L’economia dopo il coronavirus – Parte 2
Scritto da Pasquale Angius in data Luglio 6, 2020
Continuiamo a parlare delle conseguenze economiche della pandemia da Covid 19.
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Lo smart working
Questo tsunami sanitario che ha sconvolto le nostre vite e la nostra organizzazione sociale ed economica, ha messo in luce o ha finito per accelerare fenomeni e processi che erano già in atto o comunque noti da tempo. Pensiamo al cosiddetto smart working. Qualcuno lo chiama home working, coloro a cui non piacciono gli inglesismi preferiscono chiamarlo telelavoro. Al di là delle questioni terminologiche, si tratta in pratica della possibilità di svolgere in tutto, o in parte, il proprio lavoro da casa senza necessità di recarsi in ufficio. Ovviamente si tratta di una possibilità che non tutti hanno. Chi lavora in una fabbrica o in un’officina dove ha bisogno di utilizzare dei macchinari, chi fa un lavoro a contatto con il pubblico: commessi e negozianti, ristoratori e camerieri, istruttori di fitness, per citarne alcuni, non può utilizzare questa modalità di lavoro. Ma molti lavori del settore terziario, in particolare quello che viene chiamato il terziario avanzato, cioè i lavori professionali, possono in buona parte essere svolti in smart working. Pensiamo all’avvocato che deve scrivere una memoria per una causa, al commercialista che deve redigere un bilancio, al giornalista che deve scrivere un articolo, all’ingegnere informatico che deve sviluppare un software, al redattore di una casa editrice che deve correggere un testo, al grafico che deve inventare un nuovo logo per un’attività commerciale e via di seguito. Molti di questi lavoratori possono, o meglio potrebbero, compiere gran parte del loro lavoro da casa o da qualunque altro posto anche perché per svolgere quel lavoro hanno bisogno soltanto di un buon computer, di uno smartphone e di una connessione internet. Durante il lockdown a causa della pandemia molti di costoro hanno sperimentato per la prima volta il lavoro da remoto, in realtà questa possibilità esiste da anni ma sinora erano poche le aziende che avevano attivato queste nuove modalità.
Le ragioni sono le più varie, a cominciare da un’organizzazione del lavoro e dei rapporti di lavoro impostata più sull’ossessione del controllo e degli orari da rispettare che non sugli obiettivi e sul problem solving, come anche la necessità comunque di socializzare e di condividere pareri, opinioni, consigli, dubbi.
Lo smart working ha in realtà diversi vantaggi. Un’azienda che può far lavorare da remoto se non tutto, una parte almeno del proprio personale, avrà bisogno di uffici più piccoli e quindi meno costosi. Ma ci saranno anche benefici economici per la collettività perché, per esempio, nelle grandi aree urbane, meno gente si muove, soprattutto nelle ore di punta significa decongestionamento del traffico e quindi anche minore inquinamento e risparmio di tempo negli spostamenti per tutti coloro che si devono muovere per forza. Ma lo smart working dà dei vantaggi anche al lavoratore perché gli consente di risparmiare il tempo degli spostamenti, che può dedicare ad altre attività.
Inoltre, è stato constatato da diverse ricerche, lo smart working aumenta anche la produttività. In casa ci sono meno distrazioni, non c’è il collega che ti deve raccontare l’ultimo pettegolezzo, non c’è la pausa caffè, non ci sono riunioni inutili, e quante se ne facciano, soprattutto nelle grandi aziende, lo sanno tutti.
Sicuramente dopo che, a causa della pandemia, molte aziende, hanno dovuto fare di necessità virtù e si sono rese conto che lo smart working non è così male come pensavano, probabilmente si organizzeranno per il futuro per incentivare queste modalità di lavoro.
Questo esempio dello smart working è la dimostrazione di come la tecnologia possa migliorare la nostra vita, di come il suo utilizzo venga accelerato da crisi periodiche della più varia natura: guerre, eventi naturali come terremoti, tsunami, o crisi sanitarie come quella attuale.
Tecnologia e semplificazione
D’altronde proviamo a pensare com’era il mondo soltanto 25 anni fa.
Facciamo un piccolo esempio tratto dall’esperienza quotidiana di ciascuno di noi. Supponiamo che una bella mattina del 1995 mi fossi trovato davanti alla necessità di fare tre cose urgenti: effettuare un bonifico per pagare l’affitto del mio box, passare dal commercialista per ritirare un F24 compilato per pagare una piccola contestazione dell’Agenzia delle Entrate e infine pagare il dovuto all’Agenzia delle Entrate.
