Il fuoco del Sudamerica

Scritto da in data Ottobre 25, 2019

Da quando brucia il Sudamerica? Saranno stati i roghi dell’Amazzonia a risvegliare l’anima rivoluzionaria di un popolo? O le fiamme della speranza non si sono mai placate?
Un continente di contraddizioni, amore, empatia, folklore, la convivenza di culture e tradizioni diverse, incastrate in un meccanismo ideale se solo fossero state lasciate evolversi naturalmente.
Il colonialismo non è mai finito. Un popolo che resiste da cinquecento anni, che identifica il suo massacro nel viso di Cristoforo Colombo. Valentina Barile raccoglie le voci del Sudamerica per Radio Bullets.

Le voci del doppiaggio sono di Francesco Iacovelli e Barbara Schiavulli


Roghi

Lo scorso inverno australe – la nostra estate boreale – la Bolivia e il Brasile perdono milioni di ettari di selva amazzonica: distese sconfinate di alberi, animali in via d’estinzione, e umani, tra abitanti delle comunità indigene, vigili del fuoco e volontari. Le fiamme provocate dal massiccio disboscamento sono ferocemente arrivate dove non dovevano, ardendo fino al midollo le aree protette, provocando un disastro ambientale che ci porteremo addosso per molto tempo.

Ma si sa, la forza della Madre Terra non conosce confini.

In Bolivia, Evo Morales, e in Brasile, Jair Bolsonaro, due uomini che rispondono alle esigenze di due imperi diversi. Il primo governa lo Stato plurinazionale della Bolivia dal 2006, primo presidente indigeno nella storia del paese, el sindicalista cocalero (il sindacalista, coltivatore di coca) che comincia bene il suo mandato, riuscendo a mantenere alcune delle promesse fatte, che garantivano la conservazione del patrimonio culturale boliviano, l’aspetto sanitario, giungendo a dei veri e propri risanamenti, per poi far finire sotto il controllo del governo i mezzi di comunicazione, la vendita di quantità sterminate di terra per l’agroindustria e l’estrazione mineraria, con l’aggravante di non voler mollare lo scettro del potere e arrivare, qualche giorno fa, a provocare una Fraude Electoral, che sta lasciando il sangue nelle piazze di La Paz, Potosí, Santa Cruz de la Sierra, Cochabamba.

Il secondo uomo è fresco al potere: il primo giorno del 2019 presenta il suo biglietto da visita. Militare espulso per inadeguatezza mentale, favorevole al possesso delle armi, per niente aperto alla diversità e al dialogo. Promotore dell’agroindustria e del minerario, naturalmente contro le comunità indigene dell’Amazzonia.

I roghi dell’Amazzonia, che come sfondo avevano già le lacrime del Venezuela, allo stremo da un anno (non considerando i precedenti in cui Nicolás Maduro si preparava a governare con la forza), sono finiti nella lotta indigena ecuadoriana contro le decisioni del presidente Lenín Moreno, che si è conclusa con la vittoria – si spera definitiva – delle comunità indigene per la eliminazione del sussidio sul carburante, e nella protesta cilena, a Santiago, contro le misure neoliberiste che il governo Piñera tiene in serbo da tempo e che mette in attuazione da qualche anno: la sua riaffermazione nel 2018 ha consolidato i suoi piani efferati già anticipati nel suo vecchio mandato 2010-14.

Cile

Gabriela Toro vive a Genova, ma ha il fuoco cileno che le brucia nelle vene. Mi scrive all’alba della prima protesta a Santiago de Chile, qualche giorno fa, lasciandomi il numero di Javier Pineda, e dicendomi: «Chiamalo! Adesso sta per strada nella protesta».

