Sednaya: eco di dolore e resistenza
Scritto da Barbara Schiavulli in data Dicembre 23, 2024
DAMASCO – “Oggi in Siria tutti sorridono. La gente sorride, le strade, anche gli uccellini sorridono – ci dice Najwa Al Hamud, attraversando la piazza più antica della capitale e pensando alla fine del regime di Bashar al Assad – ma non dimentichiamo che sotto i nostri piedi sono sepolti milioni di siriani”. Padri, figlie e figli, fratelli e sorelle di cui non si sa neanche come e quando sono morti.
Il sorriso di Najwa si spegne ripensando al passato, ma la vita continua, anche quella di chi la tiene appesa a quel tempo che non passa mai, alla ricerca di un pezzo della propria famiglia che non si sa neanche se sia vivo o morto.
Se un’eredità ha lasciato il regime, è quella di aver trasformato uno dei paesi più antichi e colti del Medio Oriente in un enorme cimitero dove sono sepolti i corpi di chi si è ribellato e le speranze di chi ancora continua a cercarli.
Il padre
“Non vedo mio padre da 13 anni”, sussurra Ali, 31 anni, di Idlib mentre scruta le foto appese in piazza dalla gente. Nomi, numeri di telefono, volti che ti costringono a guardarli nella speranza che qualcuno dia pace alle loro famiglie.
“Ero nell’esercito, ho deciso di lasciare perché non volevo far parte di quello che stava accadendo, era il 2011 l’inizio delle proteste e il giorno che ho disertato, hanno preso mio padre”.
Non ha mai smesso di cercarlo, ci sono voluti 7 anni per scoprire che il padre si trova nella famigerata prigione di Sednaya, detta anche il “Mattatoio umano” e stava per essere giustiziato.
“Ho pagato un avvocato 2000 dollari, ma era un balordo, non ha fatto nulla, si è solo intascato i soldi come ha fatto con molte famiglie disperate”.
Un passante interviene e dice che tutte le persone arrestate tra il 2011 e il 2014 sono state giustiziate. Ali annuisce, ma una parte di sé, non riesce non sperare. Le immagini dei detenuti che l’8 gennaio sono stati liberati in migliaia dalle prigioni di Assad, ha acceso un fuoco nei cuori dei familiari, ma ad alcuni basterebbero anche solo trovare le prove che sono morti per avere pace.
Il fratello
“Mio fratello oggi avrebbe 33 anni”, dice Ahmad Kalil Al Abud, un operaio di Deir Azor. Hussein era un giovane manifestante, è stato preso nel 2016, come molti ragazzi aveva lasciato l’esercito e si era ribellato. “Sappiamo che prima è stato portato nel Palestine branch, e poi a Sednanya, il posto dove andavano i detenuti a termine, quelli che venivano torturati, piegati e poi uccisi.
“Era nell’area rossa – ci spiega (bianca o rossa a seconda della durezza della detenzione, nella zona bianca le celle sono in superficie, gli altri stavano sottoterra, vivi ma sepolti in balia delle più terrificanti torture) – ma so che mio fratello è vivo”.
Vivo, come fai a saperlo? “Il giorno della liberazione sui social sono stati pubblicati tanti video, e in uno ho visto mio fratello”, mormora traboccante di gioia mentre mostra il telefonino dove appare per un attimo un ragazzo sfuocato, emaciato”.
Come fai a sapere che è lui, sono passati tanti anni? “Lo so, è lui. Ma non so dove sta ora”.
Molti dei prigionieri hanno subito torture e traumi così pesanti da aver perso la testa, molti non sanno da dove vengono o come si chiamano. Alcuni sono stati portati nelle moschee vicine o negli ospedali. Alcune persone li hanno presi e portati a casa loro per aiutarli.
Quindi Ahmad gira alla ricerca del fratello perduto convinto che sia in giro da qualche parte e che prima o poi si ritroveranno.
Le fossi comuni
Molti invece, aspettano che comincino i lavori nelle fosse comuni che negli ultimi giorni sono state ritrovate. Migliaia di persone sepolte sottoterra, senza nome, senza modo di riconoscerli se non attraverso test scientifici, ci vorranno anni di lavoro minuzioso per scoprire la verità, ci sono già organizzazioni che stanno cercando di capire come fare. Una si teme raccolga 100mila persone.
Servono nomi, elenchi, prove, per quella che sarà solo l’ultima delle indagini per quanto riguarda le violazioni dei diritti umani e crimini contro l’umanità.
A Dyabie, vicino alla città sciita di Sit Zaynab sorge uno sterminato cimitero cittadino. Tutto perfettamente ordinato e pulito, con piccole lapidi bianche rettangolari e le scritte con i nomi di persone regolarmente deceduta.
Ma il responsabile, ci fa cenno di seguire strada di terra ocra non asfaltata. “Andate sempre avanti, e alla fine non potete non vederle”.
Un deserto di dune
Ci aspetta un’enorme distesa, piena di montagnole e serpentine scavate nel campo. “Ogni notte arrivava qualcuno qui, scaricava dei corpi, ogni mattina vedevamo che la terra era stata smossa in un punto diverso”.
L’uomo anziano con il volto scavato dall’età e dal sole, non vuole accusare nessuno, ammette di aver paura ancora adesso anche se il regime non c’è più, ma non si cancella il peso di una dittatura con un colpo di spazzola”.
Nessuno ha ancora cominciato a lavorare in quel punto, i cimiteri clandestini spuntano come funghi e raccontano la storia di corpi fatti a pezzi, buttati senza remore, senza pietà neanche da morti. Dovevano scomparire, dovevano rimanere nascosti nei meandri della terra, ma il dolore che avvolge queste storie, grida giustizia da ogni parte le si guardi.
