Mille vite in una sola

Scritto da in data Dicembre 5, 2019

 

«È la vita che accade, è la cura del tempo» canta Niccolò Fabi. È la sensazione che si prova nel Pantanal, nonostante l’albergo villaggio pieno di brasiliani, voci, buffet e piscina. Ho la sensazione, uscendo con la guida che illumina con una torcia gli animali, che la notte si limiti solo a nascondere una ricchezza di vita, respiro e movimento. Siamo nel Pantanal, pianura alluvionale del Mato Grosso nonché la più grande zona umida del mondo. Qui capibara, alligatori e giaguari dovrebbero essere protetti dall’uomo. Per raggiungere questa meta, parto da Cuiabà, la città dalle mille anime, dove trovo Gabriela.
All’epoca, nel 2015, c’era la “mani pulite” brasiliana con lo scandalo di Lula, la Presidente era Dilma Rousseff. Erano finiti i mondiali da un anno, con cantieri ancora lì. Non c’erano state ancora le Olimpiadi di Rio. Tutti parlavano di due sole cose: politica e corruzione.

Verso Cuiabà

Mi sveglio troppo presto. Tocco piano la donna brasiliana di San Paolo che dorme nel letto a castello accanto al mio: non deve partire, ma ci tiene a salutarmi prima che me ne vada. «Svegliami, per favore!» mi aveva chiesto. Alla fermata dell’autobus, diretto all’aeroporto, incontro un uomo che ha alloggiato con me al Katarina: uno splendido ostello che ricorderò con affetto, trovato per caso il giorno stesso del mio arrivo. Lui lavora a Brasilia in un banco del governo – che ancora non ho capito bene che cosa sia – ma è solo e vorrebbe tornare a Recife dalla sua famiglia, dove suo padre vive solo. A Foz è rimasto un solo weekend, con la scusa di aver acquisti da fare in Paraguay ne ha approfittato per fare il turista.
Non conosce il lato argentino delle cascate: «qual è più “hermoso”?» mi chiede. È una domanda tipica, come se ci fosse una sorta di gara – e di sconfitta brasiliana – per contendersi la parte più bella e spettacolare delle cascate.
Ammetto che la Garganta e l’immensità argentina siano innegabili, ma il 14 agosto, carica e piena di vita, ho assorbito la potenza del lato brasiliano. Il turismo è parsimonioso, meno gridato e fotografato, con meno bastoni da selfie e più empatia.
Mi parla di confini e di immigrazione: ero stata nel punto dei tre confini, in quella zona franca in cui si intersecano Paraguay, Argentina e Brasile. nonché due fiumi, Iguaçu e Paranà. Mi conferma l’andirivieni, gli acquisti in Paraguay per spendere meno, la presenza massiccia di arabi ma anche di boliviani, haitiani e tedeschi. «Il sud del Brasile ha un carattere molto europeo» mi dice: Trento è una città in cui si parla italiano, ci sono città in cui si parla solo tedesco e una in cui si festeggia San Gennaro. I brasiliani, solleva lo sguardo, vanno pazzi per la tua cultura, mi dice, nonostante si riduca a un laconico si mangia pizza e si beve vino.
Arrivati all’aeroporto tira fuori il suo orologio: ora qui è sicuro che nessuno glielo rubi. Mi saluta con una stretta di mano, dicendomi di fare moltissima attenzione perché sono sola: è quello che mi sento dire da tutti i brasiliani o argentini incontrati, che mi coccolano e mi aiutano. Sospiro, sperando che la buona stella continui a seguirmi.

