Automazione e scomparsa del lavoro
Scritto da Pasquale Angius in data Luglio 28, 2020
Oggi parliamo di automazione e tendenziale scomparsa del lavoro.
C’è un ulteriore cambiamento che la pandemia da coronavirus finirà probabilmente per accelerare. Noi non ce ne rendiamo pienamente conto perché i cambiamenti nella nostra vita e nella società che ci circonda li percepiamo soltanto quando si manifestano con una crisi violenta, uno shock improvviso, ma la maggior parte dei cambiamenti sono processi lenti e lunghi, soprattutto quelli che vengono innescati dall’innovazione tecnologica.
Invece di leggere prova ad ascoltare: la musica e la narrazione renderanno l’esperienza più coinvolgente!
Una trasformazione tecnologica
Pensiamo ai telefoni cellulari. I primi telefoni portatili cominciarono a diffondersi verso la prima metà degli anni Novanta ed erano, per chi se li ricorda, dei ‘mattoni’ con un’antenna. Gradualmente, innovazione dopo innovazione, ormai siamo alla soglia degli smartphone che, tra poco, potranno utilizzare la tecnologia 5G. Ormai gli smartphone li possiamo tenere in tasca, sono ultrasottili, leggeri, fanno mille cose, ci consentono di: telefonare, mandare messaggi, scattare foto di buona qualità, riprendere filmati, registrare audio, ascoltare la radio, connettersi a Internet, effettuare pagamenti, pagare i biglietti dei mezzi pubblici e mille altre cose ancora. La vera innovazione disrupting, cioè dirompente, come direbbero gli economisti, fu l’innovazione iniziale, l’introduzione del telefono portatile. Tutte le innovazioni successive sono innovazioni incrementali, miglioramenti anche piccoli ma continui di quella prima fondamentale innovazione.
Allo stesso modo è in corso in questi ultimi anni una grande trasformazione tecnologica di cui ancora non percepiamo bene né le dimensioni né le conseguenze, ed è la rivoluzione dell’automazione. Si tratta di una sorta di fiume carsico che lentamente, sottotraccia, sta cambiando e cambierà sempre più le nostre vite nei prossimi anni. Ormai ci sono una quantità incredibile di attività umane che possono essere più facilmente svolte dalle macchine. Citiamone una. La guida di veicoli, dalle automobili ai camion, dagli aerei ai treni, potrebbe essere benissimo affidata a un computer di bordo senza alcun intervento umano. La tecnologia esiste già. Perché non lo si fa? Per varie ragioni. Innanzitutto, perché occorre creare o attrezzare le infrastrutture, e la tecnologia 5G servirà molto a tal proposito. Pensiamo all’automobile che si guida da sola. Occorre che lungo le strade ci siano tutta una serie di sensori e di segnali che consentano al computer che guida il veicolo di “vedere” il percorso, gli ostacoli, i pericoli potenziali e decidere, in tutte le possibili situazioni, come comportarsi. Queste infrastrutture vanno ancora in gran parte costruite. Ma c’è anche un enorme problema psicologico. Non siamo ancora abituati a fidarci completamente delle macchine, degli automi, dei computer. Mettere le nostre vite e quella dei nostri cari, la nostra sicurezza, nelle mani di un computer di bordo è ancora qualcosa che va oltre la nostra accettazione. Però le tecnologie ci sono, le auto che si guidano da sole ci sono e funzionano, e diventeranno sempre più numerose nel futuro. Ma questo fatto causerà nei prossimi anni la perdita di milioni di posti di lavoro e questa è un’altra delle ragioni per cui queste tecnologie si diffondono con una certa lentezza. Nessuno sa, nessuno ancora ha pensato, cosa far fare ai milioni di persone che attualmente, di mestiere, guidano veicoli di ogni genere.
A Milano, per esempio, c’è un’intera linea della metropolitana, la linea 5, senza conducenti. I convogli sono mossi da computer e funziona benissimo! Quanti posti di lavoro si sono risparmiati? Probabilmente alcune centinaia, ma quel risparmio visto da un’altra prospettiva è un problema. Significa che diverse centinaia di posti di lavoro qualificati e quindi anche ben retribuiti, sono stati cancellati.
