Mediterraneo Centrale, migranti e soccorso in mare
Scritto da Angela Gennaro in data Agosto 25, 2018
Due sono stati i soccorsi operati il 10 agosto scorso dalla nave Aquarius operata da SOS Mediterranée in collaborazione con Medici senza Frontiere. In occasione del secondo – il salvataggio di 116 persone, bambini di 10 mesi e meno di cinque anni inclusi – a bordo di un barchino di legno, sono salita in una delle lance di salvataggio con la mia telecamera. Le prime persone erano state portate sull’Aquarius, mancava ancora metà barchino da portare in salvo con i trasbordi con i rhib.
I soccorritori hanno cominciato a far salire sulle lance i ragazzi e le ragazze (non ho la loro carta d’identità, ma tutti quelli che poi mi hanno detto a bordo di avere 15-16-17 anni li dimostravano tutti. Erano ragazzini, bambini. Ed erano tanti).
Accanto a me, nella lancia che pian piano si caricava di persone, si siede un ragazzo. Lo sguardo perso, la bocca che ogni tanto si muove, forse cercando acqua, forse cercando di parlare. Abbasso lo sguardo: la sua coscia è esattamente metà della mia. Metà. E così tutti gli altri: molti di loro sono eritrei e somali. Gli prendo una mano e la piazzo silenziosamente sulla corda del rhib, facendogli gesto di tenersi per non cadere in acqua. Lo fa, mentre l’altra mano gli resta a mezz’aria mostrando i segni della scabbia.
(Sto leggendo gente che dice che le persone a bordo della Diciotti devono stare in quarantena perché hanno la scabbia. ma google non lo sapete usare? O chiedere? Io ho chiesto, ad esempio. Chiedere non uccide, possiamo assicurarlo).
Una ragazza accanto a lui ha occhi brillanti e uno sguardo vigile ma fisso davanti a sé. Provo a farle incrociare il mio perché neanche lei si sta tenendo e io riesco solo a pensare benedetti figlioli reggetevi e tra pochissimo starete meglio. E niente, lei incrocia il mio sguardo e inizia a sorridere. Vede il mio sorriso e sorride, e quegli occhi sono così luminosi che sorride e sorride, e non vede il mio gesto silenzioso che tenta di spiegarle la patetica preoccupazione pseudomaterna: figlia, tieniti. Alla fine mi allungo e prendo anche la sua mano, avvicinandola alla corda. Lei continua a sorridere, quasi a ridere, divertita. E mi sorride per i successivi cinque giorni, fino allo sbarco. Il primo ragazzo, invece, l’ho perso. Non l’ho più trovato sulla nave.
Non so dove siano ora, non ne ho idea. Li hanno portati al centro temporaneo di Marsa, a Malta – io e Maurine Mercier siamo andate il giorno dopo lo sbarco. Ma ci hanno detto che non potevamo entrare e che avrebbero inoltrato la nostra richiesta a chi di competenza. Mai più sentiti. Siamo riuscite a parlare a gesti da fuori con alcune donne che erano sul balcone. Dicevano di stare bene.
So che non dimenticherò mai quei momenti, né dimenticherò lo sguardo di chi mette piede sulla nave dopo essere stato portato in salvo dopo tre giorni in mare, e pensare che era anche un mare calmo. Lo sguardo che si scioglie. Qualcuno cade a terra, qualcuno si trascina. Ma gli occhi. Ho visto persone che volevano vivere. E che erano felici di essere vive. Per questo hanno poi suonato, cantato, ballato. Una felicità semplice, forse la base di tutto, che noi abbiamo dimenticato.
Nessuno dovrebbe passare attraverso quello che accade in Libia. Nessuno al mondo. A tanti farebbe bene invece andare a dare un’occhiata lì in mezzo al mare, durante un soccorso. Non è pericoloso, puoi restare a osservare a bordo di una nave stabile e al massimo rischi il mal di mare immediatamente curabile con pastiglietta.
Un’occhiata a quei volti. Quelle persone. E il mare che provano ad attraversare.