A che punto è la notte: la società signorile di massa
Scritto da Pasquale Angius in data Giugno 1, 2021
Il sociologo Luca Ricolfi ha definito la società italiana una «società signorile di massa», vediamo più nel dettaglio la sua suggestiva interpretazione.
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La società signorile di massa
Riprendiamo in questa puntata l’analisi sul declino del nostro paese.
La sociologia è quella branca delle scienze umane che studia come sono strutturate e si evolvono le collettività, le società. La sociologia fornisce, a chi si occupa di economia, spunti, analisi, dati che sono utilissimi per comprendere anche i fenomeni e i comportamenti economici. In Italia abbiamo sempre avuto ottimi sociologici a cominciare, a cavallo tra Ottocento e Novecento, da un intellettuale come Vilfredo Pareto.
Negli ultimi decenni possiamo ricordare professori come Giuseppe De Rita, Domenico De Masi, Ilvo Diamanti, per citarne alcuni, ma oggi parleremo di Luca Ricolfi, professore per molti anni all’Università di Torino, da poco andato in pensione. Un intellettuale molto acuto e mai banale le cui riflessioni e analisi compaiono anche su alcuni quotidiani. Ricolfi nell’autunno del 2019 pubblicò un libro con l’editore La Nave di Teseo che si intitolava “La società signorile di massa”. Quel saggio non ha avuto la dovuta attenzione da parte dei media perché qualche mese dopo scoppiò la pandemia da coronavirus e fummo tutti travolti da un nuovo e inaspettato problema.
In quel libro Ricolfi, con un rigore intellettuale tipicamente sabaudo, propone un’interpretazione suggestiva della crisi della società italiana che cercheremo di sintetizzare in questa puntata. Dire che quella tesi è suggestiva non significa ovviamente sposarla o condividerla acriticamente. Ma il quadro che ci viene offerto, più da un punto di vista sociologico che economico, è certamente originale e, sia pure con qualche generalizzazione e qualche imprecisione, è tuttavia abbastanza realistico.
Partiamo da una citazione testuale dal libro di Ricolfi, la seguente:
“… l’Italia non è una società del benessere afflitta da alcune imperfezioni… ma è un tipo nuovo, forse unico, di configurazione sociale. La chiamerò “società signorile di massa” perché essa è il prodotto dell’innesto, sul suo corpo principale, che resta capitalistico, di elementi tipici delle società signorili del passato, feudale e precapitalistico. Per società signorile di massa intendo una società in cui l’economia non cresce più e i cittadini che accedono al surplus senza lavorare sono più numerosi dei cittadini che lavorano”.
Dati e numeri
Secondo Ricolfi la società italiana contemporanea si caratterizza per alcuni dati oggettivi:
- il numero di italiani che non lavora supera il numero di coloro che lavorano. Circa il 57% dei cittadini italiani di età superiore ai 14 anni non lavora
- la condizione signorile, ovvero accedere al surplus senza lavorare, che nel passato era un privilegio di pochi riservato a una minoranza, oggi è una condizione maggioritaria, riguarda più della metà degli italiani. Ciò accade anche perché i redditi provengono sempre più da fonti diverse dal lavoro come le rendite e i trasferimenti assistenziali
Oggi per la prima volta nella storia italiana si verificano tre condizioni assieme che permettono di parlare di società signorile di massa:
- il numero di cittadini che non lavorano ha superato il numero di coloro che lavorano
- la condizione signorile, ovvero l’accesso a consumi opulenti da parte di cittadini che non lavorano, è diventato di massa
- l’economia è entrata in stagnazione o decrescita
In Italia abbiamo quindi una minoranza di produttori che lavora e genera surplus e una maggioranza di inoccupati che al surplus può accedere senza produrlo. In termini statistici abbiamo un 52,3% di italiani che non lavorano, un 39,9% che lavorano e poi c’è un 7,8% di stranieri. Tra gli stranieri uno su tre vive in povertà, mentre nella popolazione italiana solo il 6% vive in condizioni di povertà. La bassa percentuale di italiani che lavorano è un unicum nelle società sviluppate. Nonostante la straordinaria crescita del benessere nella gran maggioranza delle società avanzate, il numero di persone che lavorano è decisamente superiore a quelle che non lavorano.
