Kobane: la città simbolo della resistenza
Scritto da Barbara Schiavulli in data Gennaio 26, 2025
KOBANE (Siria) – Il freddo era pungente in quei giorni del gennaio 2015. Una temperatura tipica invernale per la zona della Alta Mesopotamia. La notte scendeva sottozero rendendo ancora più difficile resistere per chi cercava di sopravvivere o per chi combatteva.
Un altro nemico invisibile che si aggiungeva agli altri che avevano messo a ferro e fuoco la città: rifugi improvvisati che offrivano poca protezione, molti non avevano coperte a sufficienza, e il carburante per riscaldarsi era praticamente inesistente.
Combattere, ripararsi o dormire in quelle condizioni era una sfida costante.
Come se non bastasse, le piogge invernali occasionali rendevano le strade fangose e difficili da percorrere, peggiorando ulteriormente la situazione sia per i movimenti militari che per la sopravvivenza quotidiana.
Gli ultimi giorni dell’assedio di Kobane, sembrarono durare un’eternità. Per chi era intrappolato all’interno della città, ogni secondo era una battaglia, non solo contro il nemico alle porte, ma contro la disperazione stessa.
La città era accerchiata da mesi, e a quel punto ogni strada, ogni casa, ogni angolo era segnato dalla distruzione e dalla perdita. Le famiglie si accalcavano insieme tra le rovine delle loro case o in rifugi scavati in fretta, aggrappandosi alla fragile speranza di riuscire a vedere un’altra alba sorgere del sole.
Per molti, la fame era diventata una compagna. Il cibo era scarso, e quel poco che restava veniva razionato per sostenere i combattenti. I civili cercavano di sopravvivere raccogliendo tutto ciò che poteva nutrirli: vecchie scatolette di cibo conservato, avanzi di pane, persino erbacce che crescevano nelle crepe del selciato.
L’acqua pulita era ancora più difficile da trovare, e le malattie si diffondevano tra la popolazione come un’ombra. Eppure, nonostante tutto, resistevano.
Le madri stringevano i figli in silenzio, cercando di proteggerli dai suoni della guerra. Le pareti tremavano per la forza delle esplosioni, e il suolo vibrava sotto i loro piedi.
Alcune sussurravano preghiere, mentre altre fissavano il vuoto, incapaci di trovare parole per ciò che avevano visto o perso. I bambini, troppo piccoli per comprendere pienamente ma abbastanza grandi per sentire la paura, si aggrappavano ai loro genitori, con gli occhi spalancati e pieni di domande mai espresse.
Nelle strade, i combattenti portavano sulle spalle il peso della sopravvivenza della città. Non erano soldati nel senso tradizionale, erano figli, figlie, padri e madri che avevano preso le armi perché non avevano altra scelta.
Molti avevano perso familiari durante l’assedio, ma andavano avanti comunque.
Combattevano con armi artigianali, fucili che si inceppavano troppo spesso e granate che avevano imparato a fabbricare da soli. Per loro, ogni passo avanti era fatto con la consapevolezza che forse non sarebbero tornati.
Arrendersi non è un’opzione
I vicini condividevano quel poco che avevano, gli estranei diventavano famiglia, e canzoni di resistenza riecheggiavano nella notte per mantenere alto il morale.
Combattenti e civili ricordavano insieme coloro che erano caduti—rammentando le loro risate, il loro coraggio, i loro sogni. Era un modo per onorarli, per assicurarsi che i loro sacrifici non fossero dimenticati, anche mentre la battaglia continuava.
Poi qualcosa accadde, il nemico cominciò a vacillare. La speranza si insinuava. Negli interstizi delle strade distrutte, si di diffondevano voci che i rinforzi stessero arrivando, che i raid aerei della coalizione avessero scompaginato le file nemiche.
Forse per la prima volta, la gente ha osato credere che la liberazione potesse essere possibile. Si trattava di andare avanti ancora un po’. Un minuto, un’ora. Un altro giorno.
E quando arrivò l’attacco finale, nacque dalla ferocia della disperazione e della determinazione. I combattenti avanzarono strada per strada, con le voci rauche per gli ordini gridati e i canti di battaglia.
I civili nascosti ascoltavano i suoni del combattimento avvicinarsi sempre di più, preparandosi a qualunque cosa sarebbe venuta dopo.
E poi, improvvisamente, ci fu silenzio.
