La meritocrazia: realtà e illusione

Scritto da in data Settembre 21, 2020

Chiudiamo con questa puntata i nostri ragionamenti sul tema ricchezza e povertà, un argomento molto complesso che riprenderemo prossimamente.

Per un’esperienza più coinvolgente, invece di leggere ascoltate il podcast 

Il problema della distribuzione delle risorse

Spesso condizioni di povertà si abbinano a condizioni di sfruttamento e ci sono diverse situazioni storiche nelle quali la ricchezza di pochi è la causa della miseria della maggior parte della popolazione.

Ma il modo in cui le risorse di un paese sono distribuite tra i diversi gruppi sociali è, prima ancora che un problema economico, fondamentalmente un problema di natura politica.

Ma disuguaglianze eccessive possono avere conseguenze anche molto gravi, perché non sta scritto da nessuna parte che i poveri siano disponibili ad accettare supinamente la loro condizione.

Nel 1952 un giovane studente di medicina argentino di 24 anni, cresciuto in una famiglia borghese di Buenos Aires, decise di compiere assieme a un suo amico poco più grande, 28 anni, già laureato, un viaggio attraverso il Sudamerica a cavallo di una scalcagnata motocicletta, una Norton 500, chiamata enfaticamente La Poderosa. Quel tale si chiamava Ernesto Guevara, il suo amico si chiamava Alberto Granado e la storia di quel viaggio è stata raccontata sia nei diari dei due protagonisti ma anche in un bel film uscito alcuni anni fa intitolato appunto I diari della motocicletta.

Quel giovanotto un po’ idealista come spesso sono i giovani o come dovrebbero essere i giovani, durante quel suo viaggio – 14.000 chilometri attraverso il Sudamerica – entrò a contatto con le condizioni di estrema miseria e sfruttamento in cui vivevano molte popolazioni latinoamericane, dai contadini ai minatori, e durante quel viaggio cominciò a maturare una sua coscienza politica avvicinandosi alle teorie marxiste. Qualche anno dopo Ernesto Guevara, che nel frattempo si era laureato in medicina, conobbe un avvocato cubano, anche lui molto idealista e di orientamento liberale, proveniente da un’agiata famiglia de L’Avana. Quei due giovani, Fidel Castro il cubano ed Ernesto Guevara, detto El Che, l’argentino, avrebbero guidato la rivoluzione cubana. Mettendosi a capo dei campesinos, i contadini poveri, dopo alcuni anni di guerriglia sulla Sierra Maestra conquistarono L’Avana cacciando il corrotto regime di Fulgencio Batista.

La povertà senza rimedio causata da condizioni di sfruttamento può essere quindi molto pericolosa perché quando i poveri non hanno nulla da perdere se non le loro catene sono pronti alla ribellione. Anche i poveri, parafrasando il titolo di un vecchio libro di satira, nel loro piccolo s’incazzano. E quando, nella storia, si crea il mix fatale tra intellettuali idealisti, sognatori assetati di giustizia e masse di poveri incazzati, nascono le rivoluzioni.

Accadde così per la rivoluzione francese nel 1789, come per quella bolscevica nel 1917, e per tutte le altre rivoluzioni che hanno scandito la storia del XX secolo.

Anche le recentissime primavere arabe, una decina di anni fa, prendono inizio da situazioni di grande disagio sociale ed economico, di sfruttamento, e di ingiustizia. Regimi corrotti e autoritari che comprimono i diritti umani e non cercano di porre rimedio alle profonde diseguaglianze economiche e alle condizioni di miseria della maggioranza della popolazione, vengono sopraffatti dalla rabbia popolare.

Per evitare che accadano rivoluzioni che portano spesso a cambi di regime, le élite dominanti dotate, se non di lungimiranza o senso di giustizia, quantomeno di istinto di sopravvivenza, dovrebbero porre attenzione a non far crescere troppo le ingiustizie sociali, le diseguaglianze e la povertà.

Negli ultimi trent’anni, anche nei ricchi paesi dell’Occidente sono cresciute molto diseguaglianze e povertà. Le élite dominanti sia di destra che di sinistra, imbambolate e ipnotizzate di fronte alle predicazioni neoliberiste, il problema della povertà lo hanno semplicemente derubricato dall’agenda politica. Nei paesi dell’Occidente non c’è più alcuna forza politica che si ponga il problema delle diseguaglianze, della mancanza di opportunità, dello scivolamento progressivo e ineluttabile di ampie fasce di ceto medio verso la proletarizzazione.

