Una goccia nel mare
Scritto da Barbara Schiavulli in data Febbraio 23, 2019
Gli aiuti umanitari sono diventati il simbolo di uno scontro politico in Venezuela, ma da diverso tempo tonnellate di aiuti di organizzazioni private internazionali entrano illegalmente nel paese per alleviare la disastrosa situazione sanitaria di un paese in ginocchio. Radio Bullets ha seguito alcune scatole giunte dall’Italia.
Barbara Schiavulli da Caracas
CARACAS – Gli aiuti umanitari sono diventati il simbolo del tira e molla tra il presidente ad Interim Guaidò e il presidente Maduro. Da una parte l’opposizione che ha forzato i confini del paese per 70 tonnellate tra medicine e cibo e dall’altra un’amministrazione che da settimane insiste di non volere l’elemosina americana. Ma se gli aiuti sono diventati l’ago della bilancia di una questione politica, dove le ideologie si scontrano sulla pelle della gente, la realtà è che la situazione sanitaria nel paese è disastrosa. Da anni ospedali, cliniche private, farmacie, centri sanitari dipendono dagli aiuti umanitari privati e stranieri che arrivano da mezzo mondo. Da una parte, la soluzione di Maduro con gli ambulatori sanitari cubani che prestano cure di ottima qualità ma basiche e dall’altra organizzazioni spesso di venezuelani all’estero che inviano medicinali, vestiti, cibo per alleviare l’emergenza sanitaria senza precedenti.
Gocce nel mare. “Ogni mese ormai da tre anni – ci racconta Feliciano De Santis, un venezuelano di origine italiana, abruzzese per essere precisi – distribuisco quella quantità di materiale che ora sta al confine e per cui si fa tanto baccano”. Tutto in sordina, basso profilo, il più lontano dalla vista delle autorità. “Non ti devi far beccare dalla polizia, altrimenti ti sequestrano tutto e poi lo rivendono al mercato nero e tu finisci in prigione, ma non posso non farlo”. E’ un ingegnere, un gigante buono che un giorno ha capito che il suo contributo doveva essere più attivo, il paese stava cadendo a pezzi e per quanto possa essere importante costruire e lavorare, niente dà soddisfazione come aiutare la persone, sentirsi utili, fare la differenza: “Non è una questione politica, religiosa o altro, si tratta di decidere se accettare di guardare la gente che muore di fame o di malattia o ci si rimbocca le maniche e per quanto poco possa essere, fare qualcosa. Non ho paura di aver deciso”.
Per lo Stato sono trafficanti di medicine: chi manda, chi distribuisce, chi riceve, per la gente, invece, sono angeli. L’80 per cento dei medicinali che distribuisce Feliciano viene dall’Italia, l’Organizzazione Ali Onlus, che ha più di 20 centri in Italia, volontari che raccolgono le medicine e le spediscono. Altre arrivano da Germania, Stati Uniti, Portogallo.
De Santis riceve e con elenchi dettagliati, distribuisce: dalla Caritas, a cliniche, ad ambulatori dove medici, direttori sanitari hanno deciso di infrangere la legge in nome della salute di chi ha bisogno. Alla farmacia della Caritas, dove portiamo 32 scatole di medicinali italiani che dureranno non più di due o tre giorni, la coda comincia alle 5 di mattina, centinaia di persone che non possono permettersi le medicine al mercato nero, passano ore in fila con la ricetta tra le mani, fino a che superano una porticina, si siedono a una scrivania dove una signora compila diligentemente i moduli. 120 persone saranno aiutate. Un po’ come quando si ritira un pacchetto in posta, poi se il farmaco è in sede, viene dato. “Soprattutto medicinali per la pressione, antibiotici, le convulsioni e insulina”, ci spiegano mentre giriamo tra gli scaffali dove un signore si preoccupa che è un po’ disordinato: c’è di tutto, dai familiari nomi italiani e farmaci tedeschi, portoghesi, americani. I malati più frequenti sono anziani e bambini. Sono infinite le malattie che affliggono le persone, da quelle di un momento a quelle croniche, difficile immaginare di non potere fare niente, di non poter entrare in una farmacia e risolvere il problema. Malattie ordinarie che diventano incurabili. Diarrea, malaria, Parkinson, cancro, la dialisi, qualsiasi cosa può essere mortale.
