Le donne di Hamas tra lotta e prigione
Scritto da Barbara Schiavulli in data Gennaio 17, 2024
CISGIORDANIA – Hamas è un’organizzazione palestinese che governa a Gaza dal 2007 quando ha vinto le ultime elezioni palestinesi. Il nome è l’acronimo di Harakat al Muqawma al Islamiya che significa Movimento di Resistenza Islamica.
Il gruppo sostiene di voler distruggere Israele e di volerlo sostituire con uno stato islamico. Si ritiene che la sua ala militare, le brigate Izzedine al Qassam, abbia circa 30 mila membri.
Hamas ha combattuto diverse guerre con Israele da quando ha preso il potere a Gaza, non in Cisgiordania, e ha lanciato migliaia di razzi su Israele e portato a termine attacchi mortali. In risposta Israele, ha ripetutamente attaccato Hamas con aerei, truppe sia nel 2008 che nel 2014.
Hamas – o la sua ala militare le Brigate al Qassam – è stato designato gruppo terroristico da Israele, Stati Uniti, Unione Europea e Regno Unito, così come da altre potenze. L’Iran dal canto suo, sostiene il gruppo, fornendo finanziamenti, armi e addestramento.
Hamas, come altri gruppi di combattenti meno organizzati, sostengono di battersi per la liberazione della Palestina. Per loro attaccare Israele è un dovere di chi resiste ad un’occupazione, diritto sancito dalle Nazioni Unite.
Rappresentano un mondo religioso, conservatore, cresciuto nella violenza e pronto a quasi qualsiasi cosa pur di raggiungere i loro obiettivi. In questo momento, dopo l’attacco del 7 ottobre che ha visto la morte di quasi 1200 israeliani e il rapimento di 250 e la conseguente reazione israeliana che ha provocato più di 24 mila morti a Gaza, decine di migliaia di feriti e una catastrofe umanitaria senza precedenti, la popolarità del gruppo è andata alle stelle: oggi per un palestinese medio, Hamas a Gaza e i combattenti della Jihad islamica in Cisgiordania, sono gli unici ad aver difeso i territori palestinesi dalla continua e logorante aggressione israeliana.
Hanno riportato la Palestina nelle agende della diplomazia internazionale, ricordando al mondo che c’è un popolo che vive in uno stato di apartheid da decenni.
I metodi di Hamas sono discutibili. Come lo sono quelli del governo israeliano, ormai sotto gli occhi di tutti. Si nutrono dello stesso odio e della stessa violenza. Con la differenza, se vogliamo cercare il pelo nell’uovo, che Hamas esplode nel pieno di un’occupazione diventata sempre più pressante, mentre Israele usa Hamas per perseguitare tutti i palestinesi – almeno questa è la tesi del Sudafrica che ha accusato di genocidio Israele alla Corte Internazionale di giustizia dell’ONU – per liberarsene e prendere la terra.
Detto questo, in questi giorni, raccontando la Cisgiordania, abbiamo cercato di capire come i palestinesi, nascono, vivono, o sopravvivono sotto occupazione e a cosa porta a diventare quello che sono.
Alcuni palestinesi, così come israeliani, hanno scelto il percorso della pace, rimanendone spesso delusi, altri hanno combattuto e poi si sono fermati quando hanno messo su famiglia, altri sono rimasti immersi nella violenza come nelle sabbie mobili, perché non tutti sono disposti a vivere con qualcuno che ti dice quando devi uscire di casa, quando puoi avere l’acqua o raccogliere le tue olive, chi puoi sposare o dove puoi andare. Altri sono semplicemente violenti come in qualsiasi società viziata dalla aggressività continua.
