Il ciclone Trump e l’ossessione dazi

Scritto da in data Marzo 12, 2025

A poco più di un mese dall’insediamento alla Casa Bianca il ciclone Trump ha già conquistato le prime pagine dei giornali con i suoi ordini esecutivi e le sue proposte di politica economica e di politica estera.

Alcune delle sue più eclatanti esternazioni

Introduzione di dazi per tutti anche per i paesi alleati, espulsione dagli Stati Uniti di 11 milioni di immigrati, richiesta al Canada di diventare  il 51° stato americano, richiesta alla Danimarca di vendergli la Groenlandia, richiesta a Panama di rientrare in possesso, con le buone o con le cattive, dell’omonimo canale, progetto di trasformare la Striscia di Gaza in una sorta di Costa Azzurra del Medio Oriente, previa pulizia etnica dei due milioni di palestinesi che ci vivono, zuffa con Zelensky in diretta televisiva.

Tra dazi e ambizioni imperiali

Qualcuno comincia a pensare che al Presidente americano manchi qualche rotella, altri ci spiegano che si tratta di una sua efficacissima tecnica comunicativa, Trump le spara grosse per poi trattare da una posizione di forza, altri ancora ci ricordano che gli americani, abbandonata ogni ipocrisia, tornano a fare gli imperialisti, quello che hanno sempre fatto: i cow boy prepotenti che risolvono le questioni a pistolettate, tanto loro sono i più forti e quindi vinceranno.

Ognuno dia l’interpretazione che preferisce ma il problema di fondo è che molte delle proposte dell’agenda Trump, una volta messi da parte lo stupore o l’indignazione di rito, sembrano poco convincenti.

L’ossessione del palazzinaro newyorchese per i dazi è qualcosa di inspiegabile, difficile trovare un economista che sostenga l’utilità a lungo termine dei dazi, ma soprattutto è una scelta inefficace per gli obiettivi che intende raggiungere.

Protezionismo e storie di dazi

Il riferimento storico per questa passione, degna di miglior causa, per dazi e tariffe, è William McKinley che fu il 25° presidente degli Stati Uniti dal 1897 al 1901.

Politico repubblicano, ex governatore dell’Ohio e convinto protezionista, era riuscito a far approvare nel 1890 dal Congresso il cosiddetto McKinley Bill, una legge che colpiva con pesanti dazi le importazioni soprattutto provenienti da Francia e Germania. Nel 1897 fu eletto presidente e anche nelle elezioni del 1900 fu rieletto per un secondo mandato ma nel 1901 a Buffalo fu ucciso a pistolettate da un anarchico.

Durante la sua presidenza perseguì una politica estera espansionistica che consentì agli Stati Uniti, dopo una breve guerra con la Spagna, di acquisire Cuba, Portorico, Guam e le Filippine.

Durante la sua presidenza anche le Hawai furono annesse agli Stati Uniti. Ora McKinley che viene ricordato come uno dei grandi presidenti americani può anche essere fonte d’ispirazione per Trump e la sua cricca ma operava in un contesto economico e geopolitico completamente diverso da quello attuale, più di un secolo fa quando gli Stati Uniti erano una potenza emergente che scalpitava in un mondo dominato dall’impero britannico e dalle altre potenze europee, Francia e Germania in primis.

Le misure protezionistiche all’epoca potevano avere un senso per proteggere le industrie americane in fase di sviluppo dalla maggior competitività delle merci europee, oggi non hanno alcun senso.

Dazi, disoccupazione e “Make America Great Again”

Proviamo a fare un’analisi più approfondita e per farlo la prendiamo un po’ larga per cercare di capire come al di là delle dichiarazioni roboanti, le cose siano in realtà molto più complicate. Thomas Carlyle era uno storico e filosofo scozzese che verso la metà dell’Ottocento, in un suo saggio definì l’economia “una scienza triste”.

Quella definizione, come le altre teorie di quel personaggio, notoriamente razzista e favorevole al mantenimento della schiavitù nelle colonie dell’impero britannico, va presa con le molle ma ha un suo fondo di verità. L’economia si occupa del modo più efficiente per organizzare risorse scarse e qui risiede la causa della tristezza.

