Noi e il sogno di Abiden
Scritto da Barbara Schiavulli in data Marzo 3, 2023
Abiden Jafari era su quel maledetto barcone. Era una delle duecento persone che hanno sfidato il mare. Aveva 28 anni e l’accompagnava suo fratello, perché le donne afghane non possono uscire da casa da sole, tantomeno viaggiare. Ma lei, in quell’Afghanistan che 17 mesi fa abbiamo lasciato, ritirandoci alla velocità della luce, non ci poteva più stare. Era stata minacciata. Era stata perseguitata, rimanere era più rischioso che partire. A casa ha lasciato il papà e le sue sorelle, mettendosi nelle mani dei trafficanti che le hanno fatto attraversare l’Iran, poi la Turchia e poi salire sul barcone. La famiglia a Kabul è disperata. Come potrebbe non esserlo? Gli afghani oggi non hanno altra ricchezza che i figli, sono il futuro e quelli che riescono a partire, dopo che le famiglie hanno venduto il possibile per pagare i trafficanti, non portano con sé nulla tranne che un sogno: quello di una vita in pace in un posto dove si può essere sé stessi, lavorare e mandare i soldi a casa.
Lasciare il proprio paese perché si ha paura della terra dove si è nati, è un dolore che pochi riescono a capire. Di sicuro non chi non ha mai provato la sensazione di sopravvivere a una guerra ed essere schiacciati da una pace ingiusta. Una pace costruita dall’Occidente per liberarsi di loro, e consegnata alla brutalità di un movimento fondamentalista che, da quando ha messo piede da vincitore e non più da nemico nel paese, ha brutalizzato le donne fino a cancellarle.
Perché una cosa l’hanno capita: non serve uccidere per sottomettere una popolazione, basta controllarla con la paura e l’ignoranza. E così, prigione per chi dissente, senza uccidere ma terrorizzandoli o minacciandoli, o togliendo loro il lavoro o la reputazione.
Abiden era un’attivista. L’avremo sicuramente vista in qualcuno di quei video diventati virali dove si vede un manipolo di ragazze che urla per le strade per cinque minuti “Donna, istruzione, libertà”, e poi arrivano uomini col kalashnikov, le picchiano e la manifestazione si disperde. Ragazze che oggi non possono più andare a scuola, non possono lavorare, non possono vestirsi come vogliono e devono sempre avere accanto un uomo di famiglia, qualsiasi cosa facciano. Per le donne afghane non è vita. La maggior parte di loro trascorre il tempo a casa, se sono sposate crescono i figli, cucinano e puliscono la casa, parlano solo con i familiari che spesso vivono nello stesso complesso di stanze, una accanto all’altra. Se sono giovani e non ancora sposate − ma l’età del matrimonio sta scendendo vertiginosamente − se ne stanno nelle loro camere, tristi, attaccate ai cellulari guardando film, leggendo libri, vivendo a occhi aperti in un incubo del quale non riescono a capacitarsi. Se non hanno nessuno indossano un burqa e chiedono per strada l’elemosina sperando di non essere aggredite o investite.
Ma il punto non sono solo loro e l’inferno che vivono ogni giorno, motivo per il quale chiunque vuole andarsene dall’Afghanistan, ma tutti quelli fuori, chi non capisce che gli esseri umani non possono essere privati di alcuni diritti di base, soprattutto quando se li sono conquistati con sudore e sangue anche se solo per venti anni. Chi non capisce che dei genitori, pur di non vedere più i figli sull’orlo del suicidio, gli dicono “vai”, “prova”, e trovano anche i soldi per quel viaggio malato che anche noi abbiamo contribuito ad alimentare quando non accettiamo che la gente che mettiamo nei guai, va poi aiutata.
C’erano duecento persone su quel barcone, Abiden era una ragazza, ma c’era anche Ahmad, con la moglie e i suoi due bambini. Un ex militare addestrato a Herat dalle truppe italiane. Di loro è stato recuperato solo il corpo della moglie. Perché è partito? Perché gli ex militari sono nel mirino dei talebani con i quali hanno combattuto per venti anni. Perché l’Afghanistan non è pericoloso solo per chi lo ha abbandonato, pensando che i civili fossero delle bestie che si sarebbero adattate. E invece, no. Sognano e partono. Non oso immaginare quanta paura possa aver provato Abiden a lasciare la propria famiglia, ad attraversare paesi che non conosceva, a mettersi nelle mani di trafficanti e poi, di fronte a un mare che non aveva mai visto in vita sua. Al massimo un lago, o il Kabul river, che per la maggior parte dell’anno è un rigolo d’acqua sgonfiato. Quanto coraggio deve avere raccolto stringendosi il velo e trascinando le sue lunghe vesti, quanta forza deve aver trovato per spingersi ogni giorno un passo più avanti verso l’ignoto, ma più lontano da tutto quello che conosceva e che le faceva male.
Questa strage è stata grande e in qualche modo ci costringe a vedere le cose per quello che sono. Da una parte chi se la prende con le vittime, un po’ come spesso si fa con le donne che subiscono violenza, chi dice che dovrebbero stare a casa, che non sono genitori responsabili chi li manda nel mare. Molti non sanno neanche che c’è un mare da affrontare. E poi ci sono quelli che sentono il dolore che impregna i resti del barcone frantumato, quelli che non sanno cosa fare e che provano a capire, quelli che sentono senza mai poter veramente sentire se non lo hai visto. Non si può e non si deve contrastare il dolore in movimento, lo si può solo accogliere e curare. Ma si deve lavorare sulla nostra società, sul tipo di paese che vogliamo essere, capace di guardare un barcone pieno di gente affondare, o che si rimbocca le maniche e aggiunge un posto a tavola? Quello che lotta per politiche migliori, che crea corridoi umanitari sicuri, che trova soluzioni invece di costruire muri. O possiamo essere quello che abbiamo visto in questi giorni da chi dovrebbe rappresentarci, persone che invece di mettere a disposizione ogni risorsa disponibile per aiutare i sopravvissuti, li ha condannati. Chi siamo noi per comportarci così? Cosa stiamo proteggendo? In quale modo queste persone disperate ci mettono in pericolo? Siamo migliori di tutto questo.
Abiden era su quel barcone con suo fratello. Lui è vivo ed è qui. Per fortuna non capisce quello che intorno a lui viene detto e come molti lo guardano. Ha perso sua sorella. E non serve un’indovina per immaginare come possa stare. Ma in questo caso, non è questo ragazzino che non capisce, può essere il più ignorante del mondo, ma in 16 anni ha conosciuto più di quanto ogni persona dovrebbe mai vivere. Siamo noi gli ignoranti se non riusciamo a capirlo e ad accogliere queste persone a braccia aperte. Siamo noi gli ignoranti se pensiamo che chiunque arrivi qui dolorante, impaurito e sofferente, non deve essere aiutato. Siamo così travolti dalle nostre cose che ci siamo dimenticati di essere umani.
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