Congo: i ribelli M23 si avvicinano a Goma, cinta d’assedio
Scritto da Elena Pasquini in data Febbraio 16, 2024
di Elena Pasquini
Dalle colline, i ribelli guardano Sake, la città crocevia, ultimo accesso a Goma. Prenderla significa chiudere la capitale del Nord Kivu in un sacco. Questo è l’Est della Repubblica Democratica del Congo che sta vivendo la sua ennesima, feroce, escalation.
Nel centro dell’Africa, nella regione dei Grandi Laghi, terra di confine dove instabile non è solo la geologia vulcanica, sul fronte di guerra ci sono tutti, tranne gli occhi del mondo.
Ci sono loro, i ribelli, l’M23, il Movimento del 23 Marzo. C’è l’esercito congolese e una costellazione di gruppi armati che gli combattono a fianco, riuniti sotto il nome di Wazalendo, i “partioti” che vogliono cacciare l’invasore. Ci sono le truppe della Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale, i caschi blu delle Nazioni Unite, le forze armate del Burundi e le compagnie private, i “mercenari”.
Dietro, l’ombra del Rwanda.
Sopra, ad alimentare il fuoco, il vento dell’odio etnico. Violento, a nascondere cosa c’è sotto: il segreto che custodisce la terra. Oro, coltan, cobalto, gas, minerali rari e preziosi. C’è l’Occidente e la Cina, anche se non si vede. Ci siamo noi.
In mezzo, milioni di profughi, donne stuprate, bambini costretti a combattere, in questa pozza di sangue che da trent’anni attende giustizia. Milioni di morti, dal 1996, in un susseguirsi di fiammate e fragili tregue.
Congo: M23 vicini a Goma
Goma ha le case nere di lava, è abituata a sopravvive alle eruzioni del Nyragongo, la foresta la cinge, ma non la protegge, rifugio per uomini in armi, per centinaia di milizie, la cui geografia è fluida come l’acqua del lago su cui si affaccia.
La guerra è sempre più vicina, bussa alle sue porte.
Ad Est non si fugge, c’è il confine con il Rwanda.
A Nord, l’unica strada che conduce in Uganda è un vicolo cieco, bloccata dagli M23.
Ad Ovest, verso Masisi, si combatte per il controllo dell’ultima via.
Sono a 25 chilometri da Goma, i ribelli. Vogliono Sake, che nel momento in cui scriviamo è ancora sotto l’autorità dall’esercito congolese. Qui, in molti avevano cercato rifugio dalla violenza delle regioni più interne, ma ora anche da Sake si deve fuggire. Alcuni giorni fa una bomba ha colpito un campo profughi uccidendo almeno tre persone. A causa dell’intensificarsi dei combattimenti dall’inizio dell’anno sono sfollati circa un milione di congolesi, per lo più donne e bambini, in un Paese dove il numero di chi è stato costretto a lasciare le proprie case ha raggiungo la cifra spaventosa di circa 6,9 milioni.
Goma è circondata dalla guerra e da chi fugge. Nell’ultima settimana, secondo l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazione Unite, si sono mossi in 135.000 dalla piccola città crocevia verso la capitale.
I bombardamenti indiscriminati rendono difficilissimo portare gli aiuti a chi non ha più niente, le zone più remote sono inaccessibili e le strade sicure quasi nessuna.
«Le condizioni – l’accesso all’acqua, alle latrine ma anche al cibo, alla salute e alla sicurezza – sono estremamente precarie. Nelle strutture supportate da Medici Senza Frontiere trattiamo in media sessanta casi di violenza sessuale al giorno che provengono dai campi profughi, quindi sono i sopravvissuti a questa violenza. E probabilmente si tratta solo di una piccola parte delle vittime. A ciò si aggiunge l’ansia… poiché Goma è circondata» racconta Stephen Goetghebuer, capo delle missioni di Medici Senza Frontiere, alla francese RFI, Radio France Internationale.