Se vivessimo nel mondo dell’abbondanza, in un ipotetico “paese di cuccagna” non ci sarebbe bisogno dell’economia, le risorse sarebbero illimitate e facilmente disponibili per tutti. Nel mondo reale in cui viviamo, invece, tutte le risorse sono, per definizione, limitate e quindi occorre trovare il sistema più efficiente per impiegarle nella soddisfazione dei bisogni umani stabilendo degli ordini di priorità. Di questo, in fin dei conti si occupa l’economia.

Questo concetto fu sintetizzato da un economista britannico del Novecento, Lionel Robbins il quale disse: “L’economia è quella scienza che studia il comportamento umano quando, data una graduatoria di obiettivi, si devono operare scelte impiegando risorse scarse utilizzabili per fini alternativi”.

I sistemi economici moderni sono molto complicati e quindi imparare a compiere le scelte più efficienti è tutt’altro che semplice. Qualunque scelta si faccia ha tutta una serie di conseguenze, alcune prevedibili, ma molte altre no e quindi c’è un elevato grado di aleatorietà, ovverossia di incertezza.

Un sogno o un’illusione protezionista?

Proviamo ad applicare questo ragionamento alla decisione dell’amministrazione Trump di voler riequilibrare il deficit commerciale degli Stati Uniti con il resto del mondo, imponendo dazi doganali.

Tralasciamo le questioni teoriche, di interesse più accademico, per cui gran parte degli economisti ritengono che dazi e altri ostacoli al libero commercio siano soluzioni inefficienti.

Tralasciamo anche il fatto che la globalizzazione degli ultimi decenni è stata imposta dagli Stati Uniti, per affermare il loro modello economico e politico e l’asse portante di quella globalizzazione era la libertà e facilità di commercio ottenuta dal punto di vista economico con l’abbattimento di dazi, tariffe, contingenti e altri ostacoli al libero scambio attraverso gli accordi nel WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, dominata dagli americani.

Dal punto di vista geopolitico la globalizzazione poteva avvenire grazie al controllo delle rotte marittime, primaria via per gli scambi commerciali, e dei principali stretti attraverso cui passano le merci, da parte delle potentissime flotte americane. Tralasciamo tutto ciò e vediamo cosa succede quando in un paese si introducono dei dazi.

Trump, pochi giorni fa ha annunciato l’introduzione di dazi del 25% su tutte le importazioni di acciaio e alluminio negli Stati Uniti.

Come la politica di Trump potrebbe danneggiare l’America

Qual è l’effetto immediato di quel provvedimento? Semplice, un aumento del 25% del costo dell’acciaio e dell’alluminio importato.

Dato che acciaio e alluminio sono metalli di base che vengono impiegati per fabbricare una quantità innumerevole di prodotti quel che succederà è che lungo tutte le filiere produttive che utilizzano quei due metalli ci sarà un aumento dei costi di produzione che finiranno, inevitabilmente, per ricadere sui consumatori che pagheranno più cari quei prodotti che inglobano acciaio o alluminio nella loro produzione.

Da un punto di vista pratico per un consumatore un dazio assomiglia molto ad una nuova tassa, soldi che vengono tolti dalle sue tasche per finire nelle tasche di qualcun altro.

Quindi per dirla in termini più tecnici, il primo impatto dei dazi è di tipo inflazionistico perché fanno aumentare il costo dei prodotti.

Ma cosa succede quando aumenta l’inflazione? Innanzitutto si riduce il potere d’acquisto dei consumatori che devono spendere più soldi per comprare gli stessi prodotti di prima ma c’è anche un altro effetto, di tipo macroeconomico.

La Banca centrale che conosce bene gli effetti deleteri dell’inflazione comincia a preoccuparsi e prima o poi ritiene di dover intervenire per frenare la spirale inflazionistica. L’arma più potente per fermare l’aumento dei prezzi è l’aumento dei tassi d’interesse.

Questa mossa della Banca centrale ha, a sua volta, tutta una serie di conseguenze, alcune desirate e altre indesiderate. Cominciamo da quelle volute.

L’aumento dei tassi d’interesse in pratica del costo dei prestiti, dei mutui, degli investimenti, del debito pubblico, ha un effetto deprimente sulla domanda di beni e servizi da parte del sistema economico in tutte le sue articolazioni: consumatori, imprese, Stato.

Se prendere soldi a prestito per qualunque motivo lo si faccia, costa di più, molta gente rinuncerà a chiedere prestiti e quindi rallenta la crescita economica, rallenta la domanda di beni e servizi e quindi in breve tempo si riducono i prezzi dei prodotti, quindi in pratica si riduce l’inflazione.

