Donne sul fronte

Scritto da in data Dicembre 4, 2020

C’è un mondo fuori che chiede di essere raccontato. E ci sono persone che rispondono alla chiamata di quelle donne e di quegli uomini che cercano un veicolo attraverso cui far viaggiare la propria voce tra le onde degli oceani e i deserti, e le montagne che inglobano villaggi remoti. Quante sono le donne che rispondono alle voci del pianeta? Valentina Barile su Radio Bullets con Martina Di Pirro, Francesca Mannocchi e Barbara Schiavulli.

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Le donne hanno paura?

Dal 19 novembre, con sette uscite in edicola e in libreria, Donne sul fronte, il progetto di graphic novel che interessa e intreccia i differenti volti del giornalismo femminile italiano ai Paesi e agli attivisti che difendono il mondo dai predoni. Un progetto di Round Robin Editrice e Il Fatto Quotidiano.

Oriana Fallaci, Ilaria Alpi, Giuliana Sgrena, Francesca Mannocchi e la Siria, Francesca Nava e Zehra Doğan, Martina Di Pirro e il Rwanda, Barbara Schiavulli e il suo Afghanistan. Perché le donne decidono di partire per raccontare la guerra? Barbara Schiavulli: «Ho deciso che avrei fatto la giornalista di guerra più o meno quando avevo tredici, quattordici anni, dovevo essere, insomma, già alle medie. E da quel momento in poi, tutto quello che ho fatto è stato raggiungere quell’obiettivo, quindi studiare per quello, partire per quello e imparare questo mestiere per poter fare bene un lavoro che sicuramente oggi non è facile, non è facile farlo in Italia perché è un Paese poco interessato agli esteri, poco interessato a quello che succede nel mondo, con i giornali che vanno sempre peggio perché – anche perché – sono sempre meno interessanti e poi perché non c’è una vera e propria politica estera in Italia. Da venticinque anni ho girato i Paesi, le zone di conflitto, quello che io volevo era raccontare le persone, entrare nelle storie per raccontare i grandi eventi, partire dal piccolo, dal dolore, dalla forza, dalla resilienza delle persone, ma anche dalla sofferenza, dalla sconfitta, dalle delusioni per poter raccontare quella che era invece la grande storia del mondo. Ci sono tanti modi per far questo mestiere e per me era importante farlo stando sul posto, conoscendo le persone, entrando nelle case perché per me questo mestiere è sempre stato un privilegio. Il fatto che noi possiamo essere registratori, testimoni, in qualche modo fa sì che si cerchi di trovare giustizia, riconoscimento per tutte quelle persone che non hanno voce. Detto questo, l’Afghanistan – ma non solo – è uno dei Paesi che più mi è entrato nel cuore. Ho trascorso gli ultimi diciannove anni, ovvero dall’11 settembre, andando avanti e indietro, e ho conosciuto un popolo che non è quello che spesso si vede nei telegiornali o di cui si sente parlare. È un Paese ospitale, è un Paese gentile anche se ci sono quarant’anni di guerra trascorsi. È un Paese forte, orgoglioso; certo, è un Paese violento, la gente muore, è il Paese più minato. Le donne hanno vissuto in condizioni medioevali, ma sono anche le prime che si sono rimboccati i burqa e le maniche per fare la differenza. Sì, perché le donne – e questo l’ho visto in ogni Paese in cui sono stata, a partire da quelli più industrializzati a quelli con più problemi –, le donne possono essere fragili ma non sono mai deboli, e dentro di loro c’è la speranza che qualcosa in questi posti cambi. L’Afghanistan è la mia seconda casa, il posto dove tranquillamente esco non appena apro la porta di casa, qui, a Roma. Questo mestiere, d’altra parte, è questo: riuscire a infilarsi nei mondi e attraversarli, raccontarli, e far capire alle persone che sono qui che il mondo non è così grande come sembra, anche se, a volte, con le tecnologie tutto sembra ristretto, ma in realtà quando si parla di guerra, quando si parla di gente che fugge, quando si parla di devastazione sembra tutto molto lontano. E invece io vorrei che la differenza venisse fatta grazie alle storie che raccontiamo, grazie alle persone che credono di non essere importanti o di non contare niente, invece sono tutto, sono il futuro. Parliamo di Paesi sempre più giovani dove loro vivono. Ci sono persone in Afghanistan che non hanno mai vissuto un giorno di pace perché basta andare a scuola per saltare su una mina, basta andare al mercato per assistere a un’esplosione. Qualcuno conosce qualcuno, o ha qualcuno in famiglia, che è stato ucciso o che è stato ferito. E questo, secondo me, rende il nostro lavoro importante perché fa sapere a tutti gli altri, quelli che qui danno le cose per scontato, che non lo sono mai».

Francesca Mannocchi, per noi, su Radio Bullets: «Cosa mi spinge oltre è una domanda che mi faccio spesso, direi ogni volta che preparo la valigia e ogni volta che la disfo, perché oltre alla portata delle storie che mi riporto a casa c’è anche la portata della paura di un fallimento… e mi spiego: il fallimento è il senso di frustrazione che provo ogni volta che cerco di raccontare una storia e che mi rendo conto che il pubblico… intendo i lettori, i telespettatori sono ormai saturi, ovvero stanchi, ovvero anestetizzati dal racconto, allora, mi chiedo cosa sbagliamo, non tanto… non mi chiedo tanto come vincere una tristezza naturale rispetto a questa constatazione, quanto cosa fare, come fare, come avvicinare le esperienze così distanti del lettore e del telespettatore europei, occidentali, impauriti in generale rispetto alle vite che cerchiamo di raccontare. E questo credo che sia il bordo, l’orlo dove noi cronisti dobbiamo andare a sbattere, cioè il punto in cui la lingua non dice, sembra non dire sufficientemente bene, non descrivere sufficientemente bene le vite che abbiamo il privilegio, la fortuna di incontrare e di cui abbiamo la fortuna di essere testimoni».

