8 dicembre 2020 – Notiziario in genere

Scritto da in data Dicembre 8, 2020

Sud Sudan: il partito di opposizione fissa la quota donne al 40% «per il loro contributo dato alla lotta d’indipendenza del Paese». Iran: 2 anni e mezzo all’ex vicepresidente riformista. Mali: cresce la tratta dei bambini, arruolati o ai lavori forzati. Bosnia: no all’hijab, e una donna soldato fa causa al ministero della Difesa. Arabia Saudita: attivista in carcere accusata di spionaggio. È detenuta dal 2018. Caso MeToo in Cina: noto conduttore tv accusato di molestie.

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Sud Sudan

Il principale partito di opposizione del Sud Sudan ha fissato una quota obbligatoria di rappresentanza di donne al 40%. Ad annunciarlo è stato, secondo la Bbc Africa, il suo leader Riek Machar. Il “Movimento di liberazione del popolo sudanese in opposizione” (Splm-Io) ha spiegato che la scelta arriva in ragione del contributo dato dalle donne nella lotta per l’indipendenza del Paese dal Sudan.

Il partito ha aderito al governo di unità nazionale del Sud Sudan nel febbraio dello scorso anno, un governo di transizione che dovrebbe portare nel giro di tre anni a nuove elezioni, dopo un accordo di pace volto a porre fine a sei anni di guerra civile. «Le donne erano con i soldati uomini in prima linea… Quindi alziamo il livello al 40%», spiega  Machar. Il partito ha tenuto la sua prima conferenza nazionale alcuni giorni fa a Juba, capitale del Sud Sudan, con la partecipazione di 1.399 delegati dei 10 Stati regionali e delle 3 aree amministrative. «Possiamo anche portare altre donne nella lista del partito e altre nell’elenco delle aree geografiche. Abbiamo donne molto forti che possono stare nelle circoscrizioni geografiche e battere gli uomini [alle elezioni]», prosegue Machar. I delegati hanno anche approvato la nomina di Regina Joseph Kapa a segretaria generale a interim di Splm-Io.

Mali

Wikimedia Commons/Rgaudin | N’Tillit, Mali

Secondo l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) in Mali la guerra, l’insicurezza alimentare, la pandemia e il deteriorarsi della situazione socio economica hanno portato a un aumento della tratta dei bambini, costretti ai lavori forzati nelle miniere d’oro o reclutati dai gruppi armati. Nel paese, dice l’Unhcr, sono aumentate le segnalazioni di casi di bambini soldato, e i gruppi armati sfruttano il lavoro dei bambini nelle miniere d’oro, utilizzando i profitti per arricchirsi, alimentare il commercio di armi e finanziare la violenza. Circa seimila bambini lavorano in otto siti minerari dove sono esposti alle «peggiori forme di lavoro minorile, sfruttamento economico, violenza sessuale, fisica e psicologica». Molti di loro lavorano senza essere pagati fino a quando i loro “debiti” di reclutamento e di viaggio non vengono saldati. E chi non è sfruttato nelle miniere è costretto a combattere, o è vittima della tratta, di violenze, scambiato come merce e reso schiavo di prestazioni sessuali o di lavori domestici, mentre le ragazze sono costrette a matrimoni precoci in un paese in cui si stima che più della metà delle giovani si sposi prima dei 18 anni.

Nella regione del Mopti, poi, donne e ragazze vengono «rapite, aggredite sessualmente e violentate»: dall’inizio di quest’anno, dice l’Unhcr, sono già stati registrati più di mille casi. E la chiusura delle scuole a causa dei conflitti nel paese e della pandemia aggrava la situazione ed espone ancor più i bambini ai gruppi armati. A sfruttare bambini e bambine, dice l’Unhcr, sono «gruppi criminali o armati organizzati ma anche i capi tribali e funzionari dello Stato, ma a volte anche parenti o membri della comunità». Tra conflitti ed emergenza sanitaria, insiste l’Agenzia Onu, «vediamo alcune delle più gravi violazioni dei diritti umani nel Sahel»: nonostante le restrizioni ai movimenti imposte dal conflitto e dalla crisi causata dal Coronavirus, il Mali rimane un paese di transito per rifugiati e migranti che cercano di raggiungere il Nord Africa e l’Europa. E il pericolo per loro è altissimo, ribadisce l’Unhcr, perchè molte delle persone in transito vengono trafficate e inviate al lavoro forzato nel settore agricolo, mentre altre, soprattutto le donne, cadono nelle mani dei gruppi criminali che promettono posti di lavoro in Nord Africa, Europa e Medio Oriente.

