Il latte della speranza

Scritto da in data Febbraio 17, 2019

CARACAS – Il cane è spiaggiato sulle piastrelle del pavimento nella penombra del centro dell’entrata, i muri una volta bianchi sono anneriti dalla sporcizia e dal tempo. Scrostati, bucati, sembra che qualcuno li abbia presi a martellate. La gente gira intorno al cane, mentre i compagni fuori nel piazzale dove parcheggiano le macchine, saltano dentro i cassonetti dai quali spuntano camici usati nelle sale operatorie, rifiuti ospedalieri alla rinfusa. Le guardie di sicurezza dicono ai medici di non parcheggiare davanti all’entrata perché i furti sono incontrollabili.

All’interno le luci funzionano a intermittenza creando una sorta di cortocircuito visivo in quello che dovrebbe essere uno dei posti più importanti e sicuri per chi ha bisogno. Ma non è così, è solo uno degli antri di quei buchi neri che di cui sembra punteggiato il Venezuela ovunque si vada. Dai casermoni fatiscenti, dalle baracche sulle montagne, a quei volti affaticati che si incontrano nel quartiere povero, pericoloso e popolare di Catia. Le persone sembrano diverse da quelle che normalmente si incontrano in alcune zone di Caracas, sembrano consumate dal tempo, segnate dalla vita, bruciate dalle malattia, dalla droga, dall’impotenza. Si trascinano inesorabili con le loro magliette colorate, le pelli annerite dal sole cocente e i bambini che non mancano mai.

Ci fanno giurare che non faremo fotografie, che non faremo nomi, che non citeremo neanche il nome dell’ospedale perché la paura aleggia tra le viscere di quel labirinto di piani e corridoi scuri, dove le lampadine sono state rubate e mai più sostituite. Più si avanza, più l’odore di urina si fa pungente, la pediatra si scusa quasi fosse colpa sua: “Non c’è acqua in ospedale, a volte sembra possibile vivere senza avere l’acqua corrente a disposizione quando serve, ma in ospedale dove l’igiene dovrebbe essere il punto di partenza, non è così”.

Funziona un solo ascensore gestito da una signora seduta sulla sedia che ci fa segno di entrare velocemente. E’ la comandante dei piani. Al quarto ci sono i bambini ricoverati e c’è anche più luce forse per le finestre dai vetri crepati, forse perché siamo più in alto e non ci sono tende.
La dottoressa Valeria (non è il suo vero nome) sta facendo il giro di visite dei bambini ricoverati dopo aver dato un’occhiata alla sala di emergenza che hanno spostato al quarto piano per rallentare la rabbia dei genitori. “Di solito le emergenze stanno al piano terra in modo che si possa intervenire subito, ma quando i genitori scoprivano che a parte le nostre mani non abbiamo nulla e che in questo posto manca di quasi tutto, si arrabbiavano e ci aggredivano, così abbiamo pensato di stancare e filtrare le emozioni con 4 rampe di scale”.

Il corridoio è pieno di gente in attesa, i volti lunghi, i bambini sofferenti, un silenzio inusuale in quell’attesa estenuante. Valeria prosegue controlla bambini colpiti dalla febbre dengue, scambia due parole con i genitori, prosegue verso un caso di tubercolosi, due polmoniti poi entra in una stanza dove un padre tiene un bambino di 4 o cinque anni in piedi sul letto mentre un rigagnolo liquido di feci giallastre gli cola lungo la coscetta. Ci guardano come se fossero stati colti sul fatto, tra la vergogna e il non sapere cosa fare. Restano lì impietriti, padre e bambino come se per magia potessimo risolvere la situazione. Perfino la carta igienica costa troppo.

“Ha una violenta diarrea”, ci spiega la dottoressa, “cerchiamo di tenerlo idratato, ma pulirlo senza acqua è una bella sfida”, ripete mentre l’odore nauseabondo impregna l’aria della stanza.
“Ci serve tutto, anticonvulsivi, medicine per le epatite, antivirali, broncodilatatori. Guanti di lattice, cannule, le lenzuola, persino la mensa è stata levata. Qui facciamo il possibile, ma la verità è che se ci sono complicazioni, se quando una madre partorisce c’è qualcosa che non va, se il bimbo è prematuro, si muore. Questa settimana abbiamo visto morire 7 bambini che in ospedale normale si sarebbero salvati, noi invece dobbiamo scegliere chi ha più possibilità”. Poi ci indica un punto cieco, stanno ristrutturando la terapia intensiva da due anni. “Da due anni”, mormora come se fosse una condanna e di fatto lo è, una condanna a morte per chi ne ha bisogno. Le parole di Valeria pesano come pietre. Il suo viso non mostra emozioni tranne per una venuzza che le pulsa vicino ad una tempia. “Non si diventa medici per vedere morire i bambini morire perché non hai niente con cui curarli”. Se non richiudessero le loro emozioni in uno scaffale del loro cervello, verrebbero distrutti da quello che vedono ogni giorno, sopraffatti dal dolore, ma il rischio è anche di affondare il cuore nelle sabbie mobili del cinismo dove niente fa più veramente male o bene.

Scendiamo di due piani, le luci sono più forti, i visi più distesi, è dove le mamme partoriscono e se non ci sono problemi c’è ancora una sorta di gioia che impregna l’aria. Anche se poi si sa, bisognerà comprare i pannolini, il latte, la scuola. I figli sono un impegno economico. “Non fanno mai controlli medici prenatali, non sono seguite, le madri sono molto giovani, quando arrivano qui, ormai significa che stanno per partorire”.