Donne nel mondo

Dall’Afghanistan al Libano, e poi alla Siria. Dal Rwanda ai microcosmi che lottano per cambiare la propria storia e la grande storia. Sette fumetti che raccontano i Paesi e le donne e gli uomini che provano a manifestare il proprio dissenso; artisti, giornalisti, politici. Attraverso le tavole disegnate da Michela Di Cecio, Mattia Ammirati, Irene Carbone, Diala Brisly, Creative Nomads Studio, Francesca Ferrara, Emilio Lecce.

Il racconto di Martina Di Pirro: «Sono stata in Rwanda nel dicembre 2018, e sono entrata nel Paese e l’ho visitato pensando erroneamente di trovarmi in un Paese ancora lacerato da quella tragedia del 1994, quando si era verificato un genocidio che in solo cento giorni ha ucciso oltre un milione di persone, la maggioranza – e quindi oltre ottocentomila – appartenente alla popolazione dei Tutsi. Quando un Paese vive una tragedia così grande, spesso, si ritrova a dover raccogliere i cocci di queste tragedie per anni, anche per secoli. E non è il caso del Rwanda, il Rwanda si è ripreso immediatamente. Una volta condannati una piccola parte dei responsabili ha ripreso immediatamente la propria economia, si è distaccato da alcune logiche colonialiste che, invece, sono purtroppo molto presenti nei Paesi limitrofi, ma sappiamo che l’Africa non va trattato come un continente unico, ma come un insieme di continenti nel continente. Adesso è un Paese in ripresa ma che ha ancora un conto aperto con l’Occidente, ha ancora un conto aperto con la Francia che ha finanziato le milizie genocidarie e che, però, protegge ancora i colpevoli di quel genocidio, e ha un conto aperto con le Nazioni Unite che si rifiutarono di definire quell’evento “genocidio”, e ha un conto aperto con tutti quelli che ancora si rifiutano di raccontare la verità di quanto è accaduto in quei giorni».

Come si racconta la guerra?

I romanzi a fumetti per parlare un linguaggio semplice, che vada dritto al cuore. Un linguaggio fatto di colori, di poche parole, di occhi. Di vite che attraversano le costellazioni per sempre.

Martina Di Pirro: «L’idea di questo progetto è nata perché la vicenda del genocidio avvenuto in Rwanda, nel 1994, sembra quasi una vicenda chiusa, definitiva perché sono passati tanti anni, perché è stato istituito un tribunale internazionale per il Rwanda dalle Nazioni Unite, perché lo stesso Rwanda, all’interno, aveva fatto dei tribunali fatti appunto dal popolo rwandese per fare giustizia e fare luce sui responsabili di quel genocidio, eppure tutto questo non è bastato a portare a galla tutti i nomi dei responsabili. E l’idea è nata anche per mantenere accesa la memoria su un genocidio che ha visto le responsabilità anche dell’Occidente. E il formato, invece, il formato a fumetti, a graphic novel, è stata un’intuizione che ho avuto – e che, devo dire, il nostro editore Luigi Politano ha sposato praticamente subito – perché mi piaceva l’idea di semplificare il linguaggio. L’idea di questo progetto era che finisse nelle scuole; certo, adesso, con la didattica a distanza è più difficile, però speriamo che questa idea possa essere portata avanti in un secondo momento. A quel punto, mi è stata presentata Francesca, che rispetto a tante altre candidate per disegnare questo fumetto era quella che dopo la prima chiamata che ci siamo fatte ha subito provato empatia sia verso la tematica sia verso il progetto e, soprattutto, c’è stata molta empatia tra di noi».

Francesca Mannocchi conclude su Radio Bullets: «Le vite dei rifugiati siriani che ho incontrato in questi anni sono state vite che mi porto nel cuore come un bagaglio di emotività, ma come un grande insegnamento. Devo dire che le storie che con maggiore solidità mi porto dentro sono quelle che ho incontrato nelle tendopoli informali che, appunto, non si possono descrivere campi profughi perché il Libano non ha mai autorizzato la costruzione di veri e propri campi profughi sul suo territorio con l’idea di disincentivare – diciamo – l’arrivo di altri rifugiati siriani, e nello specifico ricordo di aver incontrato un medico, un veterinario che ora purtroppo non c’è più, è morto in questi anni. Ci siamo incontrati nel 2015. Lui mi raccontò che prima di lasciare casa sua, prima di scappare via da casa sua, sotto i bombardamenti, l’unica cosa che ebbe il tempo e la lucidità di prendere, e che per lui significava non tanto un ricordo del passato quanto la possibilità di trasferire il passato nel futuro, fosse l’attestato di laurea; staccò dal muro quest’attestato di laurea e lo portò con sé in Libano. Per ricordarsi chi era, ma anche perché quel pezzo di carta sanciva cosa lui avrebbe potuto essere in una comunità ospitante. Ecco, questo per me è un grande insegnamento perché è una cosa che alle persone che arrivano ai nostri confini noi non chiediamo mai. Cosa vorreste essere qui, non solo da cosa scappate».

I consigli letterari della settimana

Feltrinelli Point Altamura di Savino Ciciolla Via Vittorio Veneto, 69 70022 Altamura

Titoli:

Un uomo, Oriana Fallaci – Bur.

Ilaria Alpi, Lucia Guaraní – Mattia Ammirati, Round Robin editrice.

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