Requiem per i diritti umani

Scritto da in data Luglio 5, 2023

Ci deve essere un momento dove tutto diventa troppo. Ci deve essere un momento in cui ci si lava la faccia, si chiude il rubinetto dell’acqua, ci si veste e si esce per le strade a urlare «basta». Un momento in cui non si può più andare a lavorare, a scuola, a buttare la pattumiera o a comprarsi un giornale o accendere la televisione.

Quando le cose, per noi normali, diventano impossibili per altri, allora quello dovrebbe essere anche troppo per noi. Qual è il limite che trascina fuori le persone dalla propria vita confortevole, ma anche no, per farci dire «questo è troppo»? Vero che non sta succedendo a noi, ma è proprio sicuro che non succederà anche a noi? Oggi a loro e domani a noi? Chi vi dà questa certezza, chi vi impedisce di avere compassione, empatia, chi vi trattiene a casa e vi impedisce di arrabbiarvi? Esiste la goccia che può far traboccare il vaso di quello che un essere umano è capace di sopportare?

Stanotte ho sognato di fare un discorso, chiedevo scusa per quello che era stata la mia vita sempre a metà, buona giornalista ma mai assunta, brava persona ma mai voluta veramente da nessuno; alla fine mi davo fuoco, chiedevo scusa a chi mi conosceva, ma ero stanca, stanca di combattere, stanca di non avere mai il controllo su niente, stanca dei morti che avevo visto e di quelli che avrei raccontato, e vedevo le fiamme salire e bruciare la gonna che indossavo (e non indosso gonne probabilmente da anni), prendermi la pelle delle gambe che vedevo accartocciarsi e salire verso il resto del corpo. Mi sono svegliata, ho fatto un lungo sospiro e mi son messa a fare il notiziario di Radio Bullets.

Un uomo, un povero venditore tunisino fu quello che fece esplodere le primavere arabe, quando sembrava che il Medio Oriente decidesse di urlare il proprio malcontento per poi forse trovarsi in una situazione peggiore di quella che aveva prima. Cacciato un dittatore, ce n’è sempre uno in agguato. In Iran è la morte di una donna curda in stato di fermo, colpevole di aver indossato male il velo, che ha scatenato l’indignazione delle donne, tanto da quasi provocare una rivoluzione dove uomini e donne, soprattutto giovani, sfidano il sistema. Seicento morti, migliaia di detenuti, ora le ragazze non indossano il velo in città nel pieno di una forte disobbedienza civile, ma il regime è ancora lì, inamovibile come una pietra troppo pesante da sollevare. Le due giornaliste che raccontarono la storia di Mahsa Amini giacciono in prigione, rischiando di non vedere più la luce del sole.

In Afghanistan, in quella che le Nazioni Unite hanno definito la peggiore catastrofe umanitaria al mondo, le donne non possono studiare, non possono andare al parco o al ristorante, scegliere il marito, decidere quando sposarsi, figuriamoci in palestra o avere la maggior parte dei lavori che normalmente farebbero in tutto il mondo. Ora è arrivato un editto dei talebani − una creazione occidentale, pakistana, saudita, per sconfiggere trent’anni fa i russi e che ora, come tutti i giocattolini che non ci piacciono più, si sono trasformati in zeloti della religione, che di religione non capiscono nulla, e soprattutto in nemici delle donne − che hanno deciso che le donne non devono più andare dal parrucchiere. C’è una legge apposta per questo. Le donne afghane sono state cancellate. Quando non ci saranno più le dottoresse che stanno lavorando ora − perché le università sono interdette alle donne, quindi non ci sarà ricambio − le donne non avranno accesso neanche alla sanità. Ucciderle sarebbe troppo facile, meglio ridurle lentamente a oggetti analfabeti depressi, e trattarle come si faceva un tempo con le donne intelligenti, tacciate nei nostri tempi passati di stregoneria, isterismo, malattia mentale, e farle scomparire lentamente senza che nessuno se ne accorga veramente. Ucciderle indignerebbe, verrebbe invocato il genocidio, anche se non sono sicura che oggi si solleverebbe il sopracciglio di chi conta o di chi non conta, a parte quattro giornalisti, altri quattro difensori dei diritti umani, che urlano come faceva Cassandra inascoltati e derisi dal potere e dalla propaganda. Più facile ucciderle lentamente e tristemente, un po’ come si sta facendo con il mare.