Bosnia-Erzegovina

Wikimedia Commons/Adam Jones  | Mostar, Bosnia-Erzegovina. 

Emela Mujanovic ha 26 anni, appartiene alle Forze armate bosniache dove ha il grado di caporal maggiore. In servizio non le è permesso di portare in servizio l’hijab, il velo islamico: per questo ha denunciato il ministero della Difesa per discriminazione e violazione del suo diritto alla libertà di religione. Nove anni fa la donna aveva deciso di coprire i capelli come prescrive l’islam: per questo sul lavoro è stata sospesa e trasferita in una caserma monoetnica a Ustikolina, nell’est del paese. Secondo il regolamento dell’esercito, ai militari e alle militari non è permesso portare capi della divisa d’ordinanza in combinazione con abiti civili, e la Difesa di fronte alla denuncia ha risposto che «non si tratta di nessuna forma di discriminazione ma di arbitrario e mancato rispetto della disciplina militare da parte della interessata, nonostante gli impegni presi nel contratto di ammissione al servizio militare professionale».

Iran

Wikimedia Commons/Fars News Agency | Shahindokht Molaverdi, ex vicepresidente riformista in Iran per gli affari femminili e della famiglia

Shahindokht Molaverdi, ex vicepresidente riformista in Iran per gli affari femminili e della famiglia, è stata condannata a due anni e mezzo di reclusione. L’accusa, che le è costata due anni, è quella di avere «minato la sicurezza dello Stato» con il trasferimento di documenti riservati all’estero, nell’ambito di una collaborazione con il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione. Si aggiungono altri sei mesi per «propaganda contro il sistema». Molaverdi ha annunciato ricorso. È stata vicepresidente nel primo governo guidato da Hassan Rohani, dal 2013 al 2017, ed è accusata in un altro procedimento di «corruzione, prostituzione e perversione sessuale» per le sue attività a sostegno delle donne, compresa la lotta contro le spose bambine e le restrizioni alle attività sportive delle donne.

Arabia Saudita

Wikimedia Commons | Loujain al-Hathloul

L’attivista saudita per i diritti umani Loujain al-Hathloul, in carcere dal 2018, è accusata di essere stata in contatto con Stati “ostili” e di aver trasmesso informazioni riservate: lo ha detto il ministro degli Affari Esteri saudita, principe Faisal ben Farhan Al-Saud, in una intervista esclusiva dell’AFP in Bahrein. «La donna saudita di 31 anni è accusata di essere stata in contatto con stati ostili al regno e di aver fornito informazioni riservate, segrete e cose del genere», ha detto il ministro. «Spetta ai tribunali decidere […] quali sono i fatti», ha aggiunto, senza ulteriori dettagli. Loujain al-Hathloul è stata arrestata insieme ad altre attiviste che nel maggio 2018 protestavano per ottenere il diritto alla guida dell’automobile, una battaglia diventata un simbolo del riscatto delle donne saudite. Lei è in carcere da allora, è stata torturata e ha subito aggressioni sessuali. Ha subito un processo senza la presenza di legali. È in isolamento da un anno. Ma le donne, in Arabia Saudita, possono finalmente guidare da due anni.

