A che punto è la notte: viaggio nella crisi italiana

Scritto da in data Maggio 10, 2021

L’Italia è ormai da anni un paese in declino dal punto di vista economico, declino accentuato dalla pandemia: cerchiamo di capirne le cause.

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A che punto è la notte?

Dedicheremo questa puntata, e alcune prossime, alla crisi del nostro paese. Il titolo che abbiamo dato a questa serie, “A che punto è la notte”, riprende quello di un vecchio romanzo giallo della coppia Fruttero & Lucentini, una storia ambientata a Torino dalla quale fu tratta anche una serie televisiva interpretata, tra gli altri, da Marcello Mastroianni.

Si partiva dall’omicidio di un prete, e indagando su quel delitto lo scanzonato commissario Santamaria, interpretato da Mastroianni, si ritrovava in un groviglio di piste, tracce, indizi, personaggi tra i quali rinvenire il bandolo della matassa era molto complicato. Il commissario si domanderà più volte nel corso dell’indagine: «A che punto è la notte?». In realtà quella domanda è una citazione biblica da Isaia 21 che suona più o meno così: «Sentinella a che punto è la notte?» e la sentinella risponde: «La notte sta per finire ma l’alba non è ancora arrivata». Da quella domanda, che in ebraico si dice: «Shomèr-ma mi illailah», Francesco Guccini si ispirò per una delle sue canzoni.

La domanda da cui partiamo oggi è quindi: «A che punto è la notte?». La notte di cui parliamo è la crisi di un sistema, il “sistema Italia”, un paese che continua ad avvitarsi nei suoi atavici problemi senza riuscire a trovare un’adeguata via d’uscita. Un paese perennemente in bilico tra modernità e arretratezza.

La pandemia morde ancora con centinaia di vittime ogni giorno, la crisi economica segue di conseguenza, da un anno a questa parte siamo entrati in un incubo che nessuno poteva immaginare e le poche, uniche certezze sulle quali possiamo contare sono che i problemi storici del nostro paese lì erano e lì sono rimasti. Abbiamo uno Stato che non funziona, una burocrazia soffocante, un’etica pubblica inesistente. Anche l’apparizione del nuovo “messia”, il “migliore” degli italiani, Mario Draghi, sceso dall’empireo della grande finanza e delle grandi strategie a scodellare decreti sui colori delle regioni, su ristori inadeguati che sempre faticano ad arrivare, non sembra aver prodotto quel miracolo che molti auspicavano. Anche Mario Draghi, arrivato nella famigerata “stanza dei bottoni” ha scoperto che… hai voglia a schiacciar bottoni ma se manca la corrente elettrica non succede nulla.

Un paese impreparato

Siamo uno dei paesi europei con la più alta pressione fiscale, ma quando arriva un’emergenza siamo sempre impreparati. Che si tratti di un terremoto, di un’alluvione o di un problema sanitario, non si capisce mai chi deve intervenire, chi deve decidere, chi deve fare e cosa deve fare. Il risultato è che l’emergenza viene affrontata sempre con l’improvvisazione, la fantasia, la dedizione e il coraggio degli italiani che di fronte alle difficoltà sanno ritrovare anche quello spirito collettivo che supera i piccoli egoismi, gli interessi personali, l’irriducibile tendenza a “paracularsi” in qualche modo. Nei momenti più difficili della loro storia, gli italiani sono capaci di ritrovare l’orgoglio e il coraggio. Accadde nella Prima Guerra Mondiale dopo la disfatta di Caporetto, accadde nella Seconda Guerra Mondiale con la Resistenza al nazifascismo; accadde negli anni Cinquanta quando c’era da ricostruire un paese distrutto dalla guerra e le generazioni dei nostri nonni e dei nostri padri si rimboccarono le maniche, lavorando come ciucci per creare le premesse di quel benessere di cui abbiamo goduto fino a qualche anno fa; è accaduto di fronte alla pandemia da Coronavirus quando centinaia di sanitari hanno perso la vita facendo il loro dovere, lasciati nei primi mesi, letteralmente, a mani nude contro un virus letale.

Il problema è che non dovrebbe funzionare così. Le emergenze si dovrebbero affrontare con l’organizzazione, con la capacità previsionale, con la definizione precisa di procedure, con l’attribuzione di compiti e responsabilità, con sistemi efficaci di verifica e di controllo sull’operato delle pubbliche amministrazioni e sulle modalità di spesa dei soldi pubblici.

In quest’ultimo anno abbiamo visto invece conflitti tra stato centrale e amministrazioni locali, confusione, ritardi, scarichi di responsabilità. Sistemi informatici di aziende pubbliche costati un occhio della testa che quando servono non funzionano mai, sostegni economici che arrivano a “babbo morto”, quando arrivano, quantità industriali di soldi pubblici spesi per acquistare mascherine farlocche, banchi a rotelle, monopattini e altre cose assolutamente inutili. A contorno, poi, il solito circo di furbetti che riescono a far soldi con contratti fasulli, furbetti che saltano la fila per accaparrarsi un vaccino, furbetti che con la scusa dello smart working continuano a non far nulla a casa loro, invece di continuare a non far nulla in qualche ufficio pubblico.

