La storia di Hassan, detenuto a Sednaya
Scritto da Barbara Schiavulli in data Dicembre 26, 2024
DAMASCO – “Corri il rischio”, si legge in inglese sulla felpa di Hassan che non sa che cosa significa. Eppure, potrebbe essere il titolo della sua vita.
Hassan ha 25 anni, gli occhi tondi, un viso magro come il resto del fisico, si tira giù le maniche mentre parla, si guarda le mani e ogni tanto le sue guance arrossiscono sotto il peso di quello che racconta.
Siamo in una macchina sgangherata e parcheggiata nel quartiere di Jeremana, nella capitale siriana sotto un sole che scalda una fredda giornata invernale.
Il padre ci tiene d’occhio da fuori senza intervenire e senza avere alcuna intenzione di unirsi a noi, come se la storia che Hassan ci sta per raccontare è qualcosa che non vuole sentire.
Nessuno vorrebbe. Forse neanche lui vorrebbe raccontarla, ma non si tira indietro. Per tutte le due ore successive, Hassan ci rovescerà addosso il suo mondo distorto, fatto di orrore e dolore.
Una pena che ha bisogno di condividere perché forse parlarne è anche un modo di liberarsi di quelle catene che ancora lo tengono nella morsa di una vita che non ha scelto e non ha voluto.
La storia di tanti
La cosa peggiore è che non è una storia originale. Quello che è successo al giovane Hassan, è successo probabilmente a migliaia di persone, se non ancora di più.
La storia di Hassan è il sistema dentro il quale per 50 anni hanno vissuto i giovani, generazione dopo generazione, diventando ogni volta più fragili, più esposti, più arrabbiati.
Hassan era un ragazzo come tanti, un adolescente senza una madre verso cui nutre ancora rabbia, lei lascia il padre, porta con sé gli altri tre fratelli, lui decide di stare col padre. Difficile ma ancora niente di nuovo.
A 18 anni i ragazzi siriani avevano l’obbligo del militare, anche qui niente di nuovo se non fosse che la Siria è un paese in guerra da 13 anni. L’addestramento doveva durare 45 giorni, ma al terzo Hassan scappa perché è troppo duro per lui, li bullizzano, li lavano con l’acqua ghiacciata, preparano dei duri, ma Hassan non sente di esserlo.
Passa per Hama, una città del nord e poi torna a Damasco nel suo quartiere e per sei mesi viene nascosto dalla famiglia. Un giorno però, ad un posto di blocco lo fermano, lo identificano e lo portano dalla polizia militare. Viene imprigionato per sei mesi: era un disertore, meritava di essere torturato, così imparava a non fare il militare.
Si chiama “addulab”. la tecnica che usano per metterti in riga, ti appendono ad una sbarra legato con delle catene, vieni sospeso, rivoltato e ti picchiano con un tubo di gomma. Quindici minuti al giorno fino a che non svieni. Tutti giorni.
Ogni minuto è interminabile, il dolore passa per la pelle, i muscoli, le ossa, fino a raggiungerti il cervello.
“Oppure mi portavano in una stanza, ti fanno mettere in ginocchio su dei sassi, se tocchi il pavimento, vieni picchiato per un’ora”. La voce di Hassan è intensa, emozionata ma non troppo, come se volesse controllare il tono come tremolio delle labbra e in parte ce la fa.
“Ci picchiavano anche quando uno dei nostri familiari chiedeva di vederci, ci dicevano: “Come fanno a sapere che sei qui?”. Esatto, Hassan, come faceva a sapere tuo padre dove fossi?
La tecnica era quella delle cartine argentate nei pacchetti delle sigarette, scrivevano sulla carta i telefoni dei loro cari, poi facevano delle palline e quando un detenuto riceva la visita, passava la cartina, in modo che i genitori degli altri potessero essere avvisati.
Spedito al fronte
Passati sei mesi è stato di nuovo mandato a fare il servizio militare. Lo hanno messo in prima linea a Idlib, uno dei fronti più caldi della guerra civile che ha sconvolto la Siria, e Hassan non voleva combattere, non voleva morire, non voleva uccidere.
È andato dal suo ufficiale e gli ha chiesto di trasferirlo, l’ufficiale ha risposto che voleva 600mila pounds siriani (45 euro) a settimana, più la copertura di qualche altra spesuccia all’occorrenza per tenerlo lontano da fronte.
45 euro a settimana in un paese dove la maggior parte delle persone non le prende neanche in un mese, era una bella cifra. Il padre ha pagato per un anno e mezzo, dando fondo a tutti i suoi risparmi pur di tenere vivo suo figlio.
