Copriti, che arriva l’inferno

Scritto da in data Ottobre 6, 2019

La nuova rotta balcanica. I migranti ammassati alle frontiere della Bosnia. La polizia croata e la violenza. Conversazione con Lorena Fornasir, attivista triestina. Che lancia una petizione affinché non restino impuniti i crimini contro l’umanità, compiuti sulla pelle dei migranti e nell’indifferenza delle istituzioni.

La storia di Umar

“Questo ragazzo qua aveva una ferita tremenda, ci ha spiegato che la polizia croata lo aveva catturato nei boschi, lo aveva sottoposto a tutte le solite sevizie, bastonatura, rottura del cellulare, gli avevano rubato tutti i soldi, lo avevano percosso, gli avevano spruzzato lo spray al peperoncino e poi, minacciandolo di morte con una sbarra incandescente, gliel’hanno passata sulla gamba scorticandola e lasciando la pelle viva, pelle bruciata”.

Nei racconti di chi lo ha incontrato il ragazzo ha diversi nomi, Umar, Ahmad, Adan, per proteggerne l’identità. Andava lungo la strada che dalla Bosnia porta in Croazia, e dalla Croazia via, verso l’Italia, la Germania, quando le guardie lo hanno beccato. Percorreva quella che da tempo ormai si chiama la “nuova rotta balcanica”, la rotta del sud, che dalla Turchia attraversa la Grecia, e da lì percorre l’Albania, poi quella che fu Jugoslavia, fino al confine con Trieste. Arrivarci, è già un’impresa. Riuscire ad andare oltre, quasi un miraggio. Lorena Fornasir e suo marito Gian Andrea Franchi vivono a Trieste, hanno scelto di stare dalla loro parte.

“Io e mio marito abbiamo 147 anni in due: da quando è iniziata la rotta balcanica noi non siamo stati capaci di voltare la testa dall’altra parte. Qui a Trieste c’è l’approdo della rotta balcanica e quando arrivano vediamo come arrivano, in che condizioni. Passano a volte anche 25 giorni nei boschi con tutti i pericoli, i lupi, la polizia che li cerca con i cani che li azzannano… abbiamo testimonianze che dicono che i poliziotti ci ridono sopra e lasciano che i cani attacchino i migranti. Io e mio marito andiamo spesso in stazione a curarli e vediamo tantissimi di morsi di cane, tantissimi.  Anche questo è disumano. Eppure quando li vediamo, nonostante le condizioni viene da pensare: “però perlomeno sei vivo, non sei morto”. “

“I migranti che vengono catturati nei boschi sono sottoposti a un trattamento disumano, sevizie vere e proprie. Ultimamente abbiamo registrato casi di torture come quello di un ragazzino di 15 anni torturato con scosse elettriche. L’altro giorno, mentre andavamo verso il confine tra la Bosnia e la Croazia per rientrare in Italia abbiamo trovato decine e decine di ragazzi respinti, tutti in condizione disumane, stanchissimi, affamati sporchi, con i telefoni rotti, senza scarpe. Questa, purtroppo, è diventata la normalità. Però abbiamo incontrato anche un ragazzo completamente solo, disunito dal gruppo perché non riusciva a camminare e lo abbiamo notato proprio per questo. Con gli altri ragazzi ci siamo fermati, abbiamo parlato, abbiamo lasciato delle cose. Lui invece no, stava solo, noi eravamo in macchina e non ci eravamo accorti del suo stato, ce ne siamo resi conto dopo e allora abbiamo voltato la macchina e siamo tornati indietro… lo abbiamo trovato esausto, senza scarpe,  e ci ha mostrato questa ferita spaventosa, traumatica, perché è traumatico osservare una ferita di quel genere. Io non sono abituata, quando vedo scene di violenza chiudo gli occhi non riesco a sopportarla …Questo ragazzo qua aveva una ferita tremenda: ci ha spiegato che la polizia croata lo aveva catturato nei boschi e lo aveva sottoposto a tutte le solite sevizie, bastonatura, rottura del cellulare, gli avevano rubato tutti i soldi, lo avevano percosso, gli avevano spruzzato lo spray al peperoncino e poi, minacciandolo di morte, con una sbarra incandescente gliel’hanno passata sulla gamba scorticandola e lasciando la pelle viva, pelle bruciata, che significa che quella pelle è esposta a tutte le infezioni. Bisogna anche pensare che i ragazzi, i migranti, non possono entrare nelle farmacie per prendere farmaci, in un bar per un caffé o in un negozio per comprare da mangiare.  Quindi uno che ha una ferita si prende tutto, infezioni gravissime. Penso ad Alì, che era stato torturato dalla polizia, poi era arrivato al campo di Velika Kladuša il 7 febbraio con i piedi in necrosi e adesso è morto.  La necrosi gli ha dato delle complicazioni in tutto il suo fisico e così sabato 21 settembre è morto da solo, completamente solo, all’ospedale di Bihać”.

