La Chernobyl di HBO: tra realtà e fantasia
Scritto da Julia Kalashnyk in data Luglio 23, 2019
Chernobyl
La miniserie di HBO su Chernobyl sta avendo un successo strepitoso: 9,5 punti su IMBD, ha persino scavalcato il Trono di Spade. L’entourage sovietico degli anni ’80 è stato ricostruito alla perfezione, eccetto, forse, le vetrocamere alle finestre, in uso da quelle parti solo a partire dai primi anni ’90.
Nonostante tante lodi ricevute, c’è chi muove anche qualche critica alla serie, soprattutto dai paesi dello spazio post sovietico. Ai creatori viene rimproverata la fantasia forse un po’ eccessiva, la distorsione dei personaggi e il sacrificio della storicità, anche se non si tratterebbe di un documentario.
Sicuramente per ricreare l’atmosfera e sottolineare gli effetti nefasti della tragedia, Craig Mazin non poteva non iperbolizzare: agenti KGB ovunque, fiumi di vodka, che sarebbe stato impossibile visto che proprio in quegli anni vigeva la proibizione sull’alcol di Gorbac’ev, e poi armi, tante armi.
Vodka + KGB, un denominatore comune che contraddistingue tanti film sull’Unione Sovietica prodotti in Occidente. E poi, la cronologia degli eventi alterata, eccessiva polarizzazione dei personaggi in buoni e cattivi, le scene rocambolesche con minatori nudi – questi sono i commenti più riscontrati.
Radio Bullets ha cercato di capire quanto ci sia di vero nella serie e cosa ne pensano coloro che parteciparono agli eventi e sia alla creazione della serie stessa.
Una giornata al museo
All’entrata del museo di Chernobyl, nonostante sia mattino, c’è già gente. Si sente per lo più parlare straniero, però c’è anche qualche curioso locale. Tutti desiderosi di avvicinarsi a quel mistero che è Chernobyl. I più coraggiosi vanno direttamente nella Zona – la mecca del nucleare – tanto ora ci sono gli appositi tour. Dicono, che dopo l’uscita della serie di Mazin il turismo nella Zona è aumentato al 40%.
Risalendo le scale si oltrepassa il dosimetro, che a volte riesce a captare i livelli più elevati: c’è sempre qualche stalker che esplora la Zona illegalmente e porta nello zainetto degli oggetti contaminati, come ci racconterà a breve Hanna Korolevska, la vide direttrice della scienza del museo di Chernobyl. E’ stata lei, donna minuta e vivace, a consigliare per lunghi anni i creatori della serie prima, e la troupe cinematografica e i costumisti dopo.
Nei confronti della la serie – frutto di tanti sforzi anche suoi – mostra sentimenti contrastanti. Nelle prime interviste, rilasciate dopo l’uscita del film, Hanna è piena di rammarico: lei si occupa del tema più di 27 anni, conosce tante persone coinvolte nell’incidente.
Secondo Hanna, il rischio principale è che il film venga percepito come un documentario. Dopo tutto, alcuni personaggi chiave che gli spettatori vedono sono ancora vivi. Sono vive le loro mogli, i figli, i nipoti. Questa è Storia contemporanea, e deve essere trattata con molta cautela, secondo la vicedirettrice.
“Usare nomi veri nella serie non è assolutamente etico. Ci hanno mostrato la loro interpretazione di queste persone, e alcune di loro sono ancora vive. Come possono percepire se stessi sullo schermo?” si domanda Anna.
Si sofferma su alcuni momenti della serie più discordanti: troppe armi, minatori nudi costretti lavorare senza ventilatori – mentre in realtà c’era un sistema di ventilazione installato sotto terra – e palombari nella vasca di soppressione, destinati a morire in una settimana (due di loro sono ancora vivi).
Su questi ultimi racconta:
“Innanzitutto, non sono palombari. Erano impiegati della stazione centrale e svolgevano il loro compito in quel giorno. Il livello di radiazione nell’acqua era basso, 2-3 roentgen all’ora. E poi, loro stessi hanno detto in seguito che questo era il loro solito lavoro. Non vestivano la tuta da palombaro, ma le tute protettive di plastica che usava il personale della centrale. Ora sono esposte qui nel museo. Le teste erano scoperte e sul viso c’era quella famigerata maschera di protezione”.