Poi, si è ammalato e non ha avuto più soldi. Allora, Hassan con il suo comandante ha fatto un accordo, se lo avesse lasciato libero di lavorare qualche giorno al mese, gli avrebbe dato tutto il suo stipendio.
Faceva le consegne con la bicicletta, ma non raccoglieva mai abbastanza. E il comandante si segnava tutti i soldi che non riusciva a dare, fino a che non fu chiaro che non ce la faceva a pagare.
Bombardamenti, scontri a fuoco
E allora lo ha subito rispedito in prima linea. Bombardamenti, scontri a fuoco, il rischio era altissimo. Hassan non sa cosa fare, torna dal comandante gli chiede 24 ore per trovare altri soldi e quando lui acconsente, il ragazzo fugge.
Torna a casa, si rimette a fare consegne, ma su di lui pende un mandato di arresto. Per otto mesi riesce a pagarsi un affitto e ad aiutare il padre con le cure. Poi un giorno un amico dell’esercito lo chiama, gli chiede di portargli delle cose, e viene arrestato.
L’amico traditore gli ha teso una trappola o forse è stato costretto anche lui per salvarsi la vita. Viene portato in un sobborgo, interrogato e picchiato per due giorni, poi è stato portato nella famigerata prigione di Sednaya.
Vita al mattatoio
È l’aprile 2022 e viene accusato di aver disertato, di aver venduto l’arma che lui giura di non aver portato via e dal primo giorno viene picchiato.
Nella prigione detta “il mattatoio umano”, lo buttano nell’aerea bianca dove era costretto a giorni di torture e altri di isolamento. Ma rispetto a quelli che stavano nella parte rossa, almeno una volta al mese per un’ora poteva uscire in un cortile di cemento, una volta ogni dieci giorni venivano lavati tutti nudi sempre nel cortile con una pompa per cinque minuti.
Chi stava nella rossa sopravviveva sottoterra, senza luce, bagno, senza lavarsi mai.
La tortura peggiore era sempre la sbarra, lo appendevano per mezz’ora, lo picchiavano e poi lo ributtavano nella cella dove stavano in 80 in uno spazio di 7 metri per te. Con un buco per i bisogni nel quale buttavano la poca acqua che veniva loro dato da bere perché l’odore era insopportabile.

Una delle celle della prigione di Sednaya
“Quando le guardie non avevano voglia di appenderci alla sbarra, ci sbattevano contro i muri di metallo che erano elettrificati”. Che mangiavate? “Ci portavano una vaschetta di grano nello stesso recipiente dove lavavamo i vestiti, poi lo rovesciavano a terra e ci dicevano di mangiarlo, se non lo facevamo, ci prendevano e picchiavano di nuovo”.
La colazione era invece, quella dei campioni: buttavano della marmellata per terra e del pane vecchio. Riguardo al bere, poteva passare anche una settimana prima che portassero una bottiglia.
Potevate parlare tra di voi? “Assolutamente no, con qualcuno bisbigliavamo ma c’era sempre paura che qualcuno facesse la spia perché le guardie davano qualche beneficio a chi dava loro informazioni.
Una volta un imam detenuto aveva scritto delle frasi del Corano su una cartina delle sigarette e io continuavo a ripeterle per distrarmi. Mi è costato tre giorni alla sbarra. Non si poteva neanche pregare, non potevamo fare nulla”.

una latrina di Sednaya per 85 persone
L’amnistia di Assad
Dopo 9 mesi di inferno, il governo offre un’amnistia ai detenuti e Hassan esce. Non gli sembra vero. È magro, provato, ma libero. Durerà tre mesi la sua libertà, verrà arrestato di nuovo perché secondo le guardie non era nell’elenco.
Hassan non ci può credere è l’incubo che si ripete, è di nuovo a Sednaya, con l’unica differenza è che ora credono che lui debba essere disciplinato molto più e lo picchiano così tanto che gli spezzano una gamba.
Ma gli dicono che deve camminare, che altrimenti lo avrebbero picchiato ancora, e lui saltella sulla gamba buona.
Un medico lo visita, chiede che venga portato in ospedale, ma le guardie si offendono, smettono di picchiarlo sulla gamba e lo picchiano in testa.
Ogni volta che sente che le botte stanno per arrivare, chiude gli occhi e si spegne. L’unica persona a cui non smette di pensare per tutto il tempo, è suo padre ed è forse anche l’unica cosa che lo tiene in vita.
