di sviluppo del nucleare, che già oggi fornisce il 70% dell’energia consumata dai francesi. Chi si ritrova con il cerino in mano sono gli italiani che non hanno nessuna alternativa e si trovano due strade davanti: o pagare petrolio e gas ai prezzi di mercato oppure chiudere le aziende.

La transizione energetica

Tra l’altro, c’è un ulteriore errore di natura economica prima ancora che di natura politica o di comunicazione. Annunciare ai quattro venti che tra otto anni l’Europa avrà completato la transizione energetica è un obiettivo certamente ambizioso, ma se non è sostenuto da adeguate risorse finanziarie che significa, per essere chiari, centinaia se non migliaia di miliardi di investimenti nella riconversione energetica, nello sviluppo di nuove tecnologie, nell’aumento delle fonti rinnovabili, nel risparmio energetico, quell’ambizioso obiettivo finirà per trasformarsi in uno dei periodici velleitari annunci che abbiamo spesso sentito fare dai leader europei e che poi sono rimasti sulla carta. Il Recovery Fund, un piano di investimenti per aiutare i paesi europei a uscire dalla crisi del Covid-19 è costato mesi di trattative, ha messo in campo circa 700 miliardi di euro ma per fare tutte le cose che elencavamo precedentemente, per arrivare entro il 2030 a dire addio alle fonti fossili, di risorse ce ne vogliono 4 o 5 volte tante. Dove si vanno a prendere? Chi paga? Come farà l’Area Euro ancora impelagata dai vincoli di Maastricht − che non sono stati eliminati ma soltanto sospesi − a trovare le risorse per fare, in tempi così ravvicinati, la tanto necessaria transizione ecologica?

Dato che siamo persone adulte e alle favole non ci crediamo più da tempo, e da tempo abbiamo anche imparato a non credere più alle balle dei politici, possiamo tranquillamente affermare che entro il 2030 la transizione energetica non riusciremo a farla ma ci vorrà qualche decennio ancora; ma se così stessero le cose, allora sarebbe più sensato trovare una via d’uscita negoziata con i paesi produttori di fonti fossili, perché alle fonti fossili non potremmo rinunciare ancora per molti anni.

Un secondo problema è legato ai cosiddetti ETS, Emissions Trading System. Cosa sono? In pratica l’Unione Europea dal 2005 ha introdotto un meccanismo di penalizzazione per le aziende inquinanti. Si dà un prezzo alla CO2, cioè all’anidride carbonica, e così si incentivano le aziende a produrne di meno. In linea di principio la norma è corretta. L’economia funziona secondo il meccanismo di incentivi e disincentivi.

Gli ETS funzionano con il meccanismo che, in termini tecnici, viene definito di “cap&trade”. In pratica si definisce un “cap”, cioè un tetto alla quantità massima di anidride carbonica che può essere emessa. All’interno di questo limite le aziende possono acquistare o vendere le quote in base alle loro necessità. Per esempio, l’acquisto di una quota dà il diritto a emettere una tonnellata di CO2. Le aziende assoggettate a questo sistema sono circa 15.000, tra cui le aziende che producono energia o le aziende chimiche che producono molto inquinamento, o le compagnie aeree.

Nel 2021 l’Unione Europea si è data obiettivi più stringenti in termini di emissioni, facendo di fatto aumentare i costi di queste quote di emissione. Il prezzo di questi certificati, che all’inizio del 2021 era di circa 30 euro a tonnellata, è cresciuto a oltre 60 euro con picchi fino a 80 euro.

Il problema è che se queste quote costano di più, le aziende che producono energia scaricheranno questi maggiori costi sulle bollette che fanno pagare ai loro clienti. Quindi l’aumento del costo delle quote di CO2 ha finito per far aumentare, a cascata, il costo delle bollette. Secondo le stime degli esperti un 15-20% dell’aumento delle bollette energetiche è da addebitare a questa situazione.