Corruzione e pesce fritto

A Cuiabà arrivo dopo due ore di volo e un’ora di fuso. La città la vedo dall’auto di Gabriela – un’amica brasiliana conosciuta a Londra – andando su e giù tra aeroporto, lavoro e casa. Non ho aspettative: tutti dicono che qui non c’è nulla di bello. Gabriela mi parla: non ci vediamo da due anni ed è buffo vedersi nella sua città, nella sua casa, vedere dove lavora e dove vive. Mi parla mentre guardo un centro storico che sembra molto giovane con le sue chiese moderne di diverse religioni, vicoletti colorati e intensi, case basse e strade strette. Il sapore dell’America Latina lo immagino da quel breve scorcio di saliscendi e polvere. Le strade sono asfaltate ma ho la sensazione che ci sia un pulviscolo caldo e giallastro. Alcune case e alcuni negozi ricordano le fatiscenti costruzioni indiane quadrate, poco curate, fatte di colori e lamiere, con i gradini di terra e polvere e nessuna porta da aprire. Nessuna sensazione di possesso e chiusura. Poi c’è l’altra Cuiabà, quella moderna fatta di grattacieli che si susseguono lasciando ampi spazi di aria. Si ha la sensazione di poterli afferrare dalla cima con le dita per poi spostarli quasi fossero Lego. Sono precisi, puliti, ordinati e belli.
Gabriela mi mostra il cuore politico della città dove lei e il suo fidanzato lavorano: lui nell’IT lei nelle PR della difesa. È contenta per lo stipendio e soddisfatta del suo ruolo ma credo che le manchi il lavoro di vera giornalista politica per la Folha de San Paolo.
Portandomi a casa sua mi conferma la sensazione che Gabriela sia una ricca brasiliana bianca. Una casa moderna, bianca, da donna in carriera. La vista dal balcone abbraccia tutta la città e arriva fino alla Chapada dos Guimarães.
Mentre continuo con la mente a sollevare i grattacieli come fossero Lego, Gabriela e il fidanzato Raphael decidono di portarmi nel loro locale preferito per il pesce. Tutto si presenta molto fritto e decisamente molto buono: paco e pintado sono due pesci di fiume accompagnati dalla immancabile farofa di banana.

La politica è il tema più popolare: tutti si lamentano in modo prepotente e quasi cantilenante dell’elevata corruzione attuale presente soprattutto a Brasilia. Gabriela e Raphael ripetono più volte di essere sconsolati e arrabbiati per i lavori interrotti lungo una delle strade principali: un’arteria rimasta aperta dopo i Mondiali e mai più terminata.

Raphael mi racconta in portoghese – quindi potrei aver frainteso – che 70 anni fa al posto della strada attuale c’era un fiume piccolo dalle acque trasparenti e dalla bellezza unica ora interrato e sprofondato a causa del nero del cemento. Entrambi scuotono la testa e screditano la loro città definendola brutta, terribile e disagevole. Io sorrido: mi affascina come tutto ciò che sembra possedere più vite, anime e contraddizioni.

Dirty Dancing nel Pantanal

Da Cuiabà, il giorno seguente, sarei andata nel Pantanal in un luogo che Gabriela si era premurata di prenotarmi. Mi sono fidata: diceva che era necessario farlo con largo anticipo.
Si tratta di una delle più grandi pianure alluvionali, ricca di fauna – capibara, alligatori e giaguari i più famosi – e con un terreno particolarmente “umido”, soggetto a inondazioni periodiche.
Alle 14 inizia il mio viaggio lungo la Transpantaneira – una strada che taglia e attraversa il Pantanal e che si dimostra alquanto monotona. La vegetazione è divisa in due. Secca e polverosa per la stagione in cui siamo, ma con tracce di verde. Ricordo con nitidezza un albero rosa che si stagliava nel verde opaco. Un albero in fiore di una bellezza delicata e semplice, unico come se fosse lì per sbaglio, come se un ciliegio giapponese in fiore si fosse smarrito e stesse lì ad attendere nel luogo sbagliato.
Quando arriviamo mi mettono un braccialetto all-inclusive, prenoto tre escursioni, ci sono buffet e piscina e tanti brasiliani con cui chiacchierare in portugnolo, un misto di due lingue di cui in realtà io ne parlo – e male – solo una delle due. Sono in un hotel villaggio per brasiliani con escursioni, animatori, centro massaggi, persone che si vogliono rilassare e una voce che deve esserci sempre: dagli altoparlanti escono musica, numeri del bingo, giochi e parole urlate, ampi buongiorno carichi di allegria. Mi ricorda Dirty Dancing.