“Facciamo un inventario, classifichiamo le medicine che arrivano, tutto quello che è in più, lo diamo di nascosto a un ospedale pubblico, non potremmo perché se ci scoprono la galera è certa, ma il nostro lavoro è aiutare la gente sempre”, ci dice una preoccupata dottoressa Lorena Blanca della Clinica cattolica Padre Machado. La situazione peggiore la vivono gli ospedali pubblici perché non possono ricevere gli aiuti essendo controllati dall’amministrazione attuale, in alcune zone come sul confine a Tachira (vicino alla Colombia) o a Sant’Elena (vicino al Brasile) dove in questo momento ci sono scontri tra gente e colectivos (milizie armate), gli ospedali non sono in grado di gestire nessun tipo di emergenza.
“Lavoriamo con quel che abbiamo. In questo momento abbiamo bisogno di moltissime medicine”. Perché non ci sono medicine? “Perché me lo chiedi – dice quasi intimorita, temendo di dover criticare il governo – quello che succede è che in Venezuela non abbiamo più aziende farmaceutiche, si sono spostate in posti economicamente più sicuri. Il governo dovrebbe importare le medicine delle stesse aziende all’estero in dollari, ma non ci sono i soldi per farlo, quando l’economia andava bene non c’erano problemi ma negli ultimi quattro anni è stato un inferno, nessuno vuole transazioni in bolivares che non valgono niente, il governo allora si è rivolto ai cubani che per quanto hanno un ottimo sistema sanitario, non hanno sempre i medicinali di ultima generazione che ci servono”.
La clinica fa parte di un complesso di quattro ospedali cattolici sparsi nel paese. Una suora piccolina ci accompagna per la clinica minimalista ma immacolata. Quello di cui si occupano di più sono i parti e tutto va bene fino a che non ci sono complicazioni. In un altro ospedale in un barrio povero di Caracas, una pediatra che preferisce non sia fatto il suo nome, ci racconta che una qualsiasi complicazione al momento del parto significa morte quasi certa per il bambino, solo la settimana scorsa ne hanno persi sette.
In una stanzetta una ragazza accudisce la madre che ha subito un’isterectomia, la donna giace esanime mentre la figlia ringrazia la suora e il medico che l’ha mandata. In un altro ospedale privato le avevano chiesto 9 mila dollari perché un paziente che deve essere operato deve acquistare tutto dal camice del medico ai medicinali post operazione, le assicurazioni non valgono più niente e non c’è molta speranza per chi ha un salario minimo di 18 mila bolivar (sei dollari), qui invece ha pagato 470 dollari. Perché non è andata in un ospedale pubblico? “Perché non ci sono le condizioni, si aspettano mesi, molti medici se ne sono andati, non c’è sicurezza, non ci sono medicine”. Sicurezza? “Gli ospedali non sono puliti e non ti assicurano una buona degenza post operatoria e ci sono moltissimi furti e aggressioni”, spiega Teresa Esquiera, che gestisce un caffè. Sa che le medicine che si trovano qui arrivano da donazioni straniere di privati? “Non lo sapevo, quello che succede qui è davvero impagabile”.
Fuori dalla città
La prossima tappa delle scatole è fuori di Caracas, in un altro Stato quello di Miranda la cui capitale è Les Teques. La situazione sembra peggiorare man mano che ci si allontana dalla città, lungo la strada c’è un’insolita moltitudine di macchine ferme per qualche guasto con i proprietari che sbuffano ben sapendo che i pezzi di ricambio sono diventati ormai molto costosi. Lungo la strada ci sono piccole cascatelle di acqua e la gente armata di secchi cerca di portarne un po’ a casa. A Caracas c’è acqua per mezzora 2 volte al giorno, ma ci sono posti dove l’acqua non si vede anche per una settimana. E gli ospedali non fanno eccezione. Per non parlare delle interruzioni di energia elettrica.