Le donne di Sednaya
“Io ero nella sezione maschile, ma sai ce n’era una anche femminile e i racconti che arrivano da lì erano anche peggio. Uno nella mia cella che veniva dall’aerea rossa, sentiva le loro urla, capiva che le stavano violentando, spesso si lasciavano stuprare per evitare di essere picchiate.
Quando la notte del 7 dicembre siamo usciti, c’era una donna con tre bambini che non volava portare con sé perché non sapeva chi fossero i loro padri”.
Quasi non sbatte le palpebre Hassan. E così perso nei suoi ricordi vicini che quasi non si accorge che siamo lì ad ascoltarlo. Poi si alza la manica e mostre dei tagli e un’ustione, me lo han fatto con delle lamette e un accendino e poi si ritira giù la manica con un movimento brusco come se non volesse vederlo neanche lui.
“Il giovedì e il venerdì erano giorni di festa, le guardie di turno si ubriacavano e poi ci picchiavano, ci spegnevano le sigarette addosso, e neanche se lo ricordavano”.
Il 7 dicembre 2024
Poi arriva il 7 dicembre. Come ogni sera alle 9 dovevano dormire, a terra, uno accanto all’altro, testa contro piedi, non è facile incastrare decina di persone in una cella.
“Verso le 2.30 sentiamo delle grida, ci agitiamo, guardiamo dalle fessure della porta e vediamo che le guardie stanno mettendo delle persone della zona rossa in alcuni container frigorifero, 22 container, ne caricano centinaia a detta di Hassan, tutte persone che ancora nessuno sa dove siano.
Dalle viscere della prigione nella zona rossa, i detenuti urlano sempre più forte, nella cella di Hassan sono spaventati pensano sia in corso una rivolta o che li stiano ammazzando tutti.
Le guardie se ne stavano andando e poco dopo i combattenti dell’Hayat Tahrir al Sham butteranno giù i cancelli, i rossi riemergono e vanno a liberare i bianchi.
“Non riuscivamo a crederci”
“Ci dicevano siete liberi, ma nessuno di noi osava muoversi, ci hanno dovuto prendere fisicamente e spingerci fuori. Avevo paura, non sapevo cosa fare, c’erano spari e macchine di quelli dell’HTS per portarci a casa.
Abbiamo camminato due km, poi siamo saliti in macchina e in furgone, ci hanno portato nelle piazze ci hanno dato i telefoni per chiamare a casa.
Il padre di Hassan è andato a prenderlo. Che avete fatto? “Ci siamo abbracciati, baciati, sembrava di stare in sogno”.
La nuova vita di Hassan
Oggi 18 giorni dopo la notte della liberazione dei detenuti di Sednaya e del paese dal giogo di Assad, sta a casa con il padre. La notte dorme poco, sta ricominciando a mangiare senza vomitare, non riesce ancora a stare solo molto a lungo e se bussano alla porta non apre perché ha paura che lo arrestino di nuovo.
Non ha documenti, quindi lavora con il padre ma non ha un salario. Non ha ancora rivisto i suoi amici perché dice di non essere pronto, sa di non essere più la persona che era prima.
“A volte sono felice, altre arrabbiato, so che c’è una vita che mi aspetta e che dovrò ricominciare appena avrò la forza di farlo”. Ma anni nella prigione degli orrori non si cancellano solo perché si viene liberati, le catene, la paura, le botte, sono qualcosa che si porterà dentro a lungo.
Il momento di lasciarlo andare
Hassan ci guarda con i suoi occhioni esausti e capiamo che è arrivato il momento di lasciarlo andare. Il padre si avvicina con delicatezza. Quanto è stato felice di rivedere suo figlio? “Non credo che si possa spiegare, qualcosa di incredibile”.
Forse un po’ come il giorno in cui nato, ma questa volta con un fardello che si porterà dietro probabilmente tutta la vita.
Hassan e decine di migliaia di persone sono passati per le prigioni di Assad colpevoli di non voler fare la guerra, come in questo caso, o di aver criticato il governo, o di aver manifestato, o scritto un post o anche per nessuno motivo, solo perché di trovavano nel posto sbagliato.
Decine di migliaia di famiglie hanno cercato, pianto e molti ancora non sanno che fine hanno fatto i loro figli, madri o padri.
Ora la domanda è come farà un popolo oppresso da 50 anni di dittatura a pensarsi in una vita normale? Come faranno a curare le proprie ferite quando sembra che tutti vogliano già nasconderle. Come faranno a gestire quella rabbia necessaria che non dovrà sfociare in vendetta, ma che sta già accadendo?
Come dice la felpa di Hasan, non si vive senza “correre dei rischi”.
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