Tra le conseguenze dell’esplosione, Anna ricorda anche la fine dell’Unione Sovietica:
“Chernobyl ha contribuito allo sgretolamento dell’Unione sovietica. Tutte le risorse del Paese erano destinate a sgravare il disastro. Pero, nel contempo, se non fosse per il governo totalitario del Paese, sarebbe stato impossibile raccogliere tutte le risorse in così poco tempo”.
Alla fine, pero, è riuscita ad accettare la visione narrativa di Mazin, proprio perché i creatori hanno toccato questo argomento, in modo così emotivo, ricordando all’umanità della sua tragedia nucleare più devastante.
Memorie svanite
Seghiy Parashin è un uomo sulla settantina, solare, in ottima forma. Sorride sempre. Per tanto tempo ha lavorato alla centrale nucleare di Cernobyl: prima come il capo ingegnere e poi come il segretario del comitato del partito della centrale. Dal 1994 ricopriva l’incarico di direttore generale. Gestiva l’impianto assieme al direttore della centrale Viktor Bryuhanov, che nella serie viene rappresentato come un carrierista che dopo l’esplosione cerca di nascondere tutto.
Lui quella notte c’era sul luogo e ci racconta:
“Quando ho visto quello che accadeva, non ci credevo. Persino quando abbiamo camminato col capo delle ricerche scientifiche sui pezzi del grafite. Ero scioccato. Tre ore dopo l’incidente hanno cominciato a riferirmi che il livello di radiazione era altissimo. E io non ci credevo ancora. Poi, arriva da me correndo il capo della difesa civile e mi fa vedere l’apparecchio – più di 200 roentgen! Lo guardo e vedo che gli tremano le mani”.
Serghiy Parashin ha evitato la galera perché era un dirigente politico della centrale, per così dire, e a quel tempi dirigenti politici non andavano in galera. Quello era il protocollo.
Ai creatori della serie rimprovera il fatto di aver usato i nomi veri e di avere creato delle immagini lontane dalla verità.
“E’ un male che nella serie sono stati usati i cognomi veri. Tante persone che vengono interpretate sono vive ancora, Bryuhanov è ancora vivo. Questo non è giusto nei suoi confronti, è decisamente una persona migliore di come è stato rappresentato. Lui è un introverso, di poche parole. E’ una persona calma, educata”.
Anche il capo-ingegnere Anatoly Dyatlov, che viene descritto come un irresponsabile omuncolo tirannico, non corrisponde del tutto all’immagine creata nel film. Era esigente nel lavoro, sì, e forse l’unico con preparazione professionale adeguata. Quando è arrivato quella notte a fare rapporto, aveva il colore della pelle grigiastra, ricorda Serhiy. Non capiva cosa fosse accaduto e perché.
“Quattro ore dopo nel suo rapporto al direttore scrisse che non capiva cosa fosse successo. E non mentiva, perché credere a quanto accaduto era impossibile”.
Serghiy sostiene che hanno dovuto pagare quel prezzo perché erano dirigenti. E dirigenti rispondono sempre. Però non sono criminali, secondo lui, stavano eseguendo il loro compito e non potevano sapere dei difetti che riportava la costruzione del reattore.
Per lui il film è importante perché è solleva un problema. L’umanità era stata ferita nel profondo con l’incidente di Chernobyl, conseguenza diretta del sistema sovietico, ed è un bene parlarne.
I liquidatori
Serghiy Mirny ora gestisce il Chernobyl Tour e porta tutti i desiderosi nel cuore della Zona. Nel agosto del 1986 era il comandante di una squadra di ricognizione radioattiva. In poche parole, un liquidatore. Ci racconta che l’esercito non si occupava di liquidazione, come si vede nel film. Non si beveva in quel modo e di bottiglie si vedevano arrivare solo quelle con l’acqua minerale. Tiene a precisare che i suoi ragazzi non erano codardi, facevano sempre bene il proprio lavoro. E anche il disordine che regna nel film non c’era: il loro accampamento è stato sempre pulito.
Anche lui ai creatori rimprovera di aver usato i nomi della persone reali. Secondo Serghiy, eticamente non è corretto.
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