La storia di Alì

Alì, il cui vero nome era Khoubaieb, veniva dalla Tunisia, era stato prima in Italia, poi in Germania. Poi tornato, non si sa come né perché, verso la Tunisia, forse a trovare la famiglia, e di nuovo ripartito. Ma la Germania non l’ha mai più vista, i suoi piedi non ce l’hanno fatta ad andare più lontano della Bosnia. Erano ormai in necrosi ma lui ha rifiutato l’amputazione, unica cura possibile. Perché senza piedi sarebbe morto comunque, non avrebbe avuto una via di fuga.

“La fuga si fa con i piedi e Alì aveva sofferto tantissimo. Era ovviamente traumatizzato dal trattamento ricevuto, i piedi erano neri così neri che sembravano dipinti, sembrava che ci avessero passato la pece nera. Possiamo dire che lui era psicologicamente provato? Sì, lo possiamo dire. Perché lui era traumatizzato e in ogni traumatizzato c’è anche una parte sognante.  Uno psichiatra direbbe “allucinatoria”, io che sono psicoterapeuta uso questa parola. La sua parte allucinatoria lo ha tenuto in vita, altrimenti lui era consegnato da subito alla morte. Forse il pensiero di andare in Germania, abbracciare suo figlio, lo ha tenuto vivo: è morto con i suoi piedi lì, che cadevano a brandelli ma lui non se li è lasciati toccare, perché erano la sua ultima speranza, la sua vita. E alla fine dei suoi giorni è andato verso il bosco. Lo hanno trovato svenuto. L’Organizzazione internazionale delle migrazioni lo ha portato all’ospedale. Lì è stato curato ma ormai il suo fisico era troppo compromesso e non c’era più niente da fare, è morto senza i suoi affetti, senza sua madre, senza nessuno”

“Io non ho notizie certe di lui, so che aveva un bambino piccolo, so che aveva una compagna. So che era andato a trovare la sua famiglia ma quando ha richiesto il visto per rientrare in Germania gli è stato negato e allora ha tentato più volte la rotta balcanica. Una volta era arrivato fino a Trieste, lì è salito in treno senza biglietto, senza un soldo, ed è stato rimandato là da dove era partito. Però per rimandarlo indietro lo hanno consegnato alla polizia slovena che lo ha consegnato a quella croata che lo ha sottoposto a questo trattamento, a questa tortura. Perché levare le scarpe è sempre una tortura ma quando si è a cinque, dieci, venti gradi sotto lo zero vuol dire mandare una persona a morire. E questo è quello che ha fatto la polizia croata: è un crimine contro l’umanità così come lo è quello che è successo a tutti quei ragazzi che sono morti cercando di attraversare il fiume, con la polizia che li aspetta con i fucili puntati addosso, perché scappare lungo un fiume non è facile e se uno cade ci rimane… quanti, quanti sono morti così?”

