Afghanistan: giornalisti nel mirino

Scritto da in data Giugno 19, 2021

L’Afghanistan è uno dei tre paesi più letali per i giornalisti al mondo. Tra il 2020 e il 2021, dodici reporter sono stati uccisi. Uomini e donne, chi fatto saltare sull’autobus che lo portava al lavoro, chi in un agguato davanti casa, magari di fronte ai propri figli. Eppure in questo paese, dove il 65% degli uomini non sa né leggere né scrivere come il 75% delle donne, esiste un giornalismo maturo, competente e soprattutto agguerrito. Ci sono tv per donne, ci sono programmi politici che non guardano in faccia a nessuno, ci sono dibattiti, intrattenimento ed educazione. Perché qui il giornalismo sa di essere un servizio per molte persone che hanno poco accesso ad altre forme di informazione, soprattutto se non si abita in una grande città.

Tolo tv è la principale stazione televisiva del paese ed è anche una di quelle più colpite dalla perdita di giornalisti. Per entrare nel suo quartiere generale bisogna superare controlli di sicurezza, che non divergono da qualsiasi altro sito sensibile che sia straniero o militare.

Lotfullah Najafizada sembrerebbe giovane per essere il direttore di Tolo News, ma questo è un paese in cui si deve crescere in fretta. «Credo che il domani sarà peggiore dell’oggi», ci dice in tutta franchezza confermando le poche speranze che le persone di Kabul hanno in quello che sta succedendo. «Non vediamo pace all’orizzonte anzi, temo che la violenza possa aumentare, vedremo altri distretti conquistati dai talebani, ma le città dovrebbero essere al sicuro». Per Najafizada i talebani non sono assolutamente seri nel processo di pace, si parla del dopo senza sapere cosa abbiano in mente. Gli americani hanno fatto un accordo sulla base di un piano che nessuno ha visto. «Capisco che ci vogliano compromessi e che la guerra civile non sia nell’interesse di nessuno, la presa militare della capitale non sia fattibile, comunque quello che si sta vivendo ogni giorno in questo paese è molto difficile».

Come vivono i media questa situazione?

«I media in questo paese sono abbastanza maturi, indipendenti ma a un prezzo altissimo: almeno 12 giornalisti sono stati uccisi nell’ultimo anno. Sono stati fatti grandi sacrifici, ma ognuno raccoglie l’eredità di chi muore e va avanti perché dobbiamo servire gli interessi degli afghani».

Riuscite a parlare con i talebani?

«Ci sono dei canali aperti, penso che in ogni caso ci sia bisogno di parlare. Ci sono due posizioni, quella in cui dicono che vogliono restaurare il regime o la versione più moderna, dove sarà la gente a scegliere la direzione che vuole seguire per il paese. E io credo che la gente non voglia tornare indietro».

Che cosa i talebani vorrebbero cambiare?

«Nessuno lo sa, parlano di struttura islamica. Ma siamo già un paese musulmano. Forse a Doha (dove sono in corso i negoziati intra-afghani) si vuole solo perdere tempo. Per negoziare bisogna essere in buona fede, se no non si arriva mai da nessuna parte, esattamente il punto in cui siamo ora. I talebani devono smettere di credere di poter conquistare il paese, perché non ne hanno alcuna possibilità: conquistare un po’ di distretti nelle province rurali non è come sfidare l’esercito qui. Punterei anche sulla pressione che possono fare alcuni paesi. Parlo di Pakistan, Iran, Turchia. Per il Pakistan è un affare regionale».

In questo periodo si parla molto della sicurezza dell’aeroporto di Kabul, pare che vogliano occuparsene i turchi e i pakistani.

«L’aeroporto è importante sia per il controllo di quello che entra ed esce dal paese sia per la presenza delle ambasciate straniere. Con i talebani nessuno accetterebbe di restare sapendo che loro controllano l’unica via di uscita. Per la Turchia invece è un modo di imporsi come paese che rimane, rispetto al resto della Nato, e per gli afghani sono tollerabili perché musulmani».

Che ne pensa del ritiro?

«Il ritiro si basa sugli interessi degli americani e avrà un forte impatto sugli afghani. Nessuno vuole che questo paese collassi, ma nel caso accadesse, saremo soli. Insomma, sono passati 20 anni, forse tutto questo si poteva fare prima, si sarebbe dovuto coinvolgere il Pakistan da subito, si sarebbe dovuto tenere aperto un canale con i talebani. Per la gente, gli americani hanno perso, ma gli afghani devono anche assumersi delle responsabilità, come la corruzione: sono arrivati troppi soldi senza alcun controllo, dati a persone piuttosto che a istituzioni».

È ottimista?

«Sono speranzoso altrimenti non sarebbe possibile lavorare. È una lunga strada quella che ci aspetta. Possiamo fare la differenza? Ci stiamo provando».

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