In secondo luogo, per parlare di consumo signorile, occorre non solo che il surplus consumato senza erogare alcun lavoro riguardi almeno metà della popolazione, ma che per una parte non trascurabile tale consumo sia cospicuo, ovvero capace di soddisfare esigenze che, tipicamente, in passato solo i signori potevano permettersi.
La terza condizione è che l’economia è ferma e quindi, mentre in una società che cresce chiunque può pensare che il progresso del vicino non sia a sue spese, in una società a crescita zero gli avanzamenti di uno implicano, necessariamente, l’arretramento di qualcun altro. Con un’ulteriore complicazione: dal momento che l’economia e la società cambiano continuamente la competizione per i consumi, il prestigio e lo status è diventata più feroce che mai.
I pilastri della “società signorile di massa”
La “società signorile di massa” poggia su tre pilastri fondamentali.
Il primo è l’enorme ricchezza, sia reale che finanziaria, accumulata dalle generazioni precedenti. Oggi la famiglia media italiana è formata da poco più di 2 persone, ha un reddito annuo medio di circa 50.000 euro e un patrimonio medio, in gran parte costituito da immobili, quindi case, pari a circa 400.000 euro, un livello tra i più elevati nei paesi avanzati.
Il secondo pilastro è l’abbassamento degli standard dell’istruzione con tutte le conseguenze che ne sono derivate: inflazione dei titoli di studio, rallentamento della produttività, riduzione della mobilità sociale, frustrazione collettiva. Dal momento che la scuola e l’università hanno continuato a rilasciare certificati che nulla garantiscono, hanno reso possibile a milioni di giovani e meno giovani di credersi in possesso di abilità e talenti che il mondo del lavoro, meno idealista, non sempre scorgeva e meno che mai si sognava di riconoscere. I giovani quindi aspirano a redditi elevati e posizioni di prestigio perché i titoli rilasciati dalla scuola e dall’università certificano la legittimità delle loro aspirazioni, e possono quindi permettersi di rifiutare le offerte di lavoro che percepiscono come inadeguate perché la generazione dei padri ha accumulato una quantità di ricchezza senza precedenti. Senza questa riserva di valore la scelta di non lavorare poggiando sul reddito di chi lavora sarebbe stata semplicemente inconcepibile. Senza decenni di risparmio dei padri, l’Italia non avrebbe il record europeo di cosiddetti NEET (Not in employement, education or training), cioè di giovani che non lavorano, non studiano, non sono impegnati in un percorso di formazione. In Italia i NEET sono il 30,9% dei giovani tra i 25 e i 29 anni, il doppio o il triplo che negli altri paesi europei.
Il terzo pilastro è la formazione di una infrastruttura “paraschiavistica”, con posizioni sociali e lavorative infime se non quasi di tipo servile, da parte soprattutto degli immigrati stranieri. Di questa infrastruttura fanno parte diverse tipologie di lavoro: lavoratori stagionali, ipersfruttati nei campi per la raccolta di frutta e verdura, prostitute, personale di servizio che svolge mansioni domestiche presso le famiglie, dipendenti in nero, soprattutto braccianti, lavoratori dell’edilizia, addetti alle consegne. Circa 3 milioni di persone, in prevalenza straniere, rientrano nelle categorie sopra citate. Ci sono poi le situazioni di confine nelle quali la condizione di sottomissione dipende dal basso livello dei salari e dalla mancanza di inquadramento contrattuale e riguarda categorie come: commesse, camerieri, pizzaioli, lavapiatti, portieri di albergo, segretarie.