I morti, la discarica e il confine di Velika Kladuša

Non c’è un numero ufficiale: l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, nel suo progetto “missing migrants” cita solo due morti nel 2019 al confine di Velika Kladuša, 39 in tutta la rotta balcanica, 49 in tutta l’Europa. Sono numeri che vengono da poche fonti ufficiali e pochi articoli di giornale, quindi più che parziali. Cifre incerte anche per la loro presenza nei campi di accoglienza o di transito. La Grecia ha calcolato oltre 44mila arrivi nel 2019, ma le cifre non dicono quanti di questi siano stati registrati. La Croazia ha di recente annunciato di aver arrestato e espulso oltre 11mila migranti che ha definito essere entrati illegalmente. La Bosnia, invece, situa a quasi 22mila la soglia dei migranti registrati, ma non conta quelli che invece sono in transito, entrati attraverso le frontiere non controllate. Il campo di Bira ne puà ospitare 700, arrivano a essere fino a 3mila, anche più, per volta. Così le autorità del posto, stanche di non avere risposta non diciamo dall’Europa, ma almeno da Sarajevo, hanno deciso di spostare i “non registrati” più in là, verso il confine croato, ad appena 5 chilometri dalla frontiera. In un posto che un tempo era una discarica.

“Hanno buttato 700 persone in una discarica che esala metano e altre sostanze chimiche che vengono dai rifiuti. Hanno portato centinaia di persone in questa discarica dove non c’è acqua, non c’è luce ed è a cinque km dal confine con la Croazia.  Una provocazione, perché è un chiaro invito a entrare, andarsene, ma quando rientrano ricevono questo trattamento orribile, disumano. Hanno detto “se volete che spostiamo il campo dateci i soldi”. Viene da pensare che c’è un enorme business sulla pelle di queste persone. L’altro giorno hanno espulso tutti i volontari, i medici e paramedici che sono volontari, che ci mettono la loro vita, i loro corpi, il proprio tempo, i propri soldi. Gli hanno persino dato una sanzione di 150 euro.  Chi si prenderà ora cura di questi ragazzi, che sono feriti, che si ammalano, che vivono in una discarica tossica?”

I migranti, in reazione all’espulsione dei medici, hanno iniziato una sciopero della fame. Ed è stupefacente vedere l’incrollabile fiducia che hanno nei gesti di disobbedienza civile, come uno sciopero, dopo la violenza che hanno subìto.

“Penso che non succederà niente perché i migranti sono persone prive di valore, persone non persone, non degne né di vita né di morte. Colpisce anche la loro forza, la loro speranza, la loro capacità di resilienza, questa credenza che hanno rispetto all’Europa, alla legalità dell’Europa che invece li sta confinando lì.  Ma non hanno alternativa: o vivono o muoiono. Prima di questo sciopero c’è stata una grande manifestazione dei migranti che hanno piantato le tende al confine. Chiedevano di aprire i confini: erano famiglie, bambini, uomini. Sono stati lì diversi giorni in condizioni pessime ma non è successo niente, perché l”Europa non ascolta queste grida di dolore. Non li ascolta e continua da un lato a trattare con la Croazia, dall’altro a considerare la Bosnia come la sua discarica umana”.

La storia del ragazzo e della dolina

“Vorrei ricordare la storia di un ragazzo che alle tre del mattino , mentre era assieme al suo gruppo nel bosco a dormire, è stato svegliato perché arrivava la polizia. Tutti sono scappati, è scappato anche lui, però di notte non ha visto dove metteva i piedi ed è caduto in una fossa di dolina. Questo ragazzo veniva dall’Afghanistan e aveva tutto il diritto di venire di chiedere asilo in Europa perché scappava dalla guerra. Invece è venuto a morire qui, in una fossa di dolina… La polizia non l’ha aiutato, ha sentito le grida, il suo amico si è fermato, si è consegnato alla polizia croata per chiedere di aiutarlo ma la polizia li ha derisi, non ha voluto, non l’hanno aiutato. Solo 11 ore dopo sono andati a recuperarlo ed era morto. Io che non sono sua madre penso alla madre di questo ragazzo: è una cosa inconcepibile per la mente umana pensare come sarà morto quel ragazzo… subito? dopo undici ore? con quali dolori? un ragazzo che potrebbe essere mio nipote…per quello ho deciso di denunciare. Io non ho mai fatto petizioni, non so nemmeno come si fa, ma l’ho lanciata ed è partita. Farò quello che posso per denunciare questi crimini contro questi ragazzi che sono come corpi di dolore, sono inermi. Non vanno a fare la guerra: siamo noi che gli facciamo la guerra, siamo noi che bombardiamo le loro case. Siamo usciti dalla Seconda guerra mondiale dicendo “mai più” e adesso ci ritroviamo col nazismo alle porte di casa”