Liberi
Quando arrivò la notizia che Kobane era libera, all’inizio non ci furono grandi celebrazioni, solo una stordita incredulità. Le persone emersero lentamente dai loro rifugi, accecate dalla luce del giorno.
I combattenti si abbracciavano, alcuni piangendo apertamente, altri troppo intorpiditi per provare qualsiasi cosa.
I civili camminavano con cautela tra le rovine dei loro quartieri, chiamando i nomi dei propri cari dispersi, le loro voci tremanti per una miscela di speranza e paura.
Sebbene la città fosse irriconoscibile, la sua gente era viva. E questo, da solo, era una vittoria.
Per il popolo di Kobane, la liberazione era più che la fine dell’assedio, era la testimonianza della loro resilienza, della loro unità e della loro incrollabile volontà di sopravvivere.
134 giorni di ferro e fuoco
L’assedio di Kobane è durato 134 giorni, dal 13 settembre 2014 al 26 gennaio 2015, quando le forze curde, sostenute dai raid aerei della coalizione guidata dagli Stati Uniti, riuscirono a liberare completamente la città dall’Isis.
Il sostegno aereo della coalizione e la determinazione dei difensori (principalmente YPG e YPJ) ribaltarono le sorti del conflitto. La vittoria segnò uno dei primi e più importanti successi contro l’avanzata dell’Isis in Siria.
Situata nella regione a maggioranza curda del nord della Siria, Kobane divenne il centro dell’attenzione internazionale quando l’Isis lanciò un’offensiva su larga scala per conquistare la città.
L’obiettivo dell’Isis era di espandere il proprio califfato e ottenere il controllo di un territorio strategico al confine con la Turchia.
La battaglia di Kobane iniziò a settembre 2014 e presto si trasformò in un assedio brutale, con combattimenti casa per casa e migliaia di civili intrappolati nella città.
La difesa di Kobane fu guidata dalle Unità di Protezione del Popolo (YPG) e dalle Unità di Protezione delle Donne (YPJ), le milizie curde che divennero il baluardo contro l’avanzata dell’Isis.
Nonostante fossero in inferiorità numerica e con armamenti limitati, i combattenti curdi mostrarono determinazione e coraggio che li renderanno amati in tutto il mondo.
Le immagini delle donne curde che combattevano in prima linea divennero un simbolo potente di resistenza e ispirazione per molte persone andando ben oltre i confini della Siria.
La coalizione internazionale, guidata dagli Stati Uniti, fornì supporto aereo, colpendo le posizioni dell’Isis e rifornendo i combattenti curdi di armi e munizioni.
Gli attacchi aerei della coalizione contribuirono significativamente a indebolire l’Isis e a rallentare la loro avanzata, permettendo alle forze curde di guadagnare terreno e alla fine di respingere l’assedio.
Durante questo periodo, Kobane divenne un simbolo mondiale di resistenza.
Oggi
Dieci anni dopo, il 26 gennaio 2025, il freddo uggioso di questi giorni, lascia il posto ad un sole caldo che sembra baciare piazza della libertà, Azadî Meydanı, dove la gente si è data appuntamento per festeggiare un momento che ancora scandisce le loro vite.
Ci sono ancora macerie dentro e fuori alla vita della gente, ci sono i ricordi per chi era già grande, per chi ha perso un pezzo di famiglia, per chi ha pagato perché oggi sorrisi, musica e occhi pieni di lacrime, ballassero uno accanto all’altro.
“Una volta le persone scappavano da Kobane, oggi invece gli sfollati li accogliamo noi”, ci dice Leyla, 48 anni che non ha mai lasciato la città. “Sono qui per sostenere i nostri combattenti perché i fascisti (Isis) volevano cacciarci e loro ci hanno protetto con la vita. Kobane è il nostro paradiso e l’acqua che beviamo è intrisa del sangue dei nostri martiri”.
Ci sono adulti, anziani, tante donne, e ragazze che ballano in abiti traduzionali. Ci sono le foto delle persone che sono morte combattendo, e tanti bambini che in braccio ai genitori fanno il segno della vittoria con le loro ditine ancora troppo piccole per capire cosa ha passato chi all’epoca aveva abbastanza anni da vedere quello che stava accadendo.
“Ero molto piccola, avevo solo quattro anni, ce ne siamo andati qualche mese, e quando siamo tornati non c’era più niente – ci dice Najah che ha 14 anni e come tutte le adolescenti si vergogna un po’ a parlare con degli estranei – ma ora è stato ricostruito tutto, piano, piano, vogliamo andare avanti. Per noi la libertà è avere diritti e sicurezza”.