La sua famiglia ha annunciato il 25 novembre che il suo caso era stato trasferito da un giudice del tribunale penale di Riad a un tribunale speciale per i reati di terrorismo, creato nel 2008 e da allora spesso utilizzato per giudicare i prigionieri politici. L’incarcerazione dell’attivista − che ha iniziato uno sciopero della fame in prigione il 26 ottobre concluso due settimane dopo − secondo la sua famiglia e Amnesty International è stata oggetto di pesanti critiche da parte delle organizzazioni per i diritti umani e a loro giudizio non vi sarebbe stata alcuna prova di alcun reato a suo carico. Il processo a porte chiuse si è aperto nel marzo 2019. «Le accuse contro Loujain − racconta la sorella − non menzionano alcun contatto con Stati ostili. Citano esplicitamente contatti con Unione Europea, Regno Unito e Paesi Bassi. L’Arabia Saudita li considera nemici?». «Non stiamo prestando in alcun modo attenzione alla pressione internazionale su queste questioni», ha commentato il principe Faisal. «Queste sono questioni interne riguardanti la nostra sicurezza nazionale e le trattiamo in modo appropriato, attraverso il nostro sistema giudiziario».

Cina

Dopo sei anni dalla violenza subita, Zhou Xiaoxuan ha portato finalmente di fronte alla giustizia Zhu Jun, tra i più famosi conduttori tv in Cina: l’accusa per lui è di molestie sessuali. L’udienza di questi giorni, a porte chiuse alla Corte di Haidian, a nord di Pechino, potrebbe avere una portata storica e segnare una svolta per il movimento #MeToo in Cina. Zhu nega gli abusi – i fatti risalgono al 2014. L’uomo ha dal canto suo citato in giudizio la donna, e una ong che l’ha sostenuta in questi anni, per danni alla sua reputazione e al suo benessere mentale. Zhou, nota online con il soprannome di Xianzi, ha detto alla Bbc che comunque vada non avrà rimpianti. «Se vinco, questo incoraggerà molte donne a farsi avanti e a raccontare le loro storie; se perdo, continuerò a fare appello fino a quando non ci sarà giustizia».

Era il 2018 ed erano i tempi dello scandalo, diventato in poco tempo di portata internazionale, su Harvey Weinstein. Allora Xianzi, all’epoca 25enne, si era decisa e aveva scritto la sua storia in cinese sul suo account WeChat, anche per mostrare solidarietà a un’amica d’infanzia che era stata vittima di uno stupro. Lì raccontava che nel corso di uno stage all’emittente statale Cctv nel 2014 Zhu l’aveva molestata sessualmente. Si era rivolta alla polizia, spiegava ancora, ma le sue accuse non erano state prese sul serio data la celebrità dell’accusato. Il post è però diventato virale su internet dopo che una sua amica, attivista di una ong, lo ha ripubblicato sul suo account pubblico di Weibo. A quel punto, il termine “molestie sessuali” era diventato familiare sui media cinesi grazie al movimento #MeToo negli Stati Uniti, in Europa e a un piccolo numero di cause vinte in Cina. Nel gennaio dello stesso anno, un’università di Pechino aveva licenziato, caso rarissimo, un professore accusato di molestie sessuali su un’ex studentessa, ricostruisce l’Ansa.

La cattiva condotta sessuale sul posto di lavoro in Cina è vietata dalla legge, ma solo da poco tempo esiste anche una definizione legale di “molestia sessuale”. Secondo un’associazione cinese, il Beijing Yuanzhong Gender Development Center, in più di 50 milioni di sentenze dei tribunali cinesi disponibili al pubblico tra 2010 e il 2017, solo 34 sono legate a molestie sessuali, di cui solo due con le vittime che hanno citato i  presunti molestatori senza successo per “mancanza di prove”. A maggio, i legislatori cinesi hanno introdotto un nuovo codice civile che entrerà in vigore il primo gennaio 2021, in cui la molestia sessuale viene definita come ciò che «viene compiuto contro la volontà di un altro con mezzi come parole, testo, immagini o condotta». I critici sostengono che sia ancora insufficiente, ma il caso di Xianzi potrebbe dare una spinta importante anche al movimento #MeToo in Cina.

In copertina Wikimedia Commons | Sud Sudan

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