Il Border violence monitoring network, che monitora la situazione ai confini, ha recensito oltre 200 atti di violenza della polizia croata. L’Organizzazione internazionale delle migrazioni, che pure vede i migranti tornare con ferite, sostiene di non poter avere le prove che si tratti di violenza istituzionale. Da questo silenzio è nata la scelta di organizzare una petizione, che serve sopratutto a far conoscere quello che sta succedendo in quel pezzo d’Europa, metà dentro e metà fuori dall’Unione, a cui Bruxelles promette soldi ma che non aiuta. E della brutalità a cui l’Unione europea non presta attenzione, si parla poco.

“Ci sono state molte denunce, ci sono state delle associazioni e degli attivisti che hanno messo a rischio anche se stessi per continuare a denunciare le torture e gli abusi che accadono, e nonostante questo non succede mai nulla. Mi viene da pensare a una risposta semplice, anche se so che le cose sono più complicate di così, ma è l’Europa che sta pagando la Croazia, ha dato 36 milioni di euro per proteggere i “sacri” confini dell’Europa e la Croazia sta svolgendo il suo compito. Ultimamente l’Europa ha dato altri sei milioni di euro alla Croazia per dotarsi di strumenti molto sofisticati come rilevatori termici, droni, apparecchi per vedere di notte nella foresta. La Croazia è una terra povera, hanno bisogno di fare la guerra a queste persone che potrebbero essere accolte o potrebbe essere quantomeno accolta la loro domanda secondo la legge europea. Ma perché farle morire, farle soffrite o comunque creare questo grande immondezzaio umano che è diventata la Bosnia, e la discarica umana di Bihać ne è la testimonianza?

La storia di Lorena e Andrea

La petizione che ha lanciato Lorena Fornasir è la parte visibile di questo lavoro lungo, continuo, che lei e suo marito Gian Andrea Franchi fanno ormai da anni, viaggiando tra Trieste e la Bosnia, portando aiuto materiale e psicologico. Un percorso, il loro, che viene da lontano.

“La mia storia personale è stata sempre una storia di cura, come psicoterapeuta, poi il lavoro in ospedale, poi responsabile del servizio adozioni internazionali di Pordenone. Sono sempre stata a contatto con il dolore, ho imparato molto dal dolore, dalla sofferenza che è stata la mia scuola di vita. Come imparo dai migranti, nonostante le loro condizioni terribili. Penso a questo ragazzo torturato alla gamba: ho trovato in lui una forza, un coraggio, perché questa gente ti comunica una vita, una potenza e anche una profondità dell’essere che è inimmaginabile nelle nostre vite che direi banali, annoiate. Con loro invece si è vicini a quella soglia tra la vita e la morte, dove nasce proprio la vita e dove può morire. Pensa che questo ragazzo, con le ferite da tortura, vuole tornare in game e io ho paura che diventi un altro Alì, che la gamba con quella ferita gli andrà in cancrena ma lo capisco, penso che lui sa che o vive o muore. Mi dicono mom (mi chiamano “mom”, mamma) mi dicono “mom io non ho scelta, non ho scelta” è una cosa tremenda ma è anche la sorgente della vita, loro vogliono vivere e noi con i nostri confini li stiamo uccidendo”.

Game, gameover

I migranti chiamano “game” la strada, il tentativo di attraversare questa parte d’Europa. E a un gioco, a un video gioco somiglia davvero: le insidie dei ponti e dei fiumi, della pioggia e del sole, l’acqua da risparmiare, l’acqua da trovare, i cani e i lupi da cui fuggire, le guardie da cui nascondersi. Visto dall’alto, ci si chiede quale dio abbia il joystick con cui muovere i suoi malmessi eroi.

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