Questo è un esempio semplice. Ma la stessa cosa sta avvenendo nelle fabbriche, dove ormai i robot sostituiscono o possono sostituire gli esseri umani in tutti i lavori pesanti o routinari. Ma vale anche in agricoltura, dove ormai esistono macchinari che consentono di ridurre al minimo l’impiego di manodopera. Anche operazioni cosiddette labour intensive, ad alta intensità di lavoro, cioè che richiedono l’impiego di molte persone – pensiamo alla raccolta della frutta e delle verdure – possono essere ormai effettuate da robot che, tra l’altro, rispetto agli esseri umani hanno diversi vantaggi: non si stancano, non rivendicano diritti, non hanno bisogno di permessi, ferie, malattia, fine settimana libero, contributi pensionistici e tutte le altre “brutte” abitudini che si sono presi i lavoratori. Il problema comincia a porsi anche nelle professioni più complesse, quelle intellettuali. Ci sono computer in grado ormai di fare una diagnosi medica in maniera più accurata di uno specialista, perché possono incamerare ed elaborare una quantità infinita di dati e di letteratura scientifica.
Ci sono robot in grado di effettuare operazioni chirurgiche con una precisione superiore a quella del miglior chirurgo umano.
Ci sono computer in grado di scrivere articoli giornalistici, altri capaci di tenere lezioni universitarie, altri che si occupano dell’assistenza agli anziani, ai malati, ai disabili.
Certamente queste innovazioni ci apriranno nei prossimi anni prospettive che nemmeno riusciamo a immaginare, ma porranno anche un fondamentale problema economico, lo accennavamo prima: i milioni di persone che perderanno il lavoro come faranno a vivere?
Come si manterranno i milioni di persone che perderanno il lavoro?
Qualche economista vi racconterà la solita favoletta, gli economisti la raccontano sempre, un po’ come si fa con i bambini quando non vogliono andare a dormire: gli si racconta una bella favola, con un bel finale, in modo che non si agitino troppo. La favola che vi racconteranno è la seguente: come sempre è accaduto, la tecnologia e le macchine distruggono posti di lavoro ma ne creano di nuovi, diversi, più qualificati, meno pesanti. D’altronde è quello che è avvenuto negli ultimi due secoli.
Alla vigilia della rivoluzione industriale, ultimi decenni del Settecento, in effetti l’80% della popolazione lavorava nei campi, era dedita all’agricoltura, all’allevamento e alle attività correlate. Con la rivoluzione industriale la percentuale di popolazione che si dedicava all’agricoltura è gradualmente diminuita. Molti abbandonavano i campi per andare a lavorare nei nuovi opifici, nelle manifatture, dove si guadagnava di più e si faticava di meno. Nello stesso tempo le innovazioni tecnologiche nel settore agricolo consentivano di accrescere enormemente la produttività. Se per arare, invece di usare l’aratro trainato dai buoi, posso usare il trattore riesco a lavorare una superficie molto più ampia, in minor tempo e con minor fatica.
Stessa cosa è avvenuta nel settore industriale: un iniziale grande sviluppo, con l’introduzione poi di sempre nuovi macchinari, che riducevano gli occupati mentre aumentava comunque la produttività. Pensiamo alla catena di montaggio di un’automobile. Fino a qualche decennio fa, negli anni Settanta, alla catena di montaggio c’erano degli operai, oggigiorno, le catene di montaggio delle auto sono tutte robotizzate, il numero di operai necessari si è notevolmente ridotto mentre è aumentato il numero di vetture prodotte. Quindi, col tempo, anche il settore industriale ha smesso di creare nuove opportunità di lavoro: le macchine, i robot, possono sostituire gli umani in gran parte delle produzioni.
Ma, negli ultimi quaranta, cinquant’anni, chi non trovava lavoro in agricoltura e nell’industria trovava però lavoro nel cosiddetto settore terziario o dei servizi, un settore molto vasto nel quale si comprendono, per semplificare, tutte le attività che non sono né agricoltura né industria, in senso stretto. Nei paesi sviluppati la gran parte delle persone oggigiorno lavorano nei servizi, una percentuale che oscilla, a seconda dei paesi, tra il 60% e l’80%, degli occupati.
L’agricoltura ormai assorbe una percentuale molto bassa di occupazione. In un paese come gli Stati Uniti, per esempio, nel quale la meccanizzazione del settore agricolo è molto accentuata, soltanto l’1% degli occupati lavorano nel settore primario, cioè agricoltura, allevamento e dintorni.
Ma se la crescente automazione si estenderà nei prossimi anni, come dicevamo prima, anche al settore dei servizi con conseguente riduzione drastica dei posti di lavoro, la gente dove andrà a lavorare. Se non troverà lavoro come farà a campare?
Qualcuno potrebbe gioire e pensare che finalmente non avremmo più bisogno di lavorare, lavoreranno le macchine al nostro posto. Poi non dimentichiamoci che nei prossimi decenni si svilupperà un nuovo settore che è quello dello spazio. Si prevede che entro il 2050 gli esseri umani riusciranno a raggiungere Marte e a stabilire colonie stanziali sulla Luna. Tutte cose molto probabili e meno fantascientifiche di quel che possiamo pensare, e che certamente creeranno nuovi posti di lavoro. Ma, c’è un ma, ed è sempre quello che riportavamo sopra: cosa faranno milioni di persone che resteranno senza lavoro? Non potranno mica fare tutti gli astronauti! Da dove trarranno il reddito per vivere, per acquistare beni e servizi, per consumare prodotti? Il problema è allo stesso tempo un problema economico ma anche esistenziale, sociale, e politico.