Le società moderne stanno diventando delle società neofeudali dominate da piccole oligarchie che vedono aumentare sempre più le loro ricchezze e il loro potere, mentre il resto della popolazione lentamente si sposta sempre più verso le fasce più povere e precarizzate.

L’ascensore sociale: fuori servizio

Quello che una volta si chiamava l’ascensore sociale si è rotto e quindi è venuta meno la possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita, di lavoro e di reddito grazie, per esempio, allo studio.

L’idea che ci eravamo fatti fino a qualche decennio fa, era che i figli avrebbero avuto più opportunità dei padri e migliori condizioni di lavoro e di guadagno. Oggi non è più così. I figli hanno spesso condizioni di lavoro più precarie e peggio retribuite rispetto ai loro padri e, in prospettiva, avranno trattamenti pensionistici decisamente peggiori. Le continue crisi hanno fatto svanire il mito dell’ascensore sociale.

Tra le tante proposte per porre rimedio a questa situazione una delle più gettonate è la cosiddetta meritocrazia

Qualunque politico, di qualunque schieramento, di centro, di destra, di sinistra, di sopra o di sotto, quando vuol far credere che ha studiato per davvero, che quindi è persona preparata e competente, tira fuori dal repertorio delle baggianate propagandistiche la parolina magica: meritocrazia.

Una parola che, soprattutto in un Paese come l’Italia, dove si trova lavoro grazie alle raccomandazioni, dove si fanno più affari grazie alla rete di relazioni che non alla bontà delle idee, dove persino nelle università e nei centri di ricerca, i luoghi per eccellenza nei quali si dovrebbe premiare il merito, si fa carriera più per le relazioni di parentela o per la capacità di aggregarsi a cordate politico-culturali, in un Paese insomma nel quale le conoscenze, intese nel senso di persone che si conoscono, sono più importanti della conoscenza, cioè delle competenze, di quelle che gli anglosassoni chiamano skills, il termine “meritocrazia” scalda subito i cuori di tutti.

A maggior ragione si conferma questa idea quando si leggono studi come quello di due economisti, Barone e Mocetti, pubblicato alcuni anni or sono dalla Banca d’Italia, dal titolo La mobilità intergenerazionale nel lunghissimo periodo: Firenze 1427-2011. I due studiosi hanno analizzato i dati disponibili in una delle più importanti città italiane, Firenze. Il risultato è che i patrimoni delle principali famiglie fiorentine sono rimasti sostanzialmente stabili negli ultimi 6 secoli, decine di generazioni. Altro risultato interessante è che tutta una serie di attività professionali: medico, farmacista, notaio, orafo, avvocato, banchiere, continuano a essere svolte sempre da appartenenti alle stesse famiglie con poche possibilità per chi proviene da ceti sociali più bassi, di accedere a quel genere di mestieri.

Ascesa e declino del neoliberismo

La meritocrazia

Data questa situazione è evidente che in un Paese come l’Italia il concetto di “meritocrazia” trovi subito consenso. Ognuno di noi, a scuola, nel lavoro, nella vita quotidiana, si è visto superare da qualcuno che aveva agganci giusti che noi non avevamo e quindi ci sentiamo un po’ tutti vittime di un sistema che funziona con criteri sbagliati. D’altronde se ogni anno decine di migliaia di italiani, soprattutto giovani, ma non solo, preparati e capaci, decidono di emigrare e trovano in altri paesi quei riconoscimenti, quelle opportunità di lavoro, di carriera e di guadagno che nel loro paese faticavano a trovare perché non avevano alcun “santo in paradiso”, è assolutamente evidente che un problema legato ai meccanismi di selezione e di promozione sociale nel nostro Paese esiste ed è uno dei problemi non secondari anche del tendenziale declino economico dell’Italia. In un mondo sempre più globalizzato e competitivo chi non compete sul merito, sui risultati, finisce inevitabilmente per restare indietro.

Ma, detto questo, il discorso sulla meritocrazia è però un tantino più complesso. L’impressione è che non ci sia la piena comprensione di cosa significhi, in pratica, meritocrazia, oltre al fatto che ci sono anche diverse credenze piuttosto illusorie su questo tema.

Innanzitutto il termine meritocrazia fu inventato da un professore inglese di scienze sociali che era anche un dirigente del partito laburista, quindi di un partito di sinistra, che si chiamava Michael Young.

