A San Juan Chamula c’è un posto

Scritto da in data Maggio 10, 2020

 

A San Juan Chamula c’è un posto

Nel cuore del Chiapas, a 10 km da San Cristobal de las Casas, in questa parte di Messico ancora dominata dalla natura e dagli dei, dal dio Quetzal, il dio del Mais e dallo spirito del Giaguaro, c’è un posto, un posto fatto di riti, candele, galline, sciamane e credenze antiche.
di Valentina Ruozi per Radio Bullets

Nella piazza del mercato si tocca un silenzio quasi ovattato, strano provarlo in questa parte del mondo così scandita dalle voci del popolo.

Per arrivarci bisogna immettersi in grovigli di stradine variopinte, dove i bambini giocano per strada con acqua e sassi, dove le madri cuociono le tortilla inginocchiate sul pavimento e i padri potestano, protestano, protestano in continuazione contro il governo organizzando picchetti regolarizzare il prezzo Mais. Sì, proprio per il Mais, una materia così importante qui da tempi immemori, tanto da essere addirittura incarnato nell’immagine di un Dio. Lo si può vedere anche in vendita, sotto forma di statuette di terracotta, nelle bancarelle per strada, accanto ai venditori di mango. Gli occhi sgranati e il copricapo fatto di pannocchie.

Una signora si affaccia alla finestra. A San Juan Chamula la popolazione non ama essere fotografata. Le madri coprono i bambini non appena avvistano un obiettivo e i passanti si coprono il viso. Eppure questa donna alla finestra non fugge, ma osserva e sorride. Dall’altra parte del marciapiede due bambini scappano a nascondersi dietro a un muretto.

A San Juan Chamula c’è un posto, dicevamo, e lo si raggiunge una volta attraversata la piazza del mercato e una volta passati di fronte a un piccolo caffè dove un signore indio, dai tratti Maya scrive poesie ai passanti. Il posto di San Juan Chamula è una chiesa bianca dai profili verdi e azzurri. La si vede subito arrivando, e facendosi spazio tra alcune famiglie indigene  ferme davanti al grande portone.

Ogni capo famiglia ha in mano un sacco nero e alcuni sporte piene di cibo.

Le fotografie sono severamente proibite in questo luogo, si potrebbero addirittura ricevere sputi o spintoni in caso la regola non venisse rispettata.

Entrando, si presenta subito un buio invadente e un forte profumo di cera. Ci mettono un po’ gli occhi ad abituarsi all’oscurità e ad accorgersi che in questa chiesa non ci sono sedie, né panche, e che per terra, il pavimento è cosparso di aghi di pino. Le scarpe affondano in quella distesa quasi surreale e bisogna fare attenzione camminando, a non inciampare. Per terra ci sono diversi gruppetti di persone, tutti inginocchiati in cerchio, con il capo chino. Alcuni sussurrano, altri dondolano. Una donna piange, mentre la vecchia di fronte a lei tiene qualcosa fra le mani. E’ una gallina nera. E’ difficile scorgerla nella penombra. L’anziana dirige una preghiera in lingua Tzatzil che ha il suono dolce di una nenia. Accanto a lei file di decine di candele e ceri votivi accesi. La cera cola sugli aghi, la donna continua a piangere, la gallina appare calma, muove le pupille, quasi incantata dalle fiammelle. Alcune bottiglie di Coca Cola giacciono accanto alle candele, assieme a al cibo e a un ad altri suppellettili.  “E’ una bevanda sacra, sussurra Joaquin, la mia guida, la Coca Cola scaccia il maligno” .

La preghiera della sciamana

All’improvviso la preghiera assume un sussurro più energico, la sciamana continua a stringere il corpo della gallina, che si fa sempre più quieta, la donna che stava piangendo si asciuga le lacrime, il marito ha le pupille così profonde che le fiammelle sembrano incendiarli. I loro due bambini stanno lì fermi, assieme ai loro genitori, lo sguardo perso, il corpo composto avvolto negli abiti della festa.

“Grave malattia” mi dice Joaquin avvicinandosi al mio orecchio. All’improvviso la sciamana soffia su una candela nera, lascia andare la gallina. La osservo, il collo a penzoloni, gli occhi immobili. E’ morta.

Le ha fermato il cuore con le mani.  Le candele vengono spente tutte, vengono prese, assieme alla gallina, alla Coca Cola e a tutto l’offertorio votivo. Tutto verrà sepolto sotto la terra di Chamula, sacrificato agli dei, perché sia fatta la loro volontà.

A San Juan Chamula esiste un posto, in cui la popolazione chiede grazia agli dei portando in offerta galline di vario colore a seconda dell’importanza della grazia o della gravità del demone da sconfiggere. Il colore bianco può significare una nascita imminente, la richiesta di buon auspicio, un familiare che torna, una guarigione. La gallina rossa può significare richiesta di perdono, o di una risoluzione. E poi c’è la gallina nera, morte imminente, grave malattia.

Quella bevanda sacra della Coca Cola

A San Juan Chamula c’è un posto in cui la Coca Cola è considerata una bevanda sacra, qui così come in gran parte del Chiapas. I dispenser automatici li si possono trovare nelle chiese o addirittura nelle case, accanto ai focolari di pietra dove le donne picchiettano le mani preparando le tortillas, la si può trovare in ogni bancarella accanto al Pozol, una bevanda ancestrale a base di mais e cacao.

L’avvento di Coca Cola è avvenuto in Chiapas in seguito a un contratto siglato con il governo Messicano per cui la multinazionale di Atlanta si sarebbe impegnata a migliorare la rete di distribuzione idrica della regione, in cambio del permesso di usare l’acqua dei pozzi messicani. Ed è proprio la Coca Cola, la bevanda miracolosa dei Tzatzil, entrata addirittura a far parte dei loro riti e del loro credo in questi anni, a costituire oggi la loro primaria causa di morte per diabete di tipo 2.  In Chiapas l’acqua è in moltissime zone ancora inquinata da Hecolibacter e, ad oggi, ancora praticamente nulla è stato fatto.

A San Juan Chamula c’è una chiesa che è il vero significato del sincretismo, in cui la religione cattolica si intreccia indissolubilmente ai riti Maya, alle tradizioni indigene, in cui San Giovanni Battista si  trasfigura con Kin Tajimoltic, in cui la fiamma delle candele si infiamma nelle lacrime delle madri e si mescola al profumo degli aghi di pino.

A San Juan Chamula c’è un poeta che scrive per i passanti seduto ad un caffè. Su un biglietto si legge “Indio como mi padre, como mi abuelo, como el futuro”.

Foto: Valentina Ruozi

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