Non resta che andare nel posto dove tutto finiva, dove si entrava ma non si usciva, nel mattatoio umani. Negli ultimi 15 giorni sono uscite tante immagini di Sednaya, andare sul luogo del delitto, non è più una novità. Ma le immagini per una volta non rendono tanto quanto essere sul posto.
Una questione di odore
La paura, il dolore, la morte non si rende con la vista di un corpo martoriato. La morte e la paura sono fatte di dettagli come quell’odore acre che ti avvolge quando entri in quegli stanzini bui, sporchi, con un buco per bagno in un buco di cella.
Un odore di carne andata a male, di yogurt rancido, di vomito, di sangue rappreso.
Un odore che ti entra dentro, ti penetra nelle narici e sale su per il cervello e si accomoda per rilanciarti immagini che non si dovrebbero mai vedere, tanto meno vivere. 85 persone in una cella di pochi metri quadri, loro non ci sono più, ma restano gli stracci, le macchie, le scritte sui muri, escrementi umani.
Il percorso è impervio, si è scavato tanto, muri sono stati abbattuti, le pesanti porte delle celle sono aperte, ma non sei tu a guardare dentro, sono quelle mura a scrutare le coscienze di un mondo che non ha voluto vedere il male che si stava compiendo in quel posto.
Non è che non si sapesse, sono state fatte denunce negli anni, ma solo ora, come sempre troppo tardi, ci si indigna, prima Assad faceva comodo a tutti, quando non lo è stato più, si cominciano a vedere l’orrore che questa gente ha vissuto per anni.
L’ultima stazione dei prigionieri politici
La prigione è grande, costruita negli anni 70, divenuta l’ultima casella prima della morte dei prigionieri politici, dei manifestanti, dei giornalisti, degli attivisti, delle donne che hanno partorito figli di stupro là dentro che non hanno mai visto un uccellino o il cielo.
Le stanze del sale, dove venivano messi i cadaveri dopo che erano stati lasciati con i detenuti per qualche giorno per conservarli visto che non c’era refrigerazione. La stanza dell’acido, dove c’è una piscina dove venivano immersi i corpi per potersene liberare più facilmente.
La pressa dove venivano schiacciati i corpi per fare spazio mentre li caricavano sui camion per poi andarli a seppellire da qualche parte.
Ganci, fili, elettrici, stupri, tutto era all’ordine del giorno. E quelli più duri da piegare sepolti sottoterra, per questo oggi si vedono i buchi di chi ha tentato di scavare dove sentiva le voci di persone che gridavano aiuto.
E poi venne la liberazione
Quando sono stati liberati con la caduta del regime, molti non se lo aspettavano, molti non erano in grado neanche di capire cosa stava succedendo.
Ora la prigione sorge sventrata, puzzolente, abbandonata, ci sono gruppetti di ladri che cercando portare via il rame, o qualcosa che potrebbe essere venduto, ci sono famiglie che fanno una sorta di pellegrinaggio nella prigione degli orrori.
Circa 2000 sono i prigionieri liberati dai combattenti che hanno preso il potere in Siria nella prigione di Sednaya, ma in quel posto ne sono passati decine di migliaia.
L’Osservatorio siriano per i diritti umani ha stimato che fino al 2021 sono stati uccisi dal regime di Assad 30mila detenuti, torturati, maltrattati e giustiziati, mentre Amnesty International ha stimato che a Sednaya tra settembre 2011 e dicembre 2015, sono state uccise tra le 5mila e le 13mila persone.
E a sentire le prime storie che raccontano gli ex detenuti, non si veniva torturati o stuprati per confessare, ma per umiliare.
Le organizzazioni per i diritti umani hanno identificato oltre 27 prigioni e centri di detenzione gestiti dal governo di Assad in tutto il paese, dove i detenuti venivano regolarmente torturati e uccisi.
Un ex detenuto della prigione, arrestato per aver partecipato a una protesta pacifica e non violenta, ha raccontato ad Amnesty International che a Sednaya i prigionieri erano costretti a scegliere tra morire o uccidere uno dei loro parenti o amici.
L’ex detenuto ha anche affermato che nella prima prigione in cui è stato, i prigionieri erano costretti al cannibalismo, ma quella prigione era un “paradiso” rispetto alla prigione di Sednaya.
Le guardie hanno accettato di andarsene e consegnare la prigione
L’8 dicembre la prigione, che si trova a 30 km a nord di Damasco è stata presa dalle forze di Hayat Tahir al Sham mentre avanzavano verso la capitale. Prima hanno siglato un accordo con le guardie e i responsabili – se ne sarebbero andati in modo sicuro prima dell’arrivo dei combattenti che l’avrebbero trovata incustodita – e così è stato.
Dopo la presa del mattatoio umano, Hayat Tahrir al-Sham ha pubblicato un elenco del personale carcerario, che ora sono tra i fuggitivi più ricercati in Siria dopo i membri della famiglia Assad.
Non è stato complicato liberare l’aerea bianca, dove ci sono celle vere, sbarre, lucchetti ai piani, ma ci sono voluti diversi giorni per entrare, scavare e liberare i detenuti della parte “rossa”, che stavano nella parte più profonda, fino a tre livelli sotto la prigione composta da due edifici che poteva ospitare fino a 20 mila detenuti.
Sednaya oggi è la più nota della rete di prigioni del regime di Assad in tutto il mondo, il simbolo della repressione del regime a causa di morte per tortura, delle aggressioni sessuali e delle esecuzioni di massa tramite spesso impiccagione.
Ma in Siria ce ne sono almeno altre 27 di queste prigioni.
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