Qualche economista, come dicevamo prima, vi racconterà la solita favoletta consolatoria: tranquilli, l’innovazione tecnologica distrugge vecchi lavori e antichi mestieri ma ne crea di nuovi per cui non c’è ragione di preoccuparsi.
Ma qualcuno, anzi parecchi, compresi diversi economisti un po’ più attenti, dicono che questa volta è diverso. Il cambiamento che sta avvenendo sarà così radicale che tutti gli esempi e l’esperienza storica del passato, serviranno a poco.
Un giornalista molto acuto, che si è occupato di queste tematiche e che si chiama Riccardo Staglianò, alcuni anni fa pubblicò un interessante libro intitolato “Al posto tuo”, dove, mettendo assieme una serie di inchieste fatte prevalentemente negli Stati Uniti, uno dei paesi più avanzati sul piano tecnologico, arrivava alla conclusione che la sostituzione di umani con macchine, che sta avvenendo ormai in tutti i settori, porterà alla scomparsa di milioni di posti di lavoro.
Qualcuno potrebbe pensare che questi toni allarmistici siano esagerati. D’altronde basta guardare quanti nuovi posti di lavoro si sono creati negli ultimi vent’anni grazie a internet e alle nuove tecnologie informatiche.
Questo è vero, ma solo in parte. Andiamo a vedere più nel dettaglio.
L’avanzamento tecnologico crea nuovi posti di lavoro?
Abbiamo spesso seguito servizi televisivi nei quali ci facevano vedere come si lavora nelle aziende tecnologiche della Silicon Valley, a sud di San Francisco. Oltre al fatto di essere in California – e vuoi mettere – si vedono aziende ultramoderne, con grandi spazi, con gente rilassata che guadagna un sacco di soldi e quando vuole staccarsi dal suo computer può fare due tiri a pallacanestro, perché ovviamente all’interno dell’azienda c’è il campetto da basket; può tirare di boxe o fare una seduta di yoga, perché all’interno dell’azienda c’è, ovviamente, la palestra; oppure può giocare a calcio balilla, a ping-pong o a qualsiasi altro divertentissimo gioco che noi, comuni mortali, possiamo concederci, quando riusciamo, nei pochi giorni di vacanza.
La grande narrazione apologetica che spesso troviamo sui mass media, secondo la quale i cosiddetti giganti del web riusciranno a sostituire con nuovi posti di lavoro migliori, più creativi, più soddisfacenti, meglio pagati, i posti di lavoro che il progresso tecnologico sta facendo perdere nei settori più tradizionali, anche questa è una bella e consolatoria favoletta che non trova conferma nei numeri. E i numeri in economia sono importanti, anzi direi fondamentali, perché i numeri sono coriacei, hanno la testa dura: i numeri non mentono. E allora andiamo a vedere un semplice numero, negli Stati Uniti, il più grande paese capitalistico, sede di gran parte di questi giganti del web: Google, Apple, Amazon, Instagram, Microsoft, Twitter, Facebook, Uber, ecc., quante persone lavorano in queste nuove realtà? Tenetevi forte perché la cifra è da capogiro: attenzione… lo 0,5%! Sì, avete capito bene, non ci siamo sbagliati, soltanto lo 0,5% della forza lavoro statunitense lavora in questo tipo di aziende. Aziende che hanno una capitalizzazione di Borsa di centinaia di miliardi di dollari, che fatturano migliaia di miliardi di dollari ma creano, purtroppo, soltanto poche migliaia di posti di lavoro.
Ma ci sono però tutte le nuove professioni che ci si può inventare sul web, professioni tra l’altro, molto divertenti: lo youtuber, il blogger, l’influencer e, a questo punto del ragionamento, c’è sempre il genio della lampada che cala sul tavolo l’asso, citandovi la regina assoluta delle influencer, l’inarrivabile Chiara Ferragni! Imprenditrice abilissima, è riuscita certamente a diventare una star mondiale e a guadagnare veramente parecchi soldi, ma è una su quanti? Migliaia? Decine di migliaia? Centinaia di migliaia? Un sacco di gente che ci prova, pochissimi quelli che riescono a emergere o anche, semplicemente, a trasformare quella che può essere una passione o un’intuizione più o meno brillante in un mestiere, in un lavoro che, se non li fa diventare ricchi, almeno gli consenta di vivere dignitosamente.