Javier Pineda, giornalista indipendente e attivista in una organizzazione politica della sinistra rivoluzionaria cilena, Convergencia 2 de Abril, mi dice: «Sono in un progetto sindacale per lo sviluppo del lavoro, che interessa più organizzazioni, tra le quali, quella che si sta occupando della mobilitazione contro il governo, Unidad social». Sento rumori in sottofondo, lui sta tornando a casa – è sera – e si lascia alle spalle una giornata di manifestazione. Non è affannato, ha un tono di voce sereno, come di chi sta facendo il suo dovere e si sente appagato: «La protesta attuale è stata abbastanza inaspettata. Tutto è accaduto per l’aumento del trasporto pubblico nella capitale, Santiago, che ospita il 40% della popolazione cilena, corrispondente a circa sette milioni di persone. E sebbene tutto questo fosse già chiaro, gli studenti si sono mobilitati. Le principali esigenze della protesta in corso riguardano l’accesso alla salute, la disumana commercializzazione dei diritti sociali, come per esempio il diritto alla pensione che non esiste, e per il quale molta gente vive nella miseria, la lotta per la liberalizzazione dell’acqua e la contestazione dell’estrazione mineraria coatta».

Il popolo cileno è stanco dell’ingiusto sistema neoliberista che lo investe da più di quarant’anni, cominciato con la dittatura di Pinochet e mai terminato. Appoggiato in ogni sfumatura dal governo Piñera, nonostante il presidente dichiari di prendere le distanze dalle mostruosità commesse dal suo modello politico in tema di diritti umani.

Bolivia

Nel frattempo, in Bolivia, nelle piazze e per le strade c’è lo stesso clima alimentato dalla rabbia di un popolo che vuole la democrazia, ma che è paradossalmente solo, perché gli organi istituzionali si sono arruolati nel regime di Evo Morales.

Carolina Delgadillo, attivista del movimento Bolivianos por la democracia, mi dice: «Evo con queste elezioni ha atterrato il 21F (il referendum del 21 febbraio 2019, data in cui i boliviani hanno votato No alla legge che permette a un presidente di ricandidarsi dopo due mandati consecutivi)».

Roxana Lizarraga de Vega, prima di andare in onda su Ahora con Roxana, mi spiega cosa sta accadendo in queste ore: «In Bolivia, la situazione è molto critica. Due società che hanno fatto il controllo delle elezioni davano lo stesso risultato. Una è appoggiata dal tribunale supremo elettorale di Evo Morales, è un ufficio del regime, fondamentalmente, l’altra società è indipendente, appartiene ai paesi della Comunità Europea, agli Stati Uniti e ad altre istituzioni serie, le quali hanno fatto di tutto perché questa società mostrasse il risultato. C’era un ballottaggio tra Evo Morales e Carlos Mesa, il candidato legalmente idoneo, perché Evo Morales è un candidato illegale, un candidato reso idoneo da un tribunale costituzionale, eletto da esso, come solitamente accade nei paesi in cui domina il castro-chavismo. In diversi dipartimenti, nelle case in cui si dice che ci siano persone molto vicine al Movimiento al Socialismo, sono state trovate urne con schede di voto a favore di Evo Morales. A Potosí, per esempio, che Evo non è voluto – quindi, aveva una piccolissima possibilità di vincere –, sono apparse preferenze a suo favore maggiori del 50%».

Continua a parlarmi di più di un migliaio di esiliati, di aggressioni fatte a Waldo Albarracín, uno dei dirigenti del Conade (Comitato nazionale per la difesa della democrazia), unico organo che al momento è dalla parte del popolo, creato nel 1981, durante gli anni della dittatura. E concludendo preoccupata, dice: «Evo Morales ha ormai preso il controllo di tutte le istituzioni».

Brasile

Dal Brasile, Gabriela Faval, attivista per la decolonizzazione dell’Amazzonia, mi aiuta a capire meglio l’incastro meccanico delle istituzioni di governo messo in piedi da Bolsonaro e i suoi sostenitori, dandomi lezioni di geopolitica che investono l’intero continente sudamericano. Aiutandomi anche nel reperimento di contatti utili a cui dare voce.