Ovviamente a tutte queste ragioni se ne aggiunge un’altra, che raramente viene citata ed è difficile da quantificare: la speculazione finanziaria. Sulle materie prime energetiche, come su qualunque altro prodotto ci sono aumenti e riduzioni di prezzo che sono causati non dai meccanismi di mercato − per esempio, come dicevamo prima l’andamento della domanda e dell’offerta − ma dai movimenti speculativi. Se ci sono speculatori che guadagnano dall’aumento dei prezzi dei prodotti energetici, ci saranno dei polli da spennare che pagheranno quelle speculazioni e i polli da spennare, per chi non l’avesse capito, siamo noi consumatori.

La situazione geopolitica: la crisi tra Russia e Ucraina

Vediamo ora le ragioni di natura geopolitica. La crisi tra Russia e Ucraina è una delle cause dell’aumento dei costi dei prodotti energetici. Le questioni geopolitiche sono complicate e molto articolate, in questa sede dobbiamo necessariamente semplificare molto. Raccontiamola così. Dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, i paesi occidentali e la Nato si sono sempre più avvicinati alle frontiere della Russia, inglobando nella Nato paesi ex satelliti dell’Unione Sovietica, dalla Romania alla Polonia, o addirittura ex repubbliche sovietiche come i paesi baltici: Estonia, Lettonia, Lituania. Tutto ciò è avvenuto in contrasto con quanto i leader occidentali avevano garantito prima a Gorbaciov e successivamente a Putin, e cioè che la Nato non intendeva espandersi verso est. L’espansione della Nato verso est è vista dalla Russia come una minaccia alla propria sicurezza, anche perché la Nato era un’alleanza militare nata in funzione antisovietica, l’Unione Sovietica non esiste più da trent’anni e quindi la Nato è diventata, agli occhi di Mosca, oggettivamente un’alleanza militare in funzione antirussa, altrimenti non avrebbe ragione di esistere.

D’altronde basta ricordare cosa avvenne nel 1962, quando l’Unione Sovietica schierò dei missili a Cuba, a poche decine di chilometri dalle coste americane, e gli Stati Uniti imposero un blocco navale all’isola caraibica. Si sfiorò la guerra nucleare finché i russi non ritirarono i loro missili. A parti invertite si può facilmente capire perché i russi interpretino lo spostamento sempre più vicino ai loro confini delle armi e degli eserciti della Nato come una minaccia alla propria sicurezza.

L’ipotesi dell’entrata dell’Ucraina nella Nato viene percepita da Mosca come una provocazione e quindi il Cremlino reagisce con le armi che ha, a cominciare dai rifornimenti energetici che dallo scorso mese di gennaio sono stati ridotti facendo schizzare verso l’alto il prezzo.

Ora la domanda che viene spontanea è: ma per quale benedetta ragione la Nato ha la necessità di espandersi ulteriormente a est? Nelle settimane scorse gli americani hanno montato una sarabanda politico-mediatica sostenendo che la Russia stava da un giorno all’altro per invadere l’Ucraina, minacciando sfracelli qualora Mosca avesse mosso le truppe. I russi hanno ammassato decine di migliaia di soldati ai confini, stanno mostrando i muscoli ma, contrariamente a quel che dicono gli americani, è improbabile che scatenino una guerra perché sarebbe una mossa suicida. La Russia è certamente una temibile potenza militare ma spende per il suo esercito circa 70 miliardi di euro all’anno, gli Stati Uniti dieci volte di più. Questi numeri, come li conosciamo noi, li conoscono anche al Cremlino.

In tutta questa situazione chi sta pagando il prezzo più alto è l’Ucraina che assieme alla Moldavia si contende il primato di paese più povero d’Europa, e che nella precedente crisi del 2014 ha perso la regione della Crimea, annessa con atto unilaterale alla Russia, e anche le regioni orientali del Donbass, abitate in prevalenza da popolazioni russofone rimaste sotto il controllo di milizie filo-russe supportate da Mosca. Il Donbass, un’importante zona mineraria, era una delle principali aree economiche del paese. A ciò si aggiungono le tensioni di questi giorni, la partenza di molti stranieri, la fuga di capitali, la mobilitazione militare, tutte cose che aggravano la già difficile situazione economica di quel paese.