Ma c’è un altro effetto, questo indesiderato, dell’aumento dei tassi d’interesse. Dal momento che i movimenti di capitali sono abbastanza liberi a livello globale se gli Stati Uniti aumentano i tassi d’interesse per frenare l’inflazione vuol dire che cresceranno anche i tassi d’interesse sulle nuove emissioni di debito pubblico americano e quindi banche e investitori da altri paesi trasferiranno capitali negli Stati Uniti per comprare i nuovi titoli con un rendimento più elevato.

Ma i nuovi capitali esteri per investire in titoli del debito pubblico americano dovranno prima comprare dollari statunitensi e quindi faranno crescere la domanda di dollari.

Ma il dollaro, come tutte le valute, oltre ad essere molte cose è, di fatto una merce come ogni altra e quindi se aumenta la domanda aumenta il prezzo, cioè il cambio, in pratica il dollaro si rivaluta.

Arrivati a questo punto del nostro ragionamento probabilmente qualcuno si sarà già suicidato e qualcun altro starà assumendo i sali dopo essere stramazzato al suolo per la noia, d’altronde l’economia oltre che una scienza triste, talora è anche piuttosto noiosa, ma occorre ancora un piccolo sforzo.

Cosa succede quando il dollaro si rivaluta? Semplice, le merci prodotte negli Stati Uniti costeranno di più per gli acquirenti esteri. Se il dollaro si rivaluta, per esempio del 10% sull’Euro, succede che chi vorrà acquistare un nuovo I-Phone importato dagli Stati Uniti lo pagherà un 10% in più, quindi si esporteranno minori quantità di merci americane.

Tornando all’inizio del nostro ragionamento se aumento i dazi per riequilibrare il deficit commerciale tra importazioni ed esportazioni corro il rischio di innescare tutto il meccanismo che abbiamo ripercorso prima per arrivare alla fine ad esportare minori quantità di prodotti americani e quindi non ho riequilibrato un bel niente, per dirla in termini più grossolani, ho fatto un gran casino per ritrovarmi con un pungo di mosche in mano.

Una scelta che qualunque economista, a qualunque corrente di pensiero appartenga, definirà banalmente come una scelta inefficiente!

L’ulteriore problema dei dazi è che chi li subisce difficilmente, per dirla in termini gergali, se la piglia in saccoccia e fa finta di nulla! Solitamente reagisce imponendo a sua volta dazi sulle importazioni dagli Stati Uniti, innescando una guerra commerciale che alla fine danneggia tutti.

Quindi i dazi non sono una buona soluzione per riequilibrare la bilancia commerciale di un paese. Potrebbero però servire per un altro scopo e qui il ragionamento potrebbe essere sensato.

Un pianeta in bilico

Negli ultimi decenni gli Stati Uniti si sono deindustrializzati, hanno chiuso migliaia di fabbriche, licenziato milioni di lavoratori e trasferito all’estero una parte consistente della loro produzione manifatturiera. Le ragioni di quella scelta erano legate alla volontà delle aziende di aumentare i profitti.

Venendo meno con la globalizzazione e le liberalizzazioni gran parte dei vincoli ai movimenti di capitali, tecnologie e merci, spostare un impianto produttivo in un altro paese era diventato molto semplice e quindi molte aziende pensarono fosse più vantaggioso spostare le produzioni in paesi dove il costo del lavoro era più basso, la tassazione più favorevole e le normative di sicurezza o ambientali meno rigide.

In questo modo avrebbero potuto aumentare i loro profitti, si sarebbero anche liberati di quei rompiscatole dei lavoratori americani, abituati a guadagnare salari piuttosto alti, organizzati in sindacati che potevano fare pressione sui politici per sostenere le loro ragioni.

Trasferendo una fabbrica nel Guangdong cinese o negli stati messicani di Chihuaua o di Sonora avrebbero trovato migliaia di disperati, morti di fame, disposti a lavorare per salari bassissimi, facilmente ricattabili e sostituibili, con le autorità locali che avrebbero concesso incentivi di ogni genere per favorire nuovi insediamenti produttivi.

Quel massiccio processo di deindustrializzazione può essere compreso in maniera intuitiva guardando alcuni semplici dati. Negli anni Sessanta un americano su tre, tra gli occupati, lavorava nel settore industriale, oggi uno su 12 è impiegato nel comparto manifatturiero, in settori maturi, con impianti mediamente antiquati. Negli anni Sessanta un terzo dei lavoratori americani era iscritto a un sindacato oggi soltanto il 6%.