A Les Teques sono due i posti che riceveranno aiuti, un centro per minori, ce ne sono 12 che hanno subito violenza o sono stati abbandonati o sono orfani. Tre fratellini sono stati maltrattati e i genitori hanno spento le sigarette su di loro, poi la madre scoperta a trasportare droga nello stomaco è stata messa in prigione e il giudice ha mandato i piccoli al centro, altri due sono arrivati denutriti e ora zampettano per la casa sorridenti e affettuosi. Cristina una bambinetta, ha la mamma haitiana che non riesce a mantenerla così anche lei è finita lì. Nelle scatole c’è riso in polvere, scatolette, cereali, latte in polvere. I bambini si rimboccano le maniche, aiutano a portare dentro la colazione dell’indomani. Ricevete qualcosa dal governo? “No – risponde la direttrice che guadagna sei dollari al mese – qui andiamo avanti solo con le donazioni e il buon cuore della gente”.
Prossima fermata un convento di suore che ha deciso di aprire le porte ai poveri. Hanno cominciato due anni fa cucinando 80 pasti al giorno per gli anziani, ora ne preparano 1200 ogni giorno, in pentoloni. Tre tipi di zuppa, una per gli adulti, una per i bambini, e il latte per i neonati.
Una lunga fila di madri, senzatetto, uomini, bambini con in mano una scodella di plastica con il coperchio sfila nel piazzale dopo una difficile salita sotto il sole. Qualcuno sventola una ricetta medica, una signora anziana dice di avere mal di testa e le suore distribuiscono le medicine che sono appena arrivate. L’avere la ricetta è fondamentale. La paura che le donazioni finiscano sul mercato nero è reale.
“So che a volte possiamo sembrare duri – ci spiega una categorica Lucia Marchino dell’Associazione Mani par Vergas – se non c’è una ricetta niente medicine. Se non possono permettersi un medico perché costa e costa anche fare le analisi ne consigliamo alcuni che sono disposti a fare visite gratuite e non crediate che così siamo sempre al sicuro, ci sono persone talmente disperate che per quanto malate, rivendono le medicine per fare due soldi”.
Siamo ancora in un altro Stato quello di Vergas, a La Guaira dove il mare si affaccia verso i Cairaibi e fa sembrare tutto un po’ meno tetro. La signora Marchino ha un centro molto efficiente, ogni giorno riesce a distribuire medicine a 90 persone, circa l’80 per cento delle medicine arriva dall’Italia. “L’associazione Ali Onlus fa un lavoro straordinario racconta, la generosità degli italiani ci commuove e ci dà speranza”. Il figlio di Lucia è il dottor Juan Olivares, responsabile degli aiuti che da Cucuta, l’opposizione ha tentato di far entrare in Venezuela, proviamo a chiamarlo ma la linea è molto disturbata. “Faremo il possibile per far entrare gli aiuti perché servono, ci serve tutto, speriamo bene”. L’amministrazione Maduro invece, sostiene non c’è bisogno di niente, che va tutto bene. La vicepresidente si è spinta a dire che gli aiuti parcheggiati a Cucuta in Colombia sono contaminati e che avrebbero fatto ammalare il popolo venezuelano.
Il resto del Paese
Ma se a Caracas la situazione è grave, nel resto del paese la situazione sanitaria è anche peggio. Lungo i confini la situazione potrebbe degenerare in qualsiasi momento. Alla frontiera con il Brasile si contano già 4 morti e 40 feriti. A Tachira al confine con la Colombia una ventina di feriti, gli ospedali sono praticamente senza nulla per intervenire.
Qualche giorno fa, Gisela Gonzales, 47 anni della protezione civile incaricata di seguire le proteste in un quartiere di Caracas ci aveva detto: “Quello che possiamo fare è nel caso di un ferito, trascinarlo fuori dalla mischia, ma non abbiamo il materiale per soccorrere, ci mancano guanti in lattice, bende, garze, creme antibiotiche, per le ustioni, soluzione salina”.
“E’ difficile vivere ogni giorno, capire cosa significa essere medico e sapere di non poterlo fare perché non hai gli strumenti – ci ha detto la pediatra dell’ospedale del quartiere di Catia – e questa la cosa più difficile di tutte, dover scegliere chi tentare di salvare e chi lasciare andare: nessuno merita questo e nessuno potrà essere perdonato per questo”.
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In questi giorni stiamo cercando di capire cosa stia succedendo in Venezuela e abbiamo parlato con diverse persone che spiegano come si è arrivati a questo punto con una storica, cosa potrebbe essere fatto ce lo spiega l’economista e soprattutto come si vive in un paese dove lo stipendio medio è di 5 euro e una scatola di tonno, tra l’altro oggi introvabile, ne costa 7: Il prezzo della crisi.
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