Afghanistan: breakdance a Kabul

Scritto da in data Giugno 24, 2021

Kabul – Tutto quello di cui hanno bisogno è un pavimento sicuro. Un posto dove essere sé stessi in un Afghanistan dove essere diversi significa disegnarsi un bersaglio addosso. Sono cinque mesi che si tengono dentro la loro passione, che la imprigionano, la schiacciano, la controllano. Sono costretti a pensare che sopravvivere sia più importante che vivere, soprattutto quando devi mantenere la tua famiglia, quando devi assicurare che i tuoi fratelli abbiano un pasto sulla tavola e tua madre non debba disperarsi perché non sa come fare a tirare avanti. Sono responsabilità troppo grandi per dei ragazzi di 20 anni. Dieci ragazzi e una ragazza, se vogliamo essere precisi, che hanno un sogno nel paese e nel momento sbagliato.

Sajad Tamurian ci confida che ogni tanto è così sopraffatto che fuma oppio. Per dimenticare, per un solo momento, chi è e chi invece avrebbe potuto essere. Ci dice che sa di non dover esagerare, che non deve usare roba pesante perché ha visto cosa è successo a suo padre, un uomo schiacciato dalla depressione, finito sotto ai ponti Kabul con gli altri tossici e piano piano fuori dalla vita della sua famiglia.  Ora è lui il capo famiglia, a 11 anni si è messo a lavorare e si rammarica di non aver potuto studiare, ma non ha avuto scelta. Poi guardando dei video, a 14 anni ha conosciuto qualcosa che lo faceva letteralmente saltare in un’altra dimensione. E allora ha imparato da solo.
Il suo amico Jawad Saberi, lo ascolta e annuisce. Lui studia, va all’università, ma che abbia qualcosa che gli brucia dentro lo si vede nello sguardo, nelle dita che si attorcigliano tra loro, in quel mezzo sorriso che nasconde una storia di lotta. Sembrano tanto dei ragazzi normali, forse un po’ più alti e magri della media, con quei sorrisi dolci di chi è troppo giovane per smettere di sorprendersi della vita.

Hanno un segreto Sajad, Jawad, e gli altri nove della loro crew, così si dice in gergo: un gruppo, una squadra. Sono i Superior, l’unica crew di breakdance dell’Afghanistan. Ed essere un ballerino, nel loro caso, inghiottiti dal rap e dall’hip hop, è qualcosa d’intollerabile in un paese dove i talebani decidono delle virtù a suon di botte e attentati. Ma l’hip hop non è solo un tipo di ballo, qualcosa che si decide di fare il venerdì sera in una discoteca circondanti dagli amici. L’hip hop è uno stile di vita, un’emozione che segna il ritmo di quello che fanno, e doverlo nascondere è come ucciderli dentro un pochino ogni giorno.

«Quando ballo mi sento libero», dice Tamurian come se parlasse dell’aria che respira. «Mi sento potente», aggiunge Saberi, «faccio quello che nessuno altro sa fare». Sicuramente non in Afghanistan. Ma questo ha un prezzo: cinque mesi fa sono stati avvicinati nella loro palestra da un ragazzo che sembrava volesse imparare, invece era un attentatore suicida che la polizia ha fermato in tempo. Così hanno smesso perché non esiste un posto sicuro. Soprattutto perché non solo ballavano, ma nella loro crew c’era una ragazza.

«Vorremmo solo avere una possibilità, potremmo fare grandi cose, se solo avessimo un’occasione». Questo non è il paese degli aquiloni, ma quello delle occasioni mancate, dove il crimine peggiore dei talebani, dei fondamentalisti, dell’Isis o chi per loro, non è solo quello di uccidere le persone ma di spegnere i sogni. Vorrebbero partecipare alle competizioni internazionali, vorrebbero prepararsi per le olimpiadi del 2024 dove la break sarà una disciplina, vorrebbero poter avere un pavimento dove scivolare, fare le loro piroette sulla testa, snodare i loro corpi come se fossero di gomma, invece di doverlo fare sulle moquette di casa, facendosi dei segnacci terribili sulla pelle.

«Non abbiamo solo paura per noi, ma anche per le nostre famiglie, ai talebani non piace niente che non sia quello che dicono loro. L’unica cosa che non è proibita è uccidere. E per quanto possiamo resistere, siamo soli, non siamo nessuno, abbiamo dalla nostra parte solo le parole», dice Saberi, che scriveva canzoni rap, ha un album pronto, ma girare per le strade di Kabul è troppo pericoloso.

«Ogni giorno penso a quello che vorrei fare e che invece non possiamo», è come se la frustrazione, la disillusione li legasse l’uno all’altro in una morsa letale. «Magari qualche ambasciata può aiutarci, magari un giorno avremo dei visti per andare a una competizione, ma non ce li danno, perché hanno paura che fuggiremmo, ma non accadrebbe perché non abbandoneremmo mai le nostre famiglie e il nostro paese. L’Afghanistan è casa, è patria. Penso al rap afroamericano, alle canzoni sulle gang, pensa cosa possiamo scrivere noi, sulla guerra, sulla lotta, sui soprusi?», dice Tamurian che è circondato da un’energia repressa che è quasi palpabile.
«Sono figlio della strada. Canto di una vita che non esiste. Il mio rap e le tue regole non ci portano nella stessa direzione», canta una canzone rap di Saberi che si intitola “Io sono”.
E quello che sono è essere ragazzi che hanno bisogno di un pavimento sicuro per esprimersi, e il delitto peggiore sarebbe non darglielo.

Foto di copertina: Photo by Drew Graham on Unsplash

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