Questa crisi ha evidenziato anche il cinismo e l’ipocrisia sia dei russi che dell’Occidente. Al di là delle roboanti dichiarazioni di principio, di fronte alla paventata invasione russa tutti i leader occidentali si sono affrettati a specificare che la Nato non interverrà militarmente a difesa dell’Ucraina. Nessuno in Europa, e nemmeno negli Stati Uniti, è pronto a morire per Kiev. Nell’improbabile ma non impossibile caso di un’invasione russa gli ucraini dovranno sbrigarsela da soli. Poi l’Occidente varerà durissime sanzioni economiche contro la Russia, il solito giochino dell’armiamoci e partite! L‘Occidente istiga l’Ucraina a prendere posizioni ostili a Mosca facendo balenare promesse di futura entrata di quel paese nell’Unione Europea. In realtà nessuno ha intenzione di accollarsi i problemi economici di 40 milioni di ucraini.

Soffermiamoci un attimo sugli Stati Uniti e sul presidente Biden. Ora, non è bello parlare male degli alleati, e gli americani sarebbero nostri alleati, almeno così li intendiamo noi. La realtà storica è leggermente diversa. Loro, gli americani, più che alleati ci considerano sudditi e a rigor di logica non hanno tutti i torti. La guerra nel 1945 l’hanno vinta loro mentre noi l’abbiamo persa e da allora siamo entrati a far parte di quella che fu chiamata la “sfera d’influenza americana”. Da allora siamo, di fatto, un paese occupato, con basi militari statunitensi in ogni angolo della penisola. Poi certamente gli americani sono occupanti discreti e simpatici, ma che l’Italia sia un paese a sovranità limitata è altrettanto certo. Ci prendiamo comunque la libertà di muovere qualche critica ai nostri presunti alleati.

Che il Presidente Biden in politica estera si muovesse come un elefante in una cristalleria ne avevamo avuto prova certa già nella disastrosa gestione del ritiro o, per essere più precisi, della fuga dall’Afghanistan l’estate scorsa. Quella scombinata exit strategy è stata pagata soprattutto dalle popolazioni afghane che, come ben documentato dai numerosi reportage di Radio Bullets, sono state lasciate nelle mani dei talebani che hanno riprecipitato quel paese nell’oscurantismo e in un dramma umanitario per il quale non si vede via d’uscita.

Una volta sistemato, si fa per dire, il problema afghano, l’indomito Biden invece di concentrarsi nella strategia di contenimento della Cina, vista correttamente come il potenziale avversario nei prossimi decenni, l’unico paese che può sfidare la supremazia statunitense a livello globale, ha deciso di prendersela con la Russia drammatizzando la questione dell’Ucraina e continuando ad alzare i toni con Mosca. Quale sia la ragione strategica di questa nuova crisi risulta difficile capirlo. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. La Russia si è riavvicinata alla Cina, l’Europa occidentale sta pagando il rialzo dei prezzi del petrolio e soprattutto del gas russo. L’Ucraina si trova sull’orlo di un conflitto nonostante Zelenski, presidente di quel paese, nelle scorse settimane abbia diverse volte pregato gli americani di non drammatizzare la situazione. Questa tensione ha consentito a Putin, in crisi di consensi, di ricompattare l’opinione pubblica russa che resta, nella stragrande maggioranza, contraria a qualunque guerra ma concorda con la sua leadership politica che occorre metter freno all’espansionismo americano a ridosso dei confini russi. Ha consentito a Putin di riportare gli interessi geopolitici del suo paese al centro dell’attenzione internazionale e, se si vuole trovare una via d’uscita pacifica, delle concessioni a Putin occorrerà farle. Ha finito per creare un’incrinatura tra gli Stati Uniti e i suoi alleati europei che si sono visti sacrificati dovendo pagare un sovrapprezzo nella loro bolletta energetica, per seguire gli americani nelle loro discutibili strategie geopolitiche.

Di energia torneremo a parlare prossimamente, anche perché temiamo che il problema del “caro bollette” continuerà anche nei prossimi mesi a crearci non pochi grattacapi.

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