Paulo Donizetti de Souza di Rede Brasil Atual, un periodico indipendente, mi illustra la situazione attuale del Brasile, dell’Amazzonia, legando tra di loro i fatti che stanno accadendo in Ecuador, in Cile, in Bolivia, in Venezuela e presto – chissà! – in Argentina con le nuove elezioni presidenziali imminenti: «La notizia dell’Amazzonia è scomparsa dai notiziari perché gli incendi si sono calmati, dopo che c’è stata una delle maggiori devastazioni nella storia recente del paese. Tutto ciò accade con maggiore intensità con il governo Bolsonaro, che ha distrutto il sistema di controllo che garantiva pene agli artefici degli incendi e dei disboscamenti. Le regole e le restrizioni ambientali per lo sfruttamento delle aree amazzoniche non sono rispettate, i funzionari del servizio vigilanza ambientale sono messi in condizione di scarsa attività e questo ha a che fare con il settore minerario o di grande imprenditorialità agricola come la coltivazione della soia, voluti dal governo Bolsonaro.

Sono settori che hanno investito molto nella sua elezione e che adesso stanno ottenendo ciò per cui lo hanno sostenuto. Il governo dovrà mettere in piedi altre misure neoliberali: la riforma della previdenza sociale, dei contratti di lavoro, la privatizzazione di grandi imprese statali di forte influenza strategica nell’economia del paese. Se il governo Bolsonaro non farà queste riforme di forte interesse per le società economico-finanziarie e mediatiche del Brasile e del mondo, metterà in difficoltà i mezzi di comunicazione, che solitamente danno le informazioni, non attribuendogli alcuna responsabilità al riguardo. Nonostante le scelte di governo: impegni che vanno al di là dell’aspetto economico-finanziario, impegni con il settore minerario, con l’agroindustria e anche con il sistema ecclesiastico evangelico conservatore grazie a cui ha l’appoggio anche sui social network. Infatti, con l’appoggio dei social network da un lato e con l’omissione dei grandi mezzi di comunicazione da un altro, Bolsonaro ha la sicurezza della sua serenità al governo, nel caso in cui il suo partito e il suo operato dovessero incontrare una grave crisi».

Gli chiedo, poi, chi si oppone a tutto questo, se gli indigeni riusciranno a vincere anche in Brasile. E se il popolo che ha votato Bolsonaro, oggi lo sceglierebbe ancora.

«Le comunità indigene, in questo momento, si stanno organizzando per fare una denuncia internazionale dell’azione devastatrice del governo Bolsonaro. Gli indigeni brasiliani vivono in comunità molto frammentate, distante l’una dall’altra, poiché essendo il paese di una dimensione quasi continentale, è molto difficile avere un’unica organizzazione coesa delle etnie che abitano il Brasile, che hanno resistito cinquecento anni dopo lo sterminio. In tutti i modi, hanno l’appoggio della gran parte della classe media brasiliana e della chiesa cattolica progressista, e di alcuni movimenti sociali, dei lavoratori sociali senza terra e delle comunità di studenti. Nel frattempo, questa capacità di resistenza non riesce ancora a diventare una forza fisica effettiva come sta accadendo in questo momento in Ecuador. Alla fine, questo governo porterà il paese a un impoverimento e alla disuguaglianza sociale, anche perché conta una esile opposizione, un alto livello di corruzione e la volontà di occuparsi delle riforme sociali e del lavoro, calpestando la dignità della persona.

Per questo, credo che tutto ciò che sta accadendo in Ecuador, in Cile, e in Argentina che la prossima domenica si prepara alle elezioni, allo stesso modo, in Brasile cresce, ma molto lentamente, il rifiuto per il presidente Bolsonaro. Il suo governo è cominciato con una prospettiva eccellente, era voluto dall’80% della popolazione, che oggi è diventata il 35%. Il suo appoggio popolare sta diminuendo mentre cresce il rifiuto, però non al punto di provocare una convulsione sociale, che accadrà quando le persone sentiranno sulla propria pelle, sulla tavola, nelle case, nella vita dei propri familiari gli effetti devastanti di questa politica che causerà disoccupazione e povertà, di cui stiamo già vedendo delle anticipazioni. Chissà quando il Brasile potrà riprendersi da tutto questo!»

Il continente giovane, la Cordigliera delle Ande, la conformazione più recente tra le vette più alte della Terra. Le nuove terre incontaminate. Gli ecosistemi che vantano la più complessa biodiversità del pianeta. L’oro, l’argento. Il petrolio!

Il Sudamerica! Ah, Sudamerica, Sudamerica, Sudamerica… canta Paolo Conte.

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