Ci viene incontro un gruppetto di donne che trascina alcuni carretti carichi di scatole, si va in una stanza, semplice, fatiscente, con una bilancia per bambini, due scrivanie e un lettino. Ci passa accanto una barella con un materassino di pelle lisa, macchie di sangue, colori strani, grumi secchi, spinta da un infermiere che fa lo slalom tra la gente.
Le donne con i carretti sono volontarie di una fondazione, procurano il latte in polvere che costa sui 22mila bolivar, contro i 18 mila dello stipendio medio mensile di un impiegato, una confezione non dura più di una settimana. Servono 4 scatole al mese 88 mila bolivar, 25 dollari, una cifra irraggiungibile per la maggior parte delle persone di questo barrio, un grande quartiere dove quasi nessuno può permettersi di sfamare i propri figli se le madri non hanno latte. Allora le volontarie arrivano con barattoli su barattoli, 200 madri sono iscritte al programma, ogni venerdì vengono con i loro bambini appena nati, la dottoressa li pesa e qualcun altro segna l’andamento, se il piccolo pesa dai 200 ei 400 grammi in più, c’è un piccolo ululato di gioia, alla mamma vengono date due confezioni di latte e si passa al prossimo. Se invece il bambino non è cresciuto o peggio ha perso peso, la dottoressa accerchia la madre in un angolo e con durezza le chiede perché non ha dato il latte al bambino. La mamma rimpicciolisce al cospetto del camice bianco, blatera qualche scusa. “Se non ami il tuo bambino, noi non ti diamo più il latte, se lo vendi invece di darlo a tuo figlio, noi non ti diamo più il latte, se la prossima settimana non pesa di più, sei fuori”. La mamma promette e se ne va. Le volontarie quando consegnano il barattolo lo hanno preventivamente sconfezionato e aperto, proprio perché non sia più vendibile. Ma alcune madri sono furbe: visto che anche i pannolini sono un bene prezioso, la dottoressa pesa i piccoli con il pannolino assicurandosi che non siano bagnati e quindi più pesanti, ma l’ultima che arriva ha infilato sassi nel pannolino di suo figlio per farlo pesare di più. Un padre invece giura che sua moglie è morta che ha bisogno di aiuto, una volontaria sospettosa poi lo segue fino alla macchina e vede che la madre è lì che aspetta.

“La disperazione, la fame, la povertà fa fare cose tremende”. Ma la maggior parte delle mamme per quanto giovani sono amorevoli, portano alla dottoressa e alle volontarie mandarini e biscotti fatti in casa per ringraziarle, guardano il pezzetto di ferro della bilancia che si sposta in avanti e gioiscono all’aumento come se fosse una gara vinta. Stringono i loro figli al petto, raccontano storie di famiglie dove i padri se ne sono andati, dove non c’è lavoro, dove crescere un figlio è un’impresa difficile. “Ho diciotto anni”, racconta una madre, “studio ancora, ma sto cercando un lavoro”. Controllo delle nascite? Profilattici? Tutto troppo caro.
14 dei bambini che passano hanno l’Hiv, uno ha un problema mentale e l’ultimo di sette figli, altri invece sono arrivati settimane fa denutriti e ora sono paffuti e sorridenti.

Fiocchetti intorno alla testa colorata delle bambine quasi andassero a una festa. Sono tutti piccoli, avranno il latte per un anno anche se dovrebbe essere dato fino ai due anni, ma di più non si riesce a fare. “Ci serve aiuto”, mormora qualcuno parlando degli aiuti umanitari.
Nessuno piange, questi bimbi sono talmente poveri che anche le lacrime sembrano un lusso, quasi tutti hanno un nastrino rosso legato intorno al polso con un pezzetto di ebano all’interno che tiene lontano il malocchio, perché l’invidia è tanta spiega una madre con una canotta e un paio di fuseaux lisi. Invidia per cosa? Di quella latta di metallo piena di polvere bianca che vale più di uno stipendio?

“Sono quelli che siamo riusciti a salvare, ma alcuni arrivano troppo tardi”, la dottoressa mostra la foto di un bimbo con due piedi neri, marci: “Se entro qualche giorno non accadrà qualcosa si dovranno amputare e non ha neanche sei mesi”.

Il latte che la fondazione ha portato è scaduto da poco per questo l’azienda lo regala, ma va ancora bene assicura la dottoressa che regala qualche pannolino e un lecca lecca alle mamme più diligenti. Qualcuna porta dei gemelli, vuol dire il doppio o il triplo di tutto, anche del latte. Questi aiuti che vengono distribuiti non sono legali, il governo non vuole, la direttora precedente dell’ospedale è finita in galera, per questo c’è molta paura e attenzione, ma i medici che sono rimasti provano a combattere e a non accettare l’inesorabile. Ci sono 8 medici nel reparto pediatrico, dovrebbero essere 30, ma gli altri hanno lasciato il paese e nessuno è stato sostituito.

—> Questo assignment in Venezuela è stato finanziato dai sostenitori e amici di Radio Bullets. Se credete in un giornalismo indipendente, serio e che racconta dai posti, potete farlo andando su Sostieni.

 

In questi giorni stiamo cercando di capire cosa stia succedendo in Venezuela e abbiamo parlato con diverse persone che spiegano come si è arrivati a questo punto con una storicacosa potrebbe essere fatto ce lo spiega l’economista  e soprattutto come si vive in un paese dove lo stipendio medio è di 5 euro e una scatola di tonno, tra l’altro oggi introvabile, ne costa 7: Il prezzo della crisi. 

Sulla questione dei diritti umani, leggete o ascoltate l’intervista ad Alfredo Romero del Foro Penal

 

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Opinioni dei Lettori
  1. lesbia yrene gomez   On   Febbraio 20, 2019 at 9:25 pm

    Barbara, complimenti per il vostro lavoro!!! Grazie per fare capire la situazione in Venezuela

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