Chi sono gli M23, il gruppo armato ribelle
Gli M23 sono tornati a combattere in questa parte del Nord Kivu nel 2022 dopo una decina d’anni di silenzio: cinque battaglioni pesantemente armati, schierati nei territori di Masisi, Rutshuru e Nyiragongo, secondo il rapporto del Gruppo di esperti sul Congo delle Nazioni Unite.
Qui, però, la pace non c’è mai stata. Come non c’è mai stata nelle altre terre dell’Est, più a Nord e più a Sud, dove altri sono i nomi ed altre sigle a non dare tregua alla morte.
Bisogna tornare indietro, al genocidio dei Tutsi in Rwanda, per cercare le radici della violenza di oggi. O almeno, quelle più superficiali, quelle che spuntano dalla terra. Poi, bisognerà andare più a fondo.
Gli M23 sono un gruppo armato a maggioranza tutsi, nato nel 2012, costola di un’altra formazione, il CNDP, il Congresso nazionale per la difesa del popolo, per anni in guerra contro il governo di Kinshasa.
Gli M23 accusarono il Congo di non aver rispettato l’accordo di pace firmato il 23 marzo del 2009 con il CNDP, che prevedeva tra l’altro la reintegrazione dei combattenti nell’esercito.
Insoddisfatti per le condizioni di vita e la paga, riuscirono a prendere il controllo di Goma in quello stesso anno per lasciarla poco dopo grazie ad un nuovo compromesso.
Sono rimasti a lungo silenti e oggi tornano a minacciare la capitale, rivendicando per sé il ruolo di protettori dei tutsi congolesi e delle minoranze che parlano kinyarwanda contro un governo a cui imputano la complicità con le FDLR, le Forze democratiche per la liberazione del Rwanda, un’altra milizie che opera in Congo formata dagli Hutu fuggiti dopo il genocidio.
Tutsi e hutu, guerra etnica, odio antico, lunga coda di quell’immane mattanza che costò circa un milione di morti nel 1994. Ma queste sono solo le radici che spuntano dalla terra, quelle superficiali. Odio etnico, si potrebbe liquidarla così, questa guerra.
Congo – Rwanda: presidente contro presidente
«Poiché vuole comportarsi come Hitler con i suoi obiettivi espansionistici, prometto che finirà come Hitler». Aveva tuonato così, a dicembre, Felix Tishsekedi, il presidente del Congo rieletto a fine anno per un secondo mandato, contro Paul Kagame, presidente del Rwanda, uomo accusato di armare gli M23. Una «chiara e forte minaccia», aveva risposto il Rwanda, che ha sempre negato: «l’M23 è un problema congolese», «il Rwanda non sostiene l’M23 e non ha truppe nella RDC». Eppure, sempre secondo il rapporto dell’ONU, ci sarebbero prove, “inclusi filmati aerei e fotografie, di interventi diretti e rinforzi di truppe delle Forze di difesa del Rwanda – l’esercito nazionale ndr – nel territorio” del Congo. Testimoni avrebbero confermato che diversi membri dell’esercito rwandese sarebbero stati feriti e uccisi. Kigali, a sua volta, punta il dito sul vicino: Kinshasa sostiene le FDLR, eredi degli hutu genocidari. Lo stesso rapporto dell’ONU documenta una più intensa “mobilitazione e uso da parte del governo (congolese) di gruppi armati”: a combattere una guerra per procura sarebbero i wazalendo, ma anche le FDLR.
Accuse reciproche che potrebbero condurre ad aggravare un quadro già drammatico: «Il rischio di un confronto diretto tra RDC e Rwanda, che [si imputano] l’un l’altro il supporto a gruppi armati … è reale», aveva detto Huang Xia, inviato speciale del Segretario generale dell’ONU nei Grandi Laghi, al Consiglio di Sicurezza ad ottobre. «Il rafforzamento militare [di entrambi]… l’assenza di un dialogo diretto di altro livello e il persistere di discorsi d’odio sono tutti segnali di allarme che non possiamo ignorare». Odio per alimentare il fuoco, armi per alzare il livello dello scontro.