Le delocalizzazioni delle fabbriche a partire dagli anni Novanta porta negli Stati Uniti alla chiusura di ben 70.000 aziende e alla perdita di 5 milioni di posti di lavoro, in maggioranza operai ma anche impiegati, dirigenti e consulenti, con remunerazioni mediamente elevate.

Intere aree e regioni del paese subiscono un tracollo economico e sociale, si crea la cosiddetta “rust belt”, la fascia della ruggine, nel cuore dell’America, che si estende dalla zona occidentale dello Stato di New York fino alla Pennsylvania alla Virginia, all’Ohio, il Michigan, l’Iowa, l’Illinois, il Wisconsin, il Minnesota, un’area dove era concentrata l’industria pesante statunitense.

La chiusura delle fabbriche e la perdita dei posti di lavoro e dei relativi redditi crea spopolamento, la gente scappa via in cerca di nuove opportunità, con conseguente caduta dei valori immobiliari e decadimento urbano.

Il panorama stesso di molte città, un tempo prospere, cambia in maniera drammatica, restano soltanto i vecchi impianti arrugginiti di una potenza industriale ormai scomparsa.

Il Prezzo dell’incertezza

Quei milioni di americani che in pochi anni si sono ritrovati senza lavoro, tutele, certezze, costretti a emigrare in altre zone del paese o a riciclarsi nel settore dei servizi con salari più modesti e condizioni lavorative peggiori e più precarie hanno covato un rancore, una rabbia, un’incazzatura che quel mattacchione di Trump è riuscito a canalizzare in una proposta politica tanto suggestiva, quanto illusoria, sintetizzata nello slogan: Make America Great Again.

Per quanto vi sia ormai la convinzione negli Stati Uniti che recuperare almeno in parte la capacità manifatturiera perduta sia necessario per ragioni non soltanto economiche e sociali ma anche strategiche e di sicurezza nazionale la domanda da cento milioni di dollari è: sono gli Stati Uniti in grado di farlo?

La risposta a questa domanda è molto difficile. La deindustrializzazione ha fatto deperire le fabbriche e anche le competenze di chi ci lavorava ma ha indebolito anche le infrastrutture istituzionali e normative indispensabili per realizzare una qualsiasi politica industriale.

Quando si chiudono le fabbriche non si perdono soltanto posti di lavoro e relativi redditi ma si perdono anche competenze, know how, capacità professionali, capacità d’innovazione e ricreare queste cose non è facile, non è immediato e nemmeno automatico.

Allo stesso tempo la formazione professionale trascurata dalle amministrazioni pubbliche perché non più necessaria ha finito per essere ignorata se non addirittura disprezzata anche dagli studenti e dalle famiglie ma senza quei percorsi di formazione professionale le eventuali nuove fabbriche non troverebbero personale preparato.

È estremamente complicato invertire quel meccanismo perverso per cui per alcuni decenni ci si è quasi vantati del fatto che il paese si stava deindustrializzando con schiere di economisti pronti a sostenere che ormai la terziarizzazione dell’economia fosse un processo ineludibile e persino positivo, facendo credere, erroneamente, che un paese possa mantenere elevati livelli di benessere vivendo soltanto di finanza e servizi.

Quindi per tornare al nostro tema i dazi potrebbero servire a riportare in patria quelle produzioni che erano state delocalizzate all’estero perché grazie ai dazi le importazioni costano di più e quindi diventano meno convenienti rispetto a prima favorendo la nascita di produzioni locali che sostituiscano quelle importazioni.

Ma data ormai la differenza nei costi dei fattori produttivi esistenti tra Stati Uniti e paesi come la Cina o come il Messico, bisognerebbe imporre dazi elevatissimi con conseguenze devastanti sugli scambi commerciali.

Per concludere, riuscirà il Presidente Trump, con il suo ciuffo biondo che fa impazzire il mondo, a realizzare i suoi intenti utilizzando l’arma dei dazi? Molto improbabile, d’altronde lo scompiglio e l’incertezza che sta creando sui mercati non è esattamente quello di cui avrebbe bisogno in questo momento né l’economia americana né quella degli altri paesi, ma il soggetto è dotato di una discreta dose di imprevedibilità per cui potrebbe tornare sui suoi passi.

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