Kobane è come una fenice risorta letteralmente dalle ceneri, la maggior parte è stata ricostruita. Prima dell’attacco dell’Isis, contava 50mila abitanti, ora si stimano siano molti di più anche per l’afflusso di persone che sono fuggite da altre parti dove la situazione non è per nulla pacificata.
L’impatto della distruzione su Kobane dopo l’assedio fu immenso e devastante.
Circa il 70-80% della città fu distrutto
Interi quartieri furono rasi al suolo dai combattimenti, con edifici crollati sotto i bombardamenti dell’ISIS e i raid aerei della coalizione.
Infrastrutture vitali come scuole, ospedali, mercati e sistemi di approvvigionamento idrico furono completamente devastate.
Le strade, i ponti e i servizi di base furono distrutti, lasciando la città in condizioni invivibili.
Migliaia di persone persero la vita durante l’assedio, inclusi civili, combattenti curdi delle YPG/YPJ e membri dell’ISIS.
La popolazione civile fu decimata o costretta alla fuga. Durante il conflitto, circa 300.000 persone furono sfollate, rifugiandosi soprattutto in Turchia o in altre zone limitrofe.
La maggior parte dei residenti sopravvissuti trovò le proprie case distrutte o inabitabili al ritorno.
Mancavano cibo, acqua e assistenza sanitaria, e molti rifugiati non poterono rientrare immediatamente per anni a causa della distruzione e della presenza di mine antiuomo lasciate dall’ISIS.
La città fu ridotta a un luogo fantasma per un lungo periodo, con solo poche centinaia di abitanti rimasti nei primi mesi dopo la liberazione.
Oltre alla distruzione fisica, l’impatto psicologico sulla popolazione fu enorme. Le persone avevano perso famiglie, amici e le loro case. Molti sopravvissuti soffrirono di traumi profondi dovuti alla violenza e alle atrocità commesse durante l’assedio.
Dopo la liberazione, Kobane divenne un simbolo di resilienza, ma la ricostruzione della città fu lenta.
La mancanza di risorse economiche e il blocco internazionale contro il Rojava (la regione autonoma curda in Siria) ostacolarono notevolmente gli sforzi di ricostruzione.
Nonostante tutto questo, negli anni successivi, gruppi di volontari e organizzazioni internazionali contribuirono alla rinascita della città, ripristinando gradualmente alcune infrastrutture essenziali.
Samira
“Ho perso tre dei miei figli. La più grande che aveva 16 anni è stata uccisa da Al Qaeda nel 2011. Poi nel 2016 altri due alla diga di Tshrin (dove in questo momento i turchi, o chi per loro, effettuano regolarmente raid nel tentativo di prendere il controllo della diga).
I miei figli maschi hanno una tomba, ma il corpo di mia figlia non è stato mai ritrovato anche se so che è morta”, ci racconta una delle madri di Kobane, Samira Ahmad, 51 anni che allevato altri 4 figli ma con nel cuore sempre il pensiero di quelli che ha perduto.
“Due sono rifugiati, uno è in Europa e un altro studia. Sono qui perché noi mamme abbiamo sostenuto la resistenza durante quei giorni terribili, preparavamo da mangiare ai combattenti, lavavamo i loro vestiti, noi ci nutrivamo del loro coraggio, e lo facciamo ancora.
Intanto mentre Adla si guarda intorno e un signore le offre una sedia, qualcuno ci racconta che quella signora con il volto incorniciato in un velo, è una donna rispettata da tutti, “Non si è mai sposata”, ci tiene a precisare l’uomo che ci racconta, “ma è stata ferita perché protestava alla diga e non ha mai lasciato Kobane”.
Sono trascorsi dieci anni e la liberazione di Kobane rimane un simbolo di speranza e resilienza. La città è stata ricostruita e continua a essere un centro vitale per la cultura e la politica curda.
“Ma non è ancora finita, abbiamo bisogno di tutto l’appoggio internazionale perché ancora ci attaccano”, spiega Farhan Ajad Issa, copresidente del Consiglio di Kobane incontrando una delegazione di politici italiani e francesi che in questi giorni hanno girato il Rojava.
In fondo è la storia dei curdi, un simbolo di lotta e coraggio, sparso in quattro nazioni che però non ottiene il riconoscimento che cerca. Ma Kobane, la sua storia e la sua gente non permetterà a nessuno di dimenticarlo.
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