Ma ci sono anche altri segmenti di confine: chi si occupa della catena di distribuzione degli stupefacenti per conto della criminalità organizzata, la parte meno tutelata della gig economy, o economia dei lavoretti, soprattutto nell’ampio settore delle consegne a domicilio, di cibo e altro. Ci sono poi i servizi esternalizzati come quelli di pulizia, sorveglianza, assistenza da parte di imprese, esercizi commerciali e settori della pubblica amministrazione. Altri 2 milioni di lavoratori rientrano in queste categorie.
Le tre categorie della società
Abbiamo quindi una società costituita da tre categorie:
- coloro che appartengono all’infrastruttura paraschiavistica, persone che lavorano molto per salari da fame, con pochissime o nessuna tutela
- coloro che lavorano regolarmente, che sono comunque una minoranza della popolazione (meno del 40%)
- coloro che pur non lavorando, quindi senza produrre reddito, hanno accesso, grazie ai redditi e alla ricchezza cumulata nel tempo dalle loro famiglie, a consumi opulenti. Quest’ultima categoria, che rappresenta all’incirca poco più della metà della popolazione italiana, ha molto tempo libero che impiega prevalentemente in attività di svago e di divertimento, dagli aperitivi alle vacanze, dal fitness ai più moderni apparati tecnologici. Costoro sono i nuovi “signori”, coloro che consumano senza produrre, come accadeva nelle società precapitalistiche per i nobili, il clero e pochi altri privilegiati
Nella società “signorile di massa”, accanto agli strati maggioritari che accedono al consumo signorile, coesistono certamente strati che ne sono esclusi: buona parte degli immigrati, i lavoratori dell’infrastruttura paraschiavistica, ma anche quella frazione di italiani che, pur essendo al di sopra della soglia di povertà assoluta, le sono pericolosamente vicini.
Qualcuno potrebbe chiedersi a questo punto da dove vengono le risorse per espandere i consumi voluttuari se l’economia ristagna, perché i consumi voluttuari comunque hanno continuato a crescere. Una prima spiegazione è la riduzione di alcune voci del bilancio familiare, come le spese per i pasti in casa e per il vestiario. La seconda è la riduzione del risparmio, un processo che dura da una dozzina d’anni, ossia dallo scoppio della crisi del 2008. La terza è ricorrere alla ricchezza accumulata smobilizzandone una parte. La quarta è indebitarsi, e infatti il credito al consumo è cresciuto. La quinta è buttarsi nel mondo degli sconti, delle promozioni, degli outlet. C’è poi l’evasione fiscale. Ma c’è anche un’altra soluzione: prendere congedo dalla cultura del possesso e abbracciare quella dell’uso, cioè tutte le forme di sharing, di condivisione. C’è un’altra soluzione anora: mettere a frutto i beni che si posseggono, affittare delle stanze della propria abitazione per esempio, con Airbnb e altre soluzioni simili, mettere a disposizione la propria auto per portare, a pagamento, altre persone con servizi come BlaBlacar, ospitare un immigrato in cambio dei contributi che danno i Comuni.
La cultura dell’uso è il tratto più visibile della “mente signorile”, non più una vita di sacrifici per raggiungere degli obiettivi (per esempio comprarsi una casa) ma la ricerca costante di mezzi per far sgorgare il reddito dalle cose stesse che si posseggono, possibilmente senza apporto di lavoro.
La “società signorile di massa” potrebbe, da un certo punto di vista, essere interpretata come un fatto positivo: stiamo bene, siamo ricchi, possiamo permetterci uno stile di vita del genere. Ma ci sono diversi problemi.
I problemi in una società signorile di massa
Un primo problema è che, dato che determinati lavori faticosi, sgradevoli, stressanti non sono né eliminabili né facilmente automatizzabili, una società signorile di massa non può esistere senza una robusta infrastruttura paraschiavistica.