Di quante e quali armi dispongono i ribelli dell’M23
La regione è sempre più militarizzata, gruppi armati ed eserciti dispongono di un arsenale sempre più sofisticato. Droni armati sarebbero in possesso del Congo e, secondo un documento ONU riservato, visto da Agence France Press, “un missile terra-aria presumibilmente delle Forze di difesa rwandesi” sarebbe stato lanciato da un veicolo blindato in un’area controllata dall’M23.
L’incremento delle dotazioni militari potrebbe essere, secondo Pierre Boisselet, direttore delle ricerche sulla violenza all’istituto Ebuteli, uno dei fattori ad aver contribuito a questa nuova escalation, insieme a rinnovate pressioni per riaprire il tavolo delle trattative.
Lunedì si è tenuta una riunione d’emergenza del Consiglio di sicurezza dell’ONU e Huang Xia la settimana scorsa è volato in Angola per incontrare il presidente, João Lourenço, mediatore nel “processo di pace di Luanda”, impegnato a dipanare un viluppo che tiene insieme l’Africa e il mondo. Perché la guerra che si combatte nell’ex colonia belga ha il potenziale di far deflagrare una crisi regionale ed è sul quel terreno che si sta giocando la competizione per la leadership di una fetta grande e ricca del continente.
I paesi dell’Est e il dialogo mancato
Il blocco dei Paesi dell’Est, con in testa il Kenya, protagonista dello stagnante “processo di Nairobi” che ha provato a costruire un dialogo tra gruppi armati congolesi, è in rotta con Kinshasa.
Il Congo non ha rinnovato il mandato alla forza di interposizione della Comunità dell’Africa orientale impegnata sul suo territorio per circa un anno ed è arrivato addirittura a richiamare i suoi ambasciatori a Nairobi e in Tanzania per aver dato “asilo” a Corneille Nangaa, ex capo della Commissione elettorale congolese tra il 2015 e il 2019.
Nella capitale kenyota, Nangaa ha fondato l’“Alliance du Fleuve Congo”, coalizione politico-militare di cui fa parte anche l’M23, per “rovesciare le autorità nazionali”. «Mentre sotto il suo ombrello l’alleanza include nominalmente un certo numero di gruppi, l’AFC sembra avere come obiettivo principale ampliare il supporto all’M23» scrive l’International Crisis Group.
Kenya che si vuole vicino al Rwanda, i cui rapporti sono invece sempre più tesi con il piccolo Burundi e che è gelidamente distante dal Sudafrica, quel Sudafrica che a dicembre ha dislocato i suoi pecekeeper insieme agli altri Paesi della Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale e che ieri ha contato le sue prime vittime: due soldati uccisi e tre feriti.
Conflitto africano, si potrebbe liquidarla anche così, questa guerra.
Se non fosse che le sue radici vanno ancora più giù, dentro la terra, dove si scava e si muore perché il mondo non fermi il suo moto, di auto, devices e sviluppo. Perché questa è anche la guerra dei minerali. «La relazione tra risorse e conflitto è chiara, anche se non facilmente intellegibile», spiega uno studio dell’International Peace Information Service (Ipis) pubblicato nel 2022. Conflitto armato per accaparrarsi le risorse, ma anche risorse minerarie per finanziare la guerra, controllate e gestite dai gruppi armati e dall’esercito congolese.
Un mondo opaco, dove non c’è confine tra estrazione legale, quella delle concessioni in mano alla Cina e all’Occidente, e il flusso illecito, la schiavitù del lavoro.
Conflitto in Congo: il commercio dei minerali
Guerra con le risorse e per le risorse, dove il vento che porta l’odio etnico è un’arma come un’altra. «L’etnia si è socialmente costruita durante il periodo coloniale. Gli imprenditori locali possono manipolare le identità etniche nella competizione per l’accesso alle risorse», si legge nello studio di Ipis. «Le milizie armate sono spesso strumentalizzate dalle élite locali, utilizzando il discorso sull’etnia e sull’autoctonia, per raggiungere obiettivi politici ed economici. D’altro canto, i gruppi armati sfruttano regolarmente anche i sentimenti di malcontento delle comunità per legittimare le loro attività» aggiunge.
Gruppi armati, ma anche l’esercito congolese, tra gli attori di questo sfruttamento che conduce in una sola direzione: fuori dal Congo, attraverso le città di frontiera, verso il mercato internazionale.