Perché lo stato non funziona?

Di fronte a questo disastro la via emotivamente più soddisfacente sarebbe quella di prendersela con i politici, di sbraitare in maniera generica contro quella “manica di forchettoni” che ci governa, di invocare le ghigliottine salvo poi, appena sbollita la rabbia, lagnarci che a causa del lockdown non possiamo fare l’apericena.

Mettiamo da parte le smanie di giustizia sommaria e cerchiamo invece di capire in questa puntata e nelle prossime perché in Italia lo Stato non funziona, perché l’unica cosa organizzata che riusciamo ad avere in questo benedetto paese è soltanto la criminalità.

Partiamo da alcuni dati, perché quando si parla di economia si dovrebbe sempre partire dai dati perché i dati non mentono, ci danno un quadro chiaro della situazione e se continuiamo a trastullarci con visioni consolatorie questa notte non finirà mai e non riusciremo a rivedere l’alba. Per come siamo messi, siamo destinati a un lento ma inesorabile declino, quindi guardiamoci un attimo allo specchio anche se quel che vedremo non è detto che ci piacerà.

I dati della crisi

La pandemia si è portata via in poco più di un anno circa 122.000 italiani che hanno perso la vita e circa un milione di posti di lavoro, perdita che ha colpito percentualmente di più i giovani e le donne. L’occupazione femminile, cioè la percentuale di donne che lavorano sul totale delle donne, che era già tra le più basse in Europa, è tornata ai livelli di 25 anni fa.

In un anno abbiamo anche un milione di poveri in più, per tre quarti nelle regioni del Nord. Il fermo forzato di interi settori produttivi ha falcidiato le piccole partite Iva, i piccoli commercianti, i piccoli imprenditori, i precari, coloro che lavoravano in nero nei settori più colpiti, per esempio la ristorazione, il comparto alberghiero, i trasporti, i servizi alla persona.

Sono aumentati anche quelli che gli americani chiamano “working poors”, coloro che lavorano ma non guadagnano a sufficienza per garantirsi un livello di vita dignitoso. I “lavoratori poveri” sono cresciuti soprattutto nel lavoro autonomo ma anche tra gli operai.

D’altronde, per avere una visione plastica delle difficoltà che stiamo passando, basta farsi un giro a Milano davanti alle sedi di Pane Quotidiano, una onlus che distribuisce gratuitamente pasti e generi alimentari a chi ne ha bisogno. Nell’ultimo anno le code sono diventate chilometriche, e parliamo di Milano, una delle aree più ricche e dinamiche del paese.

Nel 2020 il PIL dell’Italia è crollato dell’8,9%, uno dei dati peggiori tra i paesi sviluppati, ma il PIL italiano è da 20 anni che è fermo. Nei primi due decenni del nuovo secolo il PIL italiano è cresciuto del +3,4% in vent’anni, significa una crescita annua dello 0,17%: in pratica siamo rimasti fermi. Al confronto, altri paesi europei come Francia, Germania, Spagna, Olanda, nello stesso periodo hanno avuto una crescita tra il 26% e il 30%.

Il rapporto tra debito pubblico e PIL nel 2020 è salito al 156%, una cifra record, e nell’ultimo anno soltanto lo scudo germanico messo in campo dalla Merkel con il Recovery Fund e i programmi di espansione monetaria della BCE hanno impedito all’Italia di finire in default.

Il deficit demografico

Il paese ha un evidente deficit demografico ma nessuno se ne occupa e se ne preoccupa. Che la demografia sia fondamentale per le prospettive economiche di un paese non c’è bisogno di essere un economista per capirlo.

Nel 2020 a causa del Covid, a causa dell’aumento dell’incertezza economica che ha spinto molte coppie giovani a non procreare, e a causa della riduzione delle migrazioni la popolazione italiana è diminuita di quasi 400.000 unità. Siamo l’unico grande paese dell’Europa con una popolazione in declino.

I deficit demografici da sempre, dai tempi dell’Impero romano, si affrontano in due modi: aumento della natalità e immigrazioni. In Italia, che è un paese in maggioranza cattolico, dove sui temi della famiglia si fa molta retorica, nessun governo è finora riuscito a impostare un programma coerente e di lungo periodo per favorire la natalità.

Il Welfare State all’italiana è un mondo fatto di sussidi e bonus elargiti dalla politica, spesso a chi non ne ha bisogno, per conquistare consensi, più che un sistema organico di diritti e prestazioni adeguate.