Ma il progetto di restare opulenti senza crescere si scontra con alcune difficoltà. Ormai le economie avanzate sono economie aperte che dipendono pesantemente dall’esterno. Ciò significa che abbiamo bisogno dei mercati finanziari per rifinanziare il debito pubblico, e delle importazioni per acquistare beni e servizi che ormai producono solo gli altri ma di cui abbiamo bisogno: materie prime, energia, macchinari, medicinali, beni di consumo tecnologici. Da queste due dipendenze discendono due necessità. La prima è avere conti pubblici in ordine per evitare una crisi di fiducia sui mercati finanziari. La seconda è avere esportazioni competitive con le quali finanziare le importazioni. Ma un’economia che ha smesso di crescere ha più difficoltà a finanziare il debito pubblico sia perché ha meno risorse di un’economia che cresce, sia perché i tassi d’interesse richiesti dai mercati finanziari sono tanto più alti quanto meno il paese cresce. Ma il nodo cruciale sono le esportazioni. Per poter importare quel che ci serve dobbiamo riuscire a esportare almeno per un valore comparabile. Anche se accettassimo di non crescere più in termini di reddito, dovremmo continuare a correre per non perdere posizioni, per non andare indietro nel tenore di vita. Si può fare, a condizione però che la nostra produttività cresca a un ritmo non inferiore a quello dei paesi con i quali dobbiamo misurarci sui mercati internazionali.
Ma il problema è che la nostra produttività, la produttività del nostro lavoro, è anch’essa ferma da vent’anni. Un fatto sbalorditivo se pensiamo ai progressi tecnici e organizzativi che ci sono stati negli ultimi due decenni. Cos’è dunque che ha annullato i benefici del progresso tecnico? Secondo Ricolfi è l’eccesso di normazione, o meglio, l’ipernormazione che moltiplica i centri decisionali e gli adempimenti, complica le procedure, allunga i tempi delle autorizzazioni e per questa via aumenta i costi di produzione.
La “devolution” all’italiana
L’obiezione che si può fare a questa spiegazione è che la burocrazia in Italia è sempre esistita, ma fino a vent’anni fa l’economia cresceva ugualmente: allora dove sta il problema? Il problema ci dice sempre Ricolfi, sta nella “devolution” all’italiana. Ovvero il decentramento amministrativo iniziato nel 1997 con le leggi Bassanini e completato nel 2001 con la riforma del titolo V della Costituzione, un processo che si è ulteriormente aggravato dopo gli accordi di Maastricht e la scelta di incorporare nella nostra legislazione l’enorme massa di direttive provenienti dall’Unione Europea. La riforma del Titolo V, mettendo sul medesimo piano ben 5 strutture paritetiche: Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato ha comportato un aumento del peso della burocrazia e dell’ingerenza su di essa esercitata dai partiti politici.
Se la produttività non cresce non solo è difficile far crescere il PIL ma, alla lunga, diventa difficile anche solo conservarne il livello raggiunto. Ecco perché il ristagno della produttività è il nostro problema centrale e finché questo dato di fondo non cambierà, pensare di poter galleggiare sul benessere acquisito resterà un’ingenua illusione. Il ristagno della produttività, combinato con la nostra preferenza per il tempo libero, renderà sempre più difficile aumentare ancora la nostra ricchezza. Prima o poi la stagnazione si trasformerà in declino, un declino lento ma sicuro.
La situazione dell’Italia è del tutto singolare. Siamo abbastanza prosperi per permettere a molti di noi di non lavorare, ma non siamo abbastanza produttivi per permetterci di conservare a lungo la nostra prosperità. Il modello interpretativo della crisi italiana elaborato dal professor Ricolfi sicuramente presenta alcune debolezze, anche qualche forzatura − per esempio, ci permettiamo di notare che in quel 60% di italiani che non lavorano molti sono semplicemente pensionati e la gran parte hanno pensioni che si aggirano sui 1.000 euro mensili, non certo “signori” che possono permettersi consumi opulenti. Al di là di questa e altre critiche che si potrebbero muovere, quella del professor Ricolfi è comunque un’interpretazione originale, con diversi fondamenti. Consigliamo pertanto la lettura di quel libro perché offre diversi spunti di riflessione.
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