«Il commercio nell’Est del Congo è tradizionalmente legato all’Est Africa, così quello dei suoi minerali» secondo Ipis. Dal Congo attraverso Uganda, Rwanda, Burundi, Tanzania e Kenya.
Ovunque, contrabbando, fino a raggiungere, spesso attraverso voli commerciali, hub come quello degli Emirati, chiave nel mercato dell’oro, minerale per il quale «il commercio illecito non è un’economia ombra, ma un sistema mainstream e ben organizzato».
Il Rwanda, aggiunge lo studio, dal 2017 è una destinazione sempre più importante, per esempio, per l’oro di contrabbando: «Solo gli Emirati hanno importato 472 milioni di dollari in oro dal Rwanda, a fronte di una capacità produttiva che è appena dai 20 ai 30 chilogrammi».
Un mercato dove non c’è un solo colpevole, ma un’intera catena che passa per i poteri locali, i gruppi armati, i commercianti.
Ciò che è evidente è la dimensione regionale, il ruolo di quei piccoli Paesi al confine, porte o barriere verso il commercio globale. Dimensione capace, forse, di spiegare perché sono tutti lì, su quel fronte, a lasciare che l’odio etnico cantato dal vento faccia divampare l’incendio.
Congo: tra violenze e silenzi
«Ai nostri connazionali di SAKE: mantenete la calma e portare avanti le vostre attività. L’M23 sta arrivando per liberarvi e proteggervi dall’artiglieria pesante, dai droni e dai carri armati da combattimento che uccidono continuamente donne, bambini e anziani in pieno giorno» ha dichiarato martedì Lawrence Kanyuka, portavoce del gruppo che Human Rights Watch accusa di aver commesso massacri e crimini di guerra, di aver violentato donne davanti ai loro figli e mariti, di aver compiuto stupri di gruppo, bombardamenti su edifici civili.
Loro, i ribelli, negano e dichiarano di volerlo liberare, questo Paese. Non sono i soli, però, a commettere crimini stando all’organizzazione per i diritti umani e ai molti rapporti dell’ONU: lo stesso avrebbero fatto altre milizie, altri stupri e altri morti, soltanto con altre divise.
«Erano armati e alcuni avevano dei bastoni» ha raccontato a HRW una donna vittima di un gruppo armato vicino alla città di Kitchanga. «Hanno chiesto soldi a mio marito e lui ha mentito e ha detto che non ne aveva. Quando lo hanno perquisito e hanno trovato 100.000 franchi congolesi (45 dollari americani), lo hanno picchiato. Poi tre di loro mi hanno violentata. Hanno sciolto il lenzuolo che teneva il mio bambino sulla schiena e lo hanno messo accanto agli altri miei figli. Hanno aperto i miei vestiti e uno dopo l’altro mi hanno stuprata davanti ai miei figli e a mio marito».
Suona l’inno nazionale della RDC, semifinale della Coppa d’Africa. I giocatori posano una mano sulla bocca, una alla tempia, come a mimare il gesto di una pistola.
Per una volta il Congo dove si muore sotto le bombe, sotto i colpi delle armi leggere, per gli ordigni rimasti inesplosi, di strupi, di fame e di colera ha per sé tutti gli occhi del mondo.
A Kinshasa, però, sono stanchi. “Andate via, bande d’ipocriti” gridano gli striscioni davanti alle ambasciate.
La loro voce la raccoglie,RFI, radio francese, la voce di un ragazzo, si chiama Timothée: «Per noi, popolo congolese, è un giorno di lutto…. Abbiamo capito che la guerra non è contro il Rwanda, ma contro questi occidentali che ci combattono per rubarci le nostre ricchezze. Questo lo abbiamo capito».
Elena L. Pasquini
Giornalista, esperta di Africa, ma specializzata nelle politiche di sviluppo internazionali e in quelle agricole globali. Ha pubblicato La meccanica della pace, il racconto di chi è riuscito a negoziare un accordo, a far cessare la violenza o a contribuire alla riconciliazione di due comunità in lotta.
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