Molti anni fa, intervistai uno dei leader e fondatori di Hamas a Gaza. Pensavo di trovarmi davanti al male, era un signore anziano, su una sedia rotelle, che aveva trascorso tanti anni in prigione e qualche anno dopo sarebbe stato ucciso dagli israeliani. Quando gli chiesi perché non riconoscevano l’esistenza di Israele, mi rispose molto candidamente: “Credi che per noi, sia un nemico immaginario? Li vedo, ho passato tempo nelle loro carceri, ma cascasse il mondo, non daremo mai soddisfazione a chi ha occupato la nostra terra”.
Sono trascorsi tanti anni. Hamas ha un’ala politica che parla e tiene conferenze stampa sempre molti forti e piene di invettive. Un mondo fatto di uomini spesso, in questi giorni percepiti come il male assoluto, e lungi da noi voler giustificare una qualsiasi forma di violenza, ma se parliamo di loro bisogna anche provare a scoprire qualcosa del loro mondo. E anche le donne fanno parte di questo mondo.
Tra le mani ho l’elenco delle donne che sono state rilasciate durante lo scambio di prigionieri di fine novembre, quando alcuni ostaggi israeliani sono stati rilasciati insieme ad alcuni detenuti e detenute palestinesi. Molte di loro sono di Hamas. Alcune non vogliono parlare perché sono state minacciate, altre sono più adulte, hanno già perso tutto quello che la vita ha loro timidamente offerto, e non hanno più niente da perdere.
Quando Um Asef varca la soglia, chi ci circonda solleva lo sguardo sorpreso. La conoscono tutti. Un po’ l’ammirano, un po’ la temono, un po’ la compiangono.
La definiscono la madre della Palestina. 64 anni e un viso austero che incorpora uno sguardo altrettanto severo circondato dal velo rosa. È stata sposata 46 anni, ma in realtà ha visto la sua famiglia unita e tutta insieme solo nel 2018. Perché il resto del tempo è stato scandito dagli arresti del marito, suo, poi dei figli maschi.
“Abbiamo scelto dal primo momento di resistere all’occupazione”, ci dice come se fosse una sentenza, e di fatto lo è stato. Suher El Barghouti si perde nei ricordi di quando si innamorò del marito nel primo momento in cui lo vide. Lui le chiese di sposarlo, ma prima voleva che sapesse che la loro vita non sarebbe stata facile, che lo avrebbero arrestato, e forse anche ucciso. “Ho accettato perché lo amavo. E oggi nonostante quello che ho vissuto e i sacrifici che ho dovuto accettare, non rimpiango nulla”, dice con una nota di dolcezza che non le si addice.
Il marito alla fine è morto per il covid, lei è convinta che glielo abbiano attaccato in prigione. Poi il primo dei suoi quattro figli (e due figlie) viene ucciso dai soltati israeliani, il secondo un mese dopo, decide di vendicarsi e attacca e uccide 4 soldati israeliani, viene arrestato e buttata la chiave.
Quella che lei chiama resistenza, che per altri è terrorismo, è diventata la sua vita. Significa amare un marito detenuto, crescere dei figli nella cornice della fede e della lotta. “Questa terra ci appartiene, ed è nostro dovere difenderla. Ci arrestano per questo, ci picchiano, ci uccidono, sono stata picchiata davanti ai miei figli. Resistere per noi non è una scelta”.
Difficile non pensare al 7 ottobre, all’orrore delle immagini di civili israeliani che si confondono con quello dei civili palestinesi. “Per l’Occidente c’è la verità che racconta Israele. Non so perché appoggiate uno Stato che ci occupa. Poi c’è la nostra verità, che non ha lo stesso valore, perché noi siamo dalla parte sbagliata della storia.
Il sette ottobre è accaduto perché Israele voleva attaccare Gaza. Bisognava fare qualcosa prima. Hamas ha solo anticipato quello che comunque sarebbe accaduto. E Gaza ne paga il prezzo. È accaduto anche in passato. Quante volte siamo stati attaccati? Ma questa volta è diverso, perché il governo israeliano ha mostrato la vera faccia dell’occupazione, e sta uccidendo chiunque senza distinzione”.