La vita notturna dei capibara

L’uscita notturna in barca mi riappacifica con il luogo. Cosa vedremo mai al buio pesto? In alto la Via Lattea è definita e ben visibile, sotto ai piedi ci sono terra e acqua, nelle orecchie sento l’aria densa di suoni provenienti dagli uccelli. L’idea che nel buio ci sia più vita del previsto mi fa sentire completa, come se nulla mancasse. La guida parla solo in portoghese: la sua bravura si deduce da come sa muoversi senza disturbare, come sa illuminare, quando e come parlare senza interrompere il silenzio, dosando luce e ombra in modo armonico e perfetto. La vita era lì dentro grazie al buio e potevamo vederla per pochi istanti: uccelli illuminati quasi in posa, alligatori lenti e pigri, disinteressati, cuccioli di pochi mesi, un uccello rosa al centro, capibara. Luce per un istante e buio subito dopo. E poi l’alba liquefatta, di fuoco, potente e doppia per via del riflesso sul fiume.

La protezione della nostra terra

SESC è il nome dell’hotel: non si tratta solo di un albergo ma di una vera e propria impresa che si occupa – con alberghi sparsi nello Stato – di integrare le fazenda con sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Paga adeguatamente le guide, agisce come centro di ricerca naturalistica e adotta alcuni accorgimenti: acqua riscaldata da pannelli solari, il compost sfruttato per le Fazenda attorno, la ripulitura dell’acqua e l’utilizzo di passerelle in legno per percorsi a piedi in modo da non calpestare il suolo sottostante, cosa che impedirebbe alla vegetazione di crescere. Visito un formicaio ricreato con tubi di plastica collegati a vasi contenenti la terra giusta e il corretto nutrimento. Mi sento in trappola per loro! Osservo gli insetti puntati con gli spilli, tra cui le farfalle, le stesse viste vive alle cascate di Iguacu. Una coppia di francesi conosciuta qualche tappa dopo mi parla del Pantanal in modo diverso: mi dicono di non aver visto i giaguari ma il gruppo precedente sì. Quando sono arrivati, la guida ha chiesto al proprietario della Fazenda dove fosse il giaguaro avvistato il giorno prima. L’uomo ha risposto di avergli sparato e di averlo ucciso proprio grazie all’informazione sul luogo dell’ultimo avvistamento avuta dalla guida stessa. «Abbiamo sentito gli spari» mi dice lei «e la guida ci ha fatto proprio il gesto di non parlare: non abbiamo né visto né sentito nulla».
Al ritorno avrebbero voluto scrivere una lettera a qualche ente, anche perché è un parco protetto così come quella specie. Non so se l’abbiano mai fatto. Vince chi paga di più: se hanno i soldi, anche le fazenda possono fare quello che vogliono! Triste, tipico e quasi banale. La loro guida, oltretutto, per mostrare a tutti un serpente, facendo la retromarcia lo schiaccia: troppa incuria.

Verso il cielo oppure a colori

Al ritorno a Cuiabà, nel tentativo di pagare un biglietto del bus, conosco una ragazza gentile che sa l’inglese: non riesco a capire nulla del sistema di pagamento fin quando tutto il bus non si prodiga per darmi una mano. Scopro che alla fermata alcune persone vendono attraverso il finestrino una sorta di biglietto elettronico anche a chi ne è sprovvisto. La ragazza – nel tentativo di vendermi escursioni e una notte nell’hotel dove lavora – si offre come guida. Mi porta verso una chiesa in Piazza della Repubblica.
Accanto trovo un museo con un tizio dal viso solcato da poche rughe molto profonde, capelli grigi spettinati e tenuti insieme da una sorta di fascia nera. Mi spiega una sola sala del museo, riferita a una religione frutto di una miscela tra riti africani e brasiliani. Al centro c’è una scultura composta da pezzi di bambole tenuti insieme da fili: teste, braccia, gambe. Una sorta di lampadario che raccoglie le parti del corpo per le quali qualcuno ha chiesto una grazia. Il mercato mi ricorda l’Asia. Passo per la via colorata vista dall’auto il primo giorno: le mille città in una sola. Come Saigon. Cuiabà come Saigon: i suoi grattacieli e suoi spazi per ricchi, le sue periferie sconce e sporche, il suo centro storico di ciabatte, umori e baracchini, di sguardi che ti fissano, di negozi di ogni tipo, dalla bettola aperta e anonima allo spaccio cinese passando per i negozi di vestiti. La povertà colora le case, la ricchezza le innalza fino al cielo. Cerco un WiFi senza successo, per accordarmi con Gabriela, fino a quando due donne, due commesse in un negozio, non mi fanno fare una telefonata.

In copertina, foto di Eleonora Viganò

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