In Salvador una donna può essere condannata all’ergastolo se abortisce, spesso spontaneamente, anche se è stata stuprata. In alcuni paesi comanda il narcotraffico, in altri gli eserciti, in altri ancora i tiranni. E la gente subisce. Julian Assange, colpevole di aver rivelato al mondo i crimini di guerra degli Stati Uniti e del Regno Unito, rischia duecento anni di prigione, invece di essere portato su un tappeto rosso cosparso di fiori. E l’Italia? Perché anche noi non ci facciamo mancare nulla, dal mistero di Ustica all’omicidio di Ilaria Alpi, di Regeni, a quello di Paciolla, solo per citarne alcuni. Dove si indice il lutto nazionale per un pregiudicato che è stato al governo, ma non per i giudici che hanno dato la vita per combattere contro la mafia.

Ancora non vi basta per chiudere l’acqua del rubinetto e scendere in piazza?

In Francia, un ragazzo viene ucciso dalla polizia e per una settimana il paese è messo a ferro e fuoco. Negli Stati Uniti dura settimane, diventiamo tutti George. Da noi, un povero trans viene massacrato dai vigili e molti neanche lo sanno. Neanche questo basta. Niente sembra bastare a scrostarci dalle nostre vite ripetitive, incollati a divani o lettini da spiaggia, mentre il mondo non solo non gira più, ma va letteralmente a rotoli. Penso al clima, all’indifferenziata che ci si chiede di fare e poi si forniscono bombe a destra e manca. Vuoi mettere il mio sacchettino di plastica che non posso evitare, perché la trovo ovunque, con una bomba all’uranio impoverito?

Penso a Israele che può bombardare e uccidere quanto vuole senza che nessuno dica niente. Penso alle cinquantanove guerre in corso, la maggior parte di bassa intensità, che per molti significa non sapere che qualcuno in questo momento sta morendo e noi continuiamo a scrollare gli schermi dei telefoni come se fosse la vita, ma che vita non è.

È allarmante questa mancanza di partecipazione collettiva, di genere, sociale. Il divide et impera ha vinto, ha spezzato le reti, distrutto quel senso di indignazione che ci rende umani. Se sei un profugo bianco vali più di quello nero, se sei cristiano vali più del musulmano, se sei uomo meglio che donna, ma il vero punto è che non siamo niente, nel momento in cui non chiudiamo quel maledetto rubinetto, da cui l’acqua a noi esce ancora, e non difendiamo e proteggiamo gli altri. Uomini e donne che siano. Bambini e anziani. Istruiti o analfabeti. La sessantesima guerra è quella contro le donne, è fatta di arroganza, prepotenza, abuso e indifferenza, la sessantunesima contro le minoranze, che siano religiose o di genere, che siano di colore o povertà. Un amico, mi disse un giorno, «sono nero, sono gay, sono musulmano e sono rom, subisco ben quattro tipi di razzismo. E neanche questo basta a farvi chiudere quel maledetto rubinetto?»

Perché i diritti degli altri non interessano, perché l’economia suscita un sussulto di indignazione, ma non il rispetto della vita? Perché chi governa non è capace di vedere oltre, invece di guardare costantemente ai suoi piccoli attributi? Non lo so, ma so che la notte sogno di darmi fuoco, sogno di scavare tra le macerie per trascinare fuori cadaveri. Continuo ad andare in posti ostili, sperando che la mia voce sia una voce, ma in realtà come la rubrica di Dafne Malvasi, sono solo parole al vento. Ma non so che altro fare. Sogno i Mandela, i Martin Luther King, le Dacia Maraini, i Gandhi e non li trovo quando mi sveglio.

Non posso che sperare che la violazione dei diritti umani tocchi noi, per farci svegliare, e quindi continuo a scrivere, ad andare in giro a urlare che il mondo dobbiamo prendercelo, ribaltarlo, dobbiamo rifarlo. Che siamo al punto di non ritorno. Se a Hong Kong una persona può dire a degli attivisti per la democrazia, fuggiti abbandonando il proprio paese, «vi perseguiteremo per sempre» e noi non facciamo rete, c’è qualcosa che non va in noi. Se una donna afghana non può andare oggi a scuola o dal parrucchiere, non sono i talebani il problema, siamo noi che lo accettiamo.
Se oggi un’amica non può abortire in Italia, perché gli ospedali non rispettano le leggi, il problema non sono loro, ma noi che non facciamo niente. Permettiamo perfino che chi fugge e affronta migliaia di chilometri di traumi venga insultato perché sfida il mare, invece di accettare di essere ucciso a casa propria. Siamo in grado di subire e accettare qualunque cosa, di sopravvivere permettendo che ci si faccia qualsiasi cosa. E questo è il male di questo millennio. Non è resilienza, è morte della civiltà.

Foto di copertina: Foto di Nathan Dumlao su Unsplash.

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