Potete ucciderci, ma non smetteremo di studiare

Scritto da in data Maggio 10, 2021

Era un tranquillo sabato pomeriggio e centinaia di ragazze stavano lasciando la scuola, quando un’esplosione le ha travolte. Nel giro di pochi secondi si sono trovate coperte di polvere e sangue, colpite dai resti di un’autobomba esplosa davanti al cancello della scuola superiore di Sayed ul Shuhada, nella parte ovest di Kabul, in Afghanistan. Alla detonazione della macchina sono seguite le esplosioni di due ordigni piazzati vicino. Settanta morti e centosessantacinque feriti, la maggior parte giovani studentesse che un attimo prima imbracciavano i loro libri e il sorriso di chi ha voglia di tornare a casa, un attimo dopo giacevano per terra in una pozza di sangue che ancora una volta penetra nella terra dei papaveri e degli aquiloni.

Nessuno ha rivendicato l’attentato

Nessun gruppo ha rivendicato l’attentato nel quartiere sciita, un’etnia non troppo amata dall’estremismo talebano né da quello dell’Isis, che i talebani dovrebbero contenere se non fosse che in occasioni come questa, quella di colpire donne e scuole, non li disturba troppo. Questa scuola ospitava settemila studentesse in due turni, il secondo, alle quattro del pomeriggio, è stato colpito e in quel momento erano presenti duemila ragazze. Duemila future donne che facevano qualcosa che i talebani non vogliono, andare a scuola, perché c’è qualcosa di più potente delle armi e loro lo hanno capito, avendo di fatto vinto la guerra con l’occidente ma non quella con la società civile rinata dalle ceneri: proprio la cultura è qualcosa che i talebani non riescono a controllare, che non si può spegnere se non uccidendo.

Appena si è saputo dell’esplosione, i genitori nel panico sono corsi alla scuola alla ricerca delle loro bambine, mani nelle borse, tra i pezzi delle ragazze, tra le grida e le lacrime di chi era sopravvissuto. «Erano tutte bambine innocenti, ragazze giovani, una non aveva le gambe, un’altra non aveva la testa», ha raccontato a Tolo News uno sconvolto Abdul Atif, residente del quartiere di Dasht e Barchi. Tutte le ragazze uccise e ferite avevano meno di diciotto anni. Ragazzine che andavano a scuola, impregnate di sogni e di futuro. Di vita, spezzata da qualcuno che trova riprovevole vedere una donna con i libri in mano, con il viso scoperto e l’ambizione di fare qualcosa nella vita che non sia solo sposarsi o fare figli.

Non è il primo attacco alle scuole, l’anno scorso un altro sconvolgente attentato ha ucciso venticinque studenti all’università di Kabul, nel sud almeno duecento scuole sono state chiuse perché i talebani regolarmente le attaccano nella speranza che i genitori terrorizzati smettano di mandare i figli a scuola. E chi potrebbe biasimarli? Che forza ci vuole, per decidere ogni sacrosanto giorno di mandare i propri figli a scuola sapendo che ogni giorno è una roulette russa?

Eppure l’Afghanistan non è un paese che ha trascorso gli ultimi venti anni di presenza straniera senza che ci siano stati strascichi, lo sapevano prima e hanno continuato a pensarlo: un paese cresce solo se la gente ha un minimo di cultura e se le donne godono di diritti. Vero, probabilmente molti genitori convinceranno le figlie a stare a casa, perché hanno paura, ma altrettanti si impunteranno su quello che pensano sia giusto. «I nemici della gente dell’Afghanistan e i nemici dell’Islam non ci sconfiggeranno in questo modo. Continueremo a mandare i nostri figli a scuola perché il nemico si sconfigge con l’istruzione e una penna», ha detto Marzia, una signora del quartiere. «È una guerra psicologica uccidere i nostri figli», mormora Mahmoud Abdullah.