Anche qui guardiamo i numeri e diamoci una calmata!
Ma poi ci sono tutti i posti di lavoro creati dalle nuove tecnologie, le famigerate start up. Cominciamo col dire che le start up sono certamente una nuova realtà, importante, soprattutto in alcuni paesi, per esempio gli Stati Uniti o paesi, come Israele, che investono in ricerca e tecnologia percentuali importanti del loro PIL. In Italia il fenomeno è molto ridotto: è difficile trovare i cosiddetti venture capitalist, cioè chi sia disposto a finanziare, assumendosi il rischio, queste attività. Il contesto amministrativo, normativo e fiscale non aiuta, anzi ostacola, chi potrebbe avere qualche buona idea, molto talento e parecchia buona volontà e poi comunque anche qui occorre guardare sempre i dati. E i dati che, come dicevamo prima, hanno la testa dura, ci dicono che su 100 start up tecnologiche, a tre anni dalla fondazione, soltanto 10 sono sopravvissute, quindi c’è un tasso di mortalità del 90%! Non è esattamente un successone! Questo significa che non si devono fare e promuovere le start up? Assolutamente no. In molti settori della ricerca e della tecnologia si procede inevitabilmente per tentativi e quindi prima di trovare qualcosa che funzioni veramente, non soltanto dal punto di vista tecnologico ma anche commerciale ed imprenditoriale e che quindi possa dar vita ad un’azienda con un futuro, si va incontro a diversi fallimenti. Quindi, anche in questo caso, non facciamoci prendere dai facili ottimismi che poi non trovano riscontro nella realtà. Il settore delle start up, certamente importante per sviluppare prodotti innovativi, non è tuttavia in grado di assorbire grandi flussi di manodopera.
La GIG Economy
Negli ultimi anni si è sviluppata anche quella che è stata chiamata la GIG Economy, l’economia dei lavoretti. È l’economia legata alle piattaforme internet, alle app per gli smartphone e alle reti logistiche che servono le piattaforme per il commercio online e la distribuzione di prodotti. Si tratta però, come dice la parola stessa, non più di lavoro ma di “lavoretti”, quindi attività che in teoria dovrebbero essere attività integrative come i lavori che svolgono i riders che consegnano il cibo scorrazzando per le nostre città a cavallo di biciclette o di motorini per pochi euro all’ora. Sono gli autisti di Uber, attività vietata in Italia come in altri paesi europei dopo le rivolte dei tassisti, ma attivissima negli Stati Uniti e in decine di altri paesi. Sono coloro che lavorano nei grandi magazzini delle piattaforme del commercio online per preparare le consegne in cambio di stipendi piuttosto modesti. Sono lavoretti che dovrebbero servire per integrare un lavoro più stabile o che dovrebbero essere svolti da quelle categorie che hanno necessità di guadagnare un piccolo reddito ma possono dedicare al lavoro soltanto poche ore al giorno, ma che spesso diventano, invece, il lavoro principale per molte persone per una semplice ragione… perché non si trova altro!
Purtroppo, ci stiamo muovendo verso quella che alcuni economisti hanno chiamato una jobless society, una società senza lavoro.
Questo significa che il tema della distribuzione delle risorse, un tema fondamentale in economia come anche in politica, passato in secondo piano negli ultimi decenni, diventerà un tema di grandissima attualità nei prossimi anni. Se la rivoluzione tecnologica, basata sull’automazione, ci consentirà di superare o comunque di controllare il problema della produzione dei beni agricoli, industriali, immateriali, che servono alla nostra esistenza quotidiana, non è però in grado di risolvere il problema della distribuzione delle risorse perché quello è un problema eminentemente economico e politico e, quindi, eminentemente umano. Quel problema non ce lo risolveranno le macchine, dovremo imparare a risolvercelo noi.
Le possibili soluzioni sono, come sempre, infinite e imprevedibili. Si può andare verso una sorta di dittatura tecnologico-finanziaria con un mondo dominato da piccolissime oligarchie che controllano tutte le risorse importanti: la tecnologia, la finanza, l’economia, la distribuzione delle risorse, l’informazione; ma si potrebbe anche andare verso un mondo dove le risorse vengono messe a disposizione degli esseri umani per migliorare la loro vita, e quindi un modello più democratico, partecipativo, solidale.
Come andrà a finire non lo può sapere nessuno, lo sapremo soltanto vivendo, ma è indubbio che se non cominciamo ad avere consapevolezza del problema e dei suoi esiti, il rischio è che a un certo punto ci accorgeremo che qualcuno ha deciso per noi. Per questo è importante cercare di capire i processi e i fenomeni economici. Per cui, continuate a seguirci: nel nostro piccolo qualche spunto di riflessione cercheremo di darvelo.
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