La seconda modalità si chiama immigrazione, un tema che subito scatena i bollori sia a destra che a sinistra, e qualunque tentativo di fare ragionamenti seri, di buon senso, scientifici, quindi ascoltando per esempio i demografi, viene annichilito dalla irrefrenabile smania di buttare tutto in caciara e cominciare la singolar tenzone tra i propugnatori dei porti aperti e i propugnatori dei porti chiusi, tra chi dice «prima gli italiani» e chi dice che siamo tutti uguali e quindi non ci può essere chi viene prima e chi viene dopo. Il risultato finale è che il problema non viene affrontato, l’immigrazione non viene governata e un fenomeno che crea conseguenze economiche e sociali importanti viene lasciato al libero fluire degli eventi, che prima o poi si incaricano sempre di presentarsi con tutta la loro drammaticità a coloro che quegli eventi non sono stati capaci né di prevedere né di affrontare.

Senza usare tanti giri di parole, possiamo dirlo in maniera sintetica anche se piuttosto cruda: siamo un popolo di somari! Il 60% degli italiani non legge manco un libro all’anno, almeno il 30% degli italiani adulti è semianalfabeta, ovverossia ha capacità limitate di lettura, di comprensione di un testo o di un discorso e di calcolo. Soltanto il 19% della popolazione italiana ha una laurea e un altro 42% ha il diploma di scuola superiore. Il 39% degli italiani ha la licenza media, la licenza elementare… e qualcuno nemmeno quelle.

L’Italia: una legislazione che ha uno Stato!

Abbiamo una quantità enorme di leggi, norme e regolamenti che fanno la felicità e il benessere di avvocati, commercialisti, fiscalisti e consulenti vari ma che rendono la vita estremamente complicata a chi vuole fare impresa, a chi vuole aprire un’attività in proprio.

Nella classifica internazionale sulla facilità di fare business, l’Italia è al 58° posto, tra il Kossovo al 57° e il Cile al 59°. Non esattamente un posizionamento lusinghiero.

Con una felice sintesi, l’aveva detto anni fa persino il professor Giulio Tremonti, (molto bravo anche a lui a criticare, salvo fare come tutti gli altri, quando ha avuto responsabilità di governo): «L’Italia non è uno Stato che ha una legislazione ma una legislazione che ha uno Stato!».

Tra l’altro questo profluvio di leggi, il più delle volte mal concepite e scritte ancor peggio, in contraddizione l’una con l’altra, spesso serve non per tutelare il bene comune, i diritti di tutti ma per tutelare interessi di parte, di lobbies più o meno organizzate capaci di fare pressione sulla politica.

Il federalismo, grande totem con il quale l’intera classe politica italiana, da destra a sinistra, si trastulla da quasi tre decenni, sinora ha prodotto più sconquassi che altro. L’idea leghista che tutti i problemi fossero concentrati in “Roma ladrona”, la capitale corrotta e corruttrice, sentina di ogni vizio nazionale, e che quindi decentrando funzioni, responsabilità, capitoli di spesa, si sarebbe rigenerato uno Stato intrinsecamente “borbonico”, si è schiantata definitivamente di fronte alla pandemia e alla sua fallimentare gestione, soprattutto a livello regionale. Avere 20 sistemi sanitari regionali invece di un unico sistema sanitario nazionale è servito soltanto a moltiplicare i costi, a complicare le procedure, ad accentuare sprechi e inefficienze.

La sgangherata riforma del Titolo V della Costituzione, realizzata vent’anni fa dal centro sinistra nel tentativo un po’ patetico di inseguire la Lega sul suo stesso terreno, ha prodotto una serie infinita di inefficienze, di sprechi e di dispute sull’attribuzione dei poteri tra i diversi livelli dello Stato. Non aver previsto una chiara clausola di supremazia del governo centrale ha finito per creare un sempiterno marasma istituzionale

La pubblica amministrazione è allo sfascio per varie ragioni. Per decenni è stata una sorta di “stipendificio”, soprattutto al Sud ma non solo. In mancanza di un welfare adeguato, in mancanza di lavoro, il famigerato posto fisso nella pubblica amministrazione è stato, per decenni, il sogno di molti giovani soprattutto meridionali. Le alternative spesso erano l’emigrazione o la criminalità organizzata.

Negli ultimi decenni l’ideologia neoliberista ha pompato l’avversione della pubblica opinione, o comunque di una parte di essa, contro i dipendenti pubblici, categoria generica identificata tout court con il fannullone per eccellenza, il perdigiorno che trascorre la sua giornata lavorativa tra approfondite letture dei giornali, interminabili pause caffè, falsificazione dei cartellini delle presenze, pennichelle e assenze ingiustificate.

La politica ha cercato di strumentalizzare per fini elettorali questa situazione, invece di fare qualcosa per risolverla. La destra, nel tentativo di recuperare consensi tra il popolo delle “partite IVA”, per anni ha attaccato a testa bassa il settore pubblico, sentina di tutti i vizi italiani. La sinistra, a sua volta nel tentativo di recuperare consensi tra i lavoratori pubblici, ha attaccato a testa bassa i lavoratori autonomi accusati tutti di essere incalliti evasori fiscali. Come sempre accade in Italia la si butta in caciara per non affrontare i problemi.

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