Ieri i parenti delle vittime stavano ancora cercando tra le macerie le cose delle loro bambine sulla scena dell’esplosione. Un quaderno, uno zaino, un cellulare. Perché sono cose importanti quando si perde tutto. Quando la tua vita va in pezzi, ogni particolare sembra poter fare una differenza che ormai non esiste più. Nel pomeriggio Sediqa Jafari, una signora cieca che vive nella zona ha detto che sono tutti stanchi e che non c’è più spazio nelle loro vite per il dolore che hanno dovuto sopportare. «Chi ha fatto questo nel mese sacro del Ramadan sarà sconfitto. Sappiamo chi è stato».

E lo sanno anche le studentesse che hanno l’età per non farsi completamente travolgere dal terrore anche quando perdono decine di compagne. «Riprenderemo direttamente da dove siamo cadute», dice a Tolo News Madina Nekzad, una studentessa sopravvissuta, «nessuno e niente ci impedirà di avere un’istruzione». «Sono sconvolta, ma non smetterò, noi non ci arrendiamo», dice Frozan, un’altra studentessa. Mobina è andata a trovare le amiche ferite, dice che il dolore di aver perso delle compagne la opprime. Ha scritto una poesia: «Ci affacceremo alla terra più forti, le penne saranno le nostre armi, li combatteremo, ora so che hanno paura di noi perché ci hanno pugnalato alle spalle come dei vigliacchi». Un’insegnante ha raccontato che molti pur di comprarsi i libri, hanno rinunciato a cenare per settimane. «Qual è stato il loro peccato? Come si può commettere un tale massacro?».

Chi sono le studentesse colpite

Poco si è detto su chi siano le vittime, giovani ragazze sciite tra i tredici e i diciotto anni che frequentavano classi dal settimo al dodicesimo grado. Molte di loro tessevano tappeti per potersi pagare la scuola. Una scuola vicino a una collina, circondata da case a un piano, la maggior parte delle quali fatte di fango. Kamila tredici anni, era l’unica persona della famiglia che sapeva leggere e scrivere. Pensavano che lei  avrebbe permesso loro di migliorare la propria condizione economica. Gulsoom diciassette anni, un’altra vittima, voleva diventare una pilota. La notte lavorava ai tappeti, racconta la mamma di Kamila mentre la sorella non sa se potrà continuare a studiare perché ha perso la speranza che sia sicuro farlo. Tahira, che era in classe con sua sorella Gilsoom rimasta uccisa, è sopravvissuta ma è ferita. Anche lei lavora ai tappeti per poter sostenere la famiglia. «Guadagnava duecento afghani al giorno (due dollari) e li usava per la scuola − racconta Masooma la madre di Gulsoom − la mia famiglia non voleva che andasse a scuola ma sono stato io a insistere», ha confessato uno dei fratelli. Raihana, un’altra vittima, voleva anche lei fare la pilota. Kamila anche lei uccisa nell’esplosione, voleva diventare una poliziotta. «Ho visto un corpo, poi ne ho visto un altro, e il terzo era della mia Raihana», racconta con gli occhi vitrei Mohammad Ali. «L’ho accompagnata a scuola ed era più contenta del solito, mi ha detto che era felice», mormora la sorella Habiba rimasta ferita ma che dice che nulla del dolore che ha provato, è paragonabile alla perdita della sorella.

Una città in lutto, una città che teme il ritorno ormai quasi sicuro dei talebani. L’accordo di pace siglato dagli americani a febbraio e il progressivo ritiro delle truppe straniere previsto dal presidente americano Biden, mette la società civile in serio pericolo. In particolare le donne che non vogliono rinchiudersi di nuovo sotto il burqa e tra le mura di case. Le afghane oggi, alla vigilia di quello che sentono come un abbandono internazionale, hanno bisogno che si continui a tenere il riflettore acceso sulle loro vite, sanno e riconoscono la necessità di pressioni internazionali per restare vive. O di nuovo dovranno tornare a lottare da sole per sopravvivere.

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