“Dopo il 7 ottobre è come se si fosse aperto il recinto, non so se lo vedete, ma oltre ai migliaia di morti, hanno arrestato anche migliaia di persone. Sono arrivati nel mio villaggio, (area A, sotto la gestione totale palestinesi), e hanno preso i ragazzi. Sono entrati a casa mia anche se sapevano che non c’era nessuno solo per fare a pezzi le foto di mio marito”.
Suher è stata arrestata tre volte nella sua vita, “solo perché ero parte della famiglia. Ogni volta mi tenevano per 40 giorni e poi mi rilasciavano senza accuse. Quando arrestano qualcuno nel paese, lo portano a casa mia e gli dicono che questa è la casa dei terroristi. Dicono che li ho tirati su io, cercano di provocarmi, ma resto calma”.
Il 7 ottobre si è parlato di donne e anziani uccisi, stupri. “Quel giorno attraverso il muro sono passate molte persone da Gaza, non solo uomini di Hamas, non posso parlare per tutti, ma per Hamas sì ed è impossibile che un uomo di Hamas violenti qualcuna. Può uccidere, ma siamo religiosi, violentare una donna mai”.
Un discorso surreale, ma non è la prima a farlo. Per la comunità conservatrice e religiosa, la violenza sessuale è un tabù. Qualcun altro, vicino ad Hamas, ci dirà che se qualcuno di Hamas violentasse una donna e si sapesse, Hamas lo ucciderebbe.
Suher che cos’è la Pace? “Poter vivere nella nostra terra senza Israele. Questa non è una storia che comincia il 7 ottobre, ma 75 anni fa quando ero una bambina e qualcuno venuto da fuori, mi ha cacciata dalla mia casa. Se dio vuole, un giorno se ne andranno.
So che quello che sta succedendo è terribile, ma la libertà è importante, stiamo combattendo una crudele occupazione. Mi hanno toccato in posti in prigione dove una donna non dovrebbe essere toccata. Sono malata e mi sono state negate le cure. Mi dicevano bevi l’acqua che ti passa. Ero in prigione il 7 ottobre, ci hanno picchiate anche i medici”.
Davanti a Suher ci sono i nipoti, una ragazza quasi adolescente e un bambino che gira freneticamente lo zucchero in un bicchiere di latte con un po’ di Nescafé. “Credi che tutto questo mi piaccia? Credi che voglia vedere i miei nipoti vivere nella violenza, circondati dalla morte, che non vorrei vivere come tutti gli altri? Il padre di questo bambino è morto, e lui non fa altro che chiedere della guerra. Mi chiede perché suo padre è stato ucciso, perché gli hanno demolito la casa”.
La sua voce si spezza, come se sentisse profondamente quello che dice, respira e riprende: “Non ci piace l’idea di perdere i nostri figli, di ucciderne altri, di vivere così. Ma ci sono condizioni che ci costringono. Ho trascorso la vita a sentire la mancanza di qualcuno che fosse mio marito o mio figlio.
Non sapevo che il mio secondo figlio si sarebbe vendicato della morte del fratello, avrei fatto di tutto per impedirlo, per impedire che finisse in prigione, che la sua casa fosse demolita. Avrei voluto una vita normale, ma non è andata così”.
Poi mi prende un braccio quasi sorpresa di quello che mi sta per dire: “Tutti mi dicono che sono una donna forte, ma quando ritorno a casa la sera, nessuno sa come mi sento. Ma capisci che non posso crollare? Sono responsabile di quello che resta della famiglia. Con un marito sempre in prigione, io dovevo mandare avanti la baracca. Conosco la sofferenza, ci ho vissuto, non credere che non sia umana”.
Rientra in sé torna ad essere austera e si arrabbia pensando al soldato che la tiene sotto controllo da anni e che arriva ogni volta c’è un raid nel suo paese. “Era lì alla prigione quando mi hanno rilasciato il 29 novembre. Mi ha chiesto se avrei festeggiato, voleva provocarmi e gli ho risposto a tono: mi lasciate solo perché ci siamo presi la vostra gente e la volete indietro. E anche io torno indietro ma non c’è nessuno, ho perso tutto, non mi resta che la mia terra”.