Questo signore scrisse, nel 1958, un libro che si intitolava The rise of the meritocracy (L’avvento della meritocrazia), nel quale preconizzava una società del futuro del 2033, una società non utopica bensì distopica. Come sappiamo, il termine utopia indica una sorta di grande ideale, la distopia è l’esatto contrario: quindi la società distopica era una società terrificante nella quale dominavano i meritevoli. Chi si era guadagnato una posizione con la sua competenza e il suo lavoro faceva strada, una sorta di grande società tecnocratica. Questa società era divisa sostanzialmente in due classi sociali, quella di coloro che hanno un quoziente intellettivo superiore a 125, i quali detengono tutte le leve del potere, e tutti gli altri che sono invece in posizione subordinata. I più intelligenti, che hanno maggiori capacità di comprensione e maggiori conoscenze, comandano mentre gli altri semplicemente obbediscono, anche se non sono d’accordo. Il divario tra queste due classi sociali aumenta finché la classe dei meno intelligenti non tollera più la situazione e si ribella, fa la rivoluzione. L’autore si schiera dalla parte dei rivoluzionari, perché la classe degli intelligenti o dei meritevoli, nell’esercizio del potere, si è comportata esattamente come facevano nelle vecchie società gli aristocratici per nascita. Gli aristocratici per competenza e per acquisizione, alla fine, non sono migliori di coloro che sono aristocratici per blasone o per censo.

Per uno di quei curiosi paradossi della storia, qualche decennio dopo, negli anni Novanta, fu proprio un leader labourista come Tony Blair a farsi paladino della meritocrazia come nuovo mantra di una sinistra che voleva apparire moderna e in linea con il nuovo pensiero dominante, quello neoliberista. La meritocrazia, il dominio dei competenti, dei meritevoli è da allora diventata una parola d’ordine molto gettonata anche a sinistra.

Anche nelle società antiche, preindustriali, pur essendo generalmente società molto statiche, rigidamente gerarchizzate e tendenzialmente oligarchiche, esistevano in alcuni casi sistemi di selezione basati sul merito più che sul censo o sul blasone. Nell’esercito romano di epoca imperiale venivano reclutati molti cosiddetti “barbari” i quali, se dimostravano attitudine per il combattimento, coraggio e capacità, potevano scalare la gerarchia militare fino ai vertici. Nella Cina antica la casta dei “mandarini”, gli alti funzionari dell’amministrazione imperiale, veniva selezionata attraverso esami difficilissimi di cultura generale e chiunque, anche il figlio di un contadino, se intelligente e portato per lo studio poteva partecipare e diventare consigliere dell’imperatore.

Nell’impero ottomano esisteva la pratica del devshirmé, il tributo dei bambini. Periodicamente ufficiali del corpo scelto dei giannizzeri, i pretoriani del Sultano, giravano nei villaggi cristiani dei Balcani alla ricerca di ragazzini promettenti da reclutare. Costoro venivano arruolati, con le buone o con le cattive, e portati a Costantinopoli a fare servizio nel Palazzo del Sultano dove crescevano e dove la maggior parte finivano per diventare cavalleggeri dei giannizzeri, quindi seguivano la carriera militare, mentre i più svegli, intelligenti e capaci venivano fatti studiare e inseriti nell’Amministrazione, potevano diventare anche capi militari o visir, l’equivalente dei ministri nel governo ottomano.

Sistemi di selezione basati sul merito esistevano quindi anche nelle società preindustriali. Nelle società moderne, sempre più complesse e tecnologiche, sistemi di selezione basati sul merito, sulle competenze, sull’esperienza, sono sempre più necessari. Ma la realtà spesso è un po’ più articolata.

Le critiche al sistema meritocratico

Molti studiosi hanno criticato apertamente la meritocrazia sostenendo che è diventata un’ideologia, e tra l’altro un’ideologia ingannevole, utile soltanto a trasmettere da una generazione all’altra privilegi e ricchezze. La meritocrazia secondo costoro è una competizione, una battaglia alla quale tutti, formalmente, possono iscriversi ma dove i poveri combattono a mani nude mentre i ricchi hanno carri armati e cannoni che gli vengono forniti dall’ambiente sociale dal quale provengono.

