Il cielo racconta

Scritto da in data Luglio 15, 2021

Guardare in su per capire meglio la nostra storia. Dallo studio di pianeti e galassie deriva la conoscenza della nostra Terra e del nostro destino. La tecnologia ci offre oggi grandi occhi per vedere meglio nell’immenso blu del cielo.

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Lo spettrografo in fibra ottica puntato al cielo

Nelle Isole Canarie (Spagna), presso l’Osservatorio di Roque de los Muchachos, si sta lavorando alle ultime fasi di un progetto internazionale molto impegnativo: la realizzazione di un avanzato strumento che, facendo ricorso alla fibra ottica, promette di diventare un osservatore di prim’ordine del cosmo.
Ne parla Inaf − l’Istituto nazionale di astrofisica – che è coinvolto nel progetto.

Lo strumento in questione è uno spettrografo, si chiama Weave (Wht enhanced area velocity explorer) e fa parte del telescopio WHT (William Herschel telescope).
Si tratta di un super occhio formato da ben 900 fibre ottiche accuratamente installate da due robot industriali.
Come spiega l’Inaf, ogni fibra è in grado di raccogliere la luce emessa da una singola stella o galassia, catturando addirittura l’80% della luce che una sorgente può emettere. Lo spettro di luce che le fibre sono in grado di catturare abbraccia tutte le lunghezze d’onda.
Il risultato sono – e saranno – immagini di qualità elevata.

5 anni di osservazioni

L’obiettivo del nuovo super strumento – il cui sviluppo è durato ben 10 anni – è di fornire nuove informazioni su:

  •  Via Lattea
  •  altre galassie
  •  stelle

per capire come si siano formate e come siano evolute nel tempo.
Il progetto è consistente e Weave dovrebbe essere avviato entro il 2021. Avrà poi cinque anni per osservare il cosmo e raccogliere più dati possibili – sono previste 1.200 notti di osservazioni e si è calcolato che lo spettrometro avrà modo di studiare più di 10 milioni di oggetti celesti.
L’Italia è coinvolta nel progetto non solo per la partecipazione di Inaf, ma anche perché il nostro Telescopio Galileo ha il compito di ospitare l’archivio di Weave, per poi mettere a disposizione dell’intera comunità scientifica internazionale i dati raccolti dallo spettrografo.

Teoria provata, teoria azzeccata

Intanto ci sono teorie che trovano una prima storica conferma proprio dall’osservazione e dai dati che provengono dallo spazio. Teorie scientifiche formulate decenni fa e finalmente verificate.
Certo, non c’è da stupirsi dato che si parla di Stephen Hawking. Che una sua formulazione teorica sia provata desta stupore non tanto per la conferma in sé, quanto per il tempo che si è impiegato prima di dire – una volta di più – che lui aveva ragione.
Il cosiddetto teorema dell’area di Hawking, formulato dall’astrofisico inglese nel 1971 all’età di soli 29 anni, è stato provato da cinque fisici americani studiando i segnali delle onde gravitazionali.
Il teorema di Hawking asserisce che l’area attorno all’orizzonte degli eventi di un buco nero – ovvero il punto di non ritorno in cui la materia è risucchiata all’interno del buco nero – non si può mai ridurre.
Un’asserzione teorica che ha impiegato ben 50 anni prima di essere provata. Il tutto grazie ai dati provenienti dalle onde gravitazionali raccolti dai due interferometri statunitensi Ligo (Laser interferometer gravitational-wave observatory).

Riesaminata la prima onda gravitazionale

In particolare, è stato riesaminato il primo segnale di onde gravitazionali, rilevato nel 2015 che prende il nome di GW150914. Gli scienziati hanno confrontato i dati pre e post evento e hanno potuto così confermare ciò che finora era stato dimostrato solo a livello matematico. Ovvero, hanno potuto misurare che l’area dell’orizzonte degli eventi del buco nero formatosi dalla fusione di altri due buchi neri – fusione che ha provocato le onde gravitazionali poi rilevate dagli interferometri sulla Terra – non è più piccola della somma delle due aree dei buchi neri originari. Anzi è quasi certo, al 95%, che sia maggiore di oltre 130.000 chilometri quadrati.

Simulating eXtreme Spacetimes (SXS) project. Ligo

Una prima prova che Hawking, molto probabilmente, aveva ragione. E ne seguiranno altre, perché gli scienziati sono intenzionati ora a effettuare le misurazioni anche sui futuri segnali che giungeranno dallo spazio sotto forma di onde gravitazionali.
Peccato solo che l’astrofisico inglese non sia qui per avere un’ennesima – seppur ancora solo prima – conferma di una sua teoria. Stephen Hawking, purtroppo, è venuto a mancare nel marzo del 2018.
Questo però resta un passo avanti molto importate per l’astrofisica e per lo studio di quei fenomeni, tanto affascinanti quanto ancora sconosciuti, che sono i buchi neri.

Il team di fisici che provengono da diversi istituti – il Kavli Institute for Astrophysics and Space Research del MIT, la Stony Brook University, il Center for Computational Astrophysics del Flatiron Institute, la Cornell University e la Caltech – hanno pubblicato questi loro risultati sulla rivista Physical Review Letters.

Musica: “Ma il cielo è sempre più blu” – Rino Gaetano
Foto di copertina: Geralt – Pixabay

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