Hanan ha 59 anni, sette figli (quattro maschie e tre femmine). Sembra un’anziana del nord, con gli occhi chiari e lo sguardo gentile. Il 4 settembre 2023 è stata arrestata, era a casa, i soldati israeliani sono arrivati alle tre di notte. “Non mi hanno accusato di niente, ma sono stata brutalmente picchiata dalle soldatesse della prigione di Ofer solo perché sono la sorella di Naher Barghouti (un combattente a cui è stato dato l’ergastolo nel 1978)”.
Un altro dei suoi fratelli mentre era in galera, è entrato a far parte di Hamas dopo gli accordi di Oslo. Lo hanno rilasciato, e due anni dopo lo hanno riarrestato, perché aveva tenuto una lezione all’università di Birzeit. “Anche i miei 4 figli sono stati arrestati, ad uno gli hanno rotto tutte le dita della mano”. Lei è stata rilasciata il 24 novembre insieme a due dei figli, gli altri restano dentro.
Accanto a lei, Manal che l’ha accompagnata, 44 anni, tre figli maschi, due dei quali in prigione, tre ragazze a casa, e il marito in prigione, perché appartengono ad Hamas. “In realtà lui era un rappresentante di componenti elettronici, ma al terzo arresto ha dovuto mettersi in proprio perché non poteva tenersi un lavoro, ma il suo problema non sono stati solo gli israeliani ma anche l’Autorità Palestinese”.
Hanan era in galera il 7 ottobre, insieme alle sue compagne di cella avevano capito che era successo qualcosa, ma le guardie sono entrate e hanno portato via radio, tv. “Non volevano che sapessimo, non volevano che festeggiassimo. Sapevo solo che Hamas aveva preso delle persone. E fino al rilascio non ho saputo più niente, ci hanno tolto l’acqua, l’elettricità, perfino quella che compravamo con i nostri soldi. Bevevamo l’acqua del bagno come animali, piena di cloro. Per dieci giorni niente doccia – E chi aveva il ciclo? – Cercavamo di aiutarle, ci sono stati dei negoziati per lasciarle andare in bagno a lavarsi. Eravamo 11 nella cella, avevamo 30 minuti per fare la doccia tutte, una per volta”.
I soldati che le controllano sono maschi e femmine, e dopo il sette ottobre anche i sanitari sono diventati violenti. “Prima usavano lo spray al peperoncino e poi ci picchiavano, per quattro giorni non ho potuto mettere acqua sulla pelle perché mi bruciava”.
“La cosa che fanno per spezzarci è umiliarci sempre, ci insultano, insultano la nostra religione, ti senti triste e impotente, soprattutto per le giovani è più difficile, ci sono minorenni che sono state aggredite sessualmente, ma noi non ne possiamo parlare apertamente, la società palestinese è molto chiusa, soprattutto a Gaza. E non serve che tu pianga, urli, o smetti di mangiare. Non c’è nulla che possa fermarli, perché nessuno ha il potere per farlo. In ogni caso, quello che passiamo noi, è sempre comunque meno di quello che passano gli uomini e i ragazzi”.
Il giorno dello scambio non sapevano nulla, quando sono state portate fuori pensavano che sarebbero state portate in un’altra prigione, qualcuna è stata picchiata. “Mi sono sentita in colpa ad uscire perché tante altre sono ancora lì, soprattutto per una ragazzina che è entrata a 16 anni e speravo tanto che uscisse, era stata picchiata brutalmente, piena di lividi, bruciature di sigarette, la sua colpa? Dei post su Facebook. Ci hanno detto di non parlare, ma non mi importa, bisogna sapere quello che succede”.