Facciamo un esempio: una scuola nella quale si intendano applicare criteri meritocratici e quindi i più bravi stanno con i più bravi mentre quelli meno bravi vengono messi in classi separate. È evidente che una situazione di questo genere finirebbe per riprodurre in un’aula scolastica le differenze sociali che esistono nella società. Il figlio del professionista che ha genitori colti che lo possono seguire, che hanno disponibilità di reddito per fare esperienze extra scolastiche stimolanti, che può viaggiare, che può, se necessario, pagarsi lezioni di recupero, sarà probabilmente avvantaggiato rispetto al ragazzo che, per quanto intelligente e volenteroso, proviene  da una famiglia in condizioni economiche precarie, con i genitori che hanno un basso livello di scolarizzazione, che se ha difficoltà in una materia si deve arrangiare perché non può permettersi di pagare delle lezioni di recupero.

Inoltre al danno potrebbe unirsi anche la beffa perché a quel punto se si stabilisce che il sistema scolastico è meritocratico chi resta indietro finisce per convincersi che il suo insuccesso sia colpa sua, perché non riesce a raggiungere gli standard di quelli più bravi, non è sufficientemente competitivo e ambizioso e via di seguito.

Quello dell’ascensore sociale è più un mito che non una realtà. La mobilità sociale funziona in società ed economie che crescono, ma in economie stagnanti prevale l’aspetto della competizione per accaparrarsi le posizioni lavorative migliori e anche chi avrebbe talento e capacità potrebbe non riescire a sfondare perché il ventaglio delle opportunità si è ristretto per tutti.

Obiezioni di questo genere smontano un po’ l’idea che al privilegio di classe si possa contrapporre la meritocrazia. La meritocrazia può essere certamente un valore e una cosa importante, ma può rivelarsi una grande illusione se oltre a valutare l’ordine di arrivo non si valuta anche l’ordine di partenza.

Alcune puntate fa avevamo raccontato una storia, ambientata a New York, di due coetanei nati a pochi chilometri di distanza l’uno dall’altro, ma uno nato in una famiglia ricca e l’altro in una famiglia povera. Avevamo paragonato quei due giovani – che fanno vite parallele ma molto diverse perché molto diverse sono le possibilità che le loro famiglie possono offrire loro – a due atleti che devono fare una gara, per esempio i 1.000 metri di corsa, ma mentre uno parte a 1.000 metri dal traguardo, quello ricco parte a metà pista, a 500 metri dal traguardo, e quindi non si può guardare soltanto l’ordine d’arrivo al traguardo se si trascura quello che è l’ordine di partenza.

Questa è, semplificando un po’, la ragione per cui affidarsi alla meritocrazia come panacea di tutti i mali rischia di essere una grossa illusione.

Forse più che puntare su modelli meritocratici occorrerebbe indirizzare gli sforzi per ridurre le diseguaglianze, per ridurre le differenze spesso enormi che esistono nelle condizioni di partenza.

Ma ci sono anche altri tipi di critiche, diciamo più filosofiche al concetto di meritocrazia. Se stabiliamo che le persone debbono essere ricompensate in base al loro talento in pratica cosa diciamo? Diciamo che nessuno può essere ricompensato in base a criteri che prescindano dai suoi talenti, come per esempio il nascere in una famiglia ricca. Ma i talenti di cui ciascuno è dotato, a loro volta, non sono meritati ma sono distribuiti casualmente oltre al fatto che i talenti riconosciuti in una determinata società o in una epoca storica possono differire da quelli riconosciuti e premiati in un’altra. Per cui applicare i criteri meritocratici significa di fatto ricompensare meriti che non sono stati acquisiti, penalizzando chi ha doti inferiori e quindi significa rinnegare gli stessi principi meritocratici che si intendeva mettere in pratica. Una contraddizione logica dalla quale non si riesce a uscire.

Ora, non abbiamo riportato in maniera molto sintetica un dibattito molto più articolato su un tema come la meritocrazia per dire che la meritocrazia non serve a nulla, che è un concetto sbagliato, ma solo per porre l’attenzione su una questione: non esistono in economia ricette miracolose, pozioni magiche che possano risolvere problemi che per loro natura sono molto complessi. Ci sono piuttosto delle possibili soluzioni, c’è una cassetta degli attrezzi dalla quale attingere, ma occorre sempre esercitare il beneficio del dubbio e verificare che una qualsiasi soluzione teorica abbia poi nella realtà gli effetti voluti e non ci porti invece in direzioni completamente diverse da quelle desiderate.

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