“Per me quella del 7 ottobre è un’operazione a tutti gli effetti. Ma violentare? Quelli sono metodi israeliani, non di Hamas. Cerchiamo di capirci, non sono contro gli ebrei, non ho nessun problema con loro, sono esseri umani come noi. È con il governo e l’esercito che abbiamo un problema. Non vogliamo che la gente muoia, ma sono si può spingere, spingere, spingere e pensare che noialtri si subisca sempre.
Guarda come sono stati trattati gli ostaggi. Hanno mangiato con loro, gli hanno portato dottori, i combattenti di Hamas sono persone religiose”. Ma il 7 ottobre sono stati uccisi anche civili. “Pensiamo che la maggior parte delle persone sia stata uccisa dalle forze armate israeliane mentre cercava di uccidere quelli di Hamas, hanno colpito contro tutto senza fare distinzione come stanno facendo ora a Gaza. Gli ostaggi servono per far uscire detenuti, ci sono 10 mila detenuti nelle carceri israeliani”.
Anche perché secondo Manal dopo il fallimento degli accordi di Oslo, tutto è precipitato. “Abito in aerea A secondo gli accordi, ma gli israeliani entrano quando gli pare, non posso andare a pregare dove voglio, ci sono raid ogni giorno.
Il 7 ottobre è il risultato di 75 anni di occupazione, so che voi non potete saperlo, ma noi lo viviamo e ogni giorno è uno di troppo. Israele non ha alcuna ragione per essere qui. Gli ebrei vogliono starci, si prendano il passaporto palestinese e vivano in pace con noi, sono i benvenuti.
Ma l’idea di due stati per due popoli, dove uno è sotto occupazione, è impossibile. Possono tornare da dove vengono, perché vengono tutti da qualche altra parte o restare con noi e diventare palestinesi. Non facciamo altro che difendere la nostra terra”.
“Come madre ho sempre paura per i miei figli – prova a spiegarci Hanan – me li terrei sempre a casa. Ma poi esiste qualcosa che si chiama dignità. Ho 4 figli in galera, e mi dico che almeno sono vivi, se penso alle madri di Gaza, mi si spezza il cuore. Ma se non sono i nostri figli a difendere la nostra terra, chi lo farà? Voi che non riuscite neanche a distinguerà la verità dalla menzogna?”.
Ma i vostri figli muoiono. “Se diventano martiri, è Dio che decide. E non credere che solo i ragazzi di Hamas vengano uccisi o arrestati, accade a tutti. E poi puniscono le famiglie demolendo le loro case”.
Il marito di Manal, attualmente in galera, è un combattente di Hamas, addestrato ad usare armi, il secondo figlio invece, non è affiliato a nessuna organizzazione ma è comunque in prigione. “Doveva essere rilasciato a dicembre, ma è ancora dentro. Dal 7 ottobre non so niente di loro. I legali non possono fargli visita.
Sono preoccupata ma anche orgogliosa perché lottano per la Palestina. E non ce l’ho con chi non lo fa, ognuno resiste a modo suo, c’è chi boicotta i prodotti israeliani, chi crea canzoni. L’unica cosa che spero è che questi figli che finiscono in prigione o con Dio, non sia per nulla.
Resistere non è solo combattere, anche le donne resistono, soffrono, nessuno di noi vive una vita normale, ma se pensano di averci indebolito anche un solo momento, non hanno capito niente dei palestinesi. E ogni volta che vedo la mamma di un martire penso di voler esser lei. Non fraintendermi, questo non vuol dire che non ami i miei figli, ma la causa è qualcosa di più grande dei nostri sentimenti.
Mia figlia non crede nella resistenza armata, vuole che i suoi figli studino e stiano lontano dalla violenza. E a me sta bene, i dottori servono per curare i feriti, servono ingegneri per ricostruire. Non tutti devono combattere, si resiste anche solo con un parola, basta non fermarsi mai”.
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Foto di Barbara Schiavulli
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