Abitando nella zona Nord di Milano sarei dovuto andare nella mia banca in centro, compilare un bel modulo cartaceo, fare la coda allo sportello e quindi far partire il bonifico. Poi sarei dovuto andare dal mio commercialista che ha lo studio nella zona Est di Milano, poi sarei dovuto andare all’Agenzia delle Entrate che aveva sede in via della Moscova, anche lì una bella coda e, infine, sarei riuscito a chiudere tutte le mie incombenze. In pratica avrei perso un’intera mattinata. Se oggi, nel 2020, dovessi fare le stesse cose ci impiegherei non più di un quarto d’ora. La mattina, mentre faccio colazione, accendo il computer, mi collego alla mia banca online e faccio il bonifico per l’affitto del box. Poi scarico le mie email e trovo l’F24 che il commercialista mi ha mandato già compilato con tutti i codici giusti. A quel punto mi collego al sito di Agenzia delle Entrate con le mie credenziali e la password e pago direttamente online. Quindi un risparmio di tempo notevole e costi quasi nulli, non mi sono nemmeno dovuto spostare da casa. Questo significa che l’evoluzione tecnologica che c’è stata negli ultimi 25 anni, con l’introduzione nella nostra vita quotidiana di innovazioni meravigliose come il computer portatile, internet, lo smarthphone, ci hanno consentito di aumentare notevolmente la nostra produttività. Ma cos’è la produttività? Senza perderci in definizioni didattiche, la produttività è un concetto molto intuitivo: cosa si riesce a fare in un determinato periodo di tempo con le risorse che si hanno a disposizione. Tornando all’esempio banale fatto precedentemente, se tre operazioni della mia vita quotidiana per essere espletate nel 1995 mi richiedevano mezza giornata del mio tempo mentre oggi, per fare le stesse cose, ci impiego soltanto un quarto d’ora, ciò significa che la mia produttività si è moltiplicata per n volte.
Ma facciamo un altro esempio ragionando su un’attività lavorativa. Supponiamo che un nostro amico, il signor Luigi lavori come export manager in un’azienda del Trevigiano che produce vini. Nel 1995 supponiamo che Luigi avesse conosciuto al Vinitaly, la più importante fiera italiana del vino, un importatore coreano, il signor Sung. Luigi terminata la fiera lo contatta e si intavola una trattativa commerciale. Il signor Sung chiede cataloghi, schede tecniche dei vini e altro materiale promozionale e quindi Luigi deve spedire, per via postale, tutto questo materiale cartaceo. Dopo un po’ si arriva finalmente all’accordo ma occorre far tradurre cataloghi ed etichette in lingua coreana e poi rimandare tutto il materiale al signor Sung, sempre per via postale, affinché venga fatta l’ultima revisione. Il materiale corretto va rimandato in Italia sempre per via postale e a quel punto si possono stampare i nuovi cataloghi, le schede tecniche e le etichette da apporre sulle bottiglie in coreano. Dopodiché, finalmente, partirà il primo ordine.
Oggigiorno, nel 2020, se Luigi dovesse rifare la stessa operazione impiegherebbe molto meno tempo, basterebbe lo scambio di alcune email o di alcuni messaggi su whatsapp. I cataloghi, le schede tecniche, le etichette, le immagini, i loghi, si potrebbero inviare via internet in pochi secondi e poi l’importatore coreano potrebbe provvedere direttamente alla traduzione dei testi e infine alla stampa. In sostanza Luigi oggi potrebbe fare lo stesso lavoro che faceva 25 anni fa risparmiando tempo, fatica e soldi, questo perché le nuove tecnologie gli hanno consentito di accrescere la sua produttività.
Aumenta la produttività ma non il reddito
Luigi, che è un tipo sveglio, si rende conto di come, grazie alla tecnologia, il suo lavoro sia cambiato, si rende conto che la sua produttività è aumentata in questi 25 anni, certamente perché ha sulle spalle molta più esperienza, ma anche perché tutta una serie di operazioni routinarie del suo lavoro oggi le può fare con tempi e costi notevolmente più bassi, per esempio, attraverso internet.
Ora il dubbio che si pone Luigi è: ma questi aumenti della produttività del mio lavoro dove sono andati a finire? Si sono tradotti in un aumento del mio stipendio? Purtroppo non è così.
Nel 1995 Luigi guadagnava per fare lo stesso lavoro, l’export manager, 4 milioni di lire netti al mese, per l’epoca un signor stipendio, oggi, 25 anni dopo guadagna netti circa 3.000 Euro. Certamente anche 3.000 Euro sono un signor stipendio e, in termini nominali, se facciamo la conversione in lire, ammonterebbero a circa 6 milioni delle vecchie lire. In pratica in 25 anni il suo stipendio è aumentato di circa un terzo, non è poco. Ma, come abbiamo detto sopra, c’è un piccolo aggettivo che va tenuto presente e che fa la differenza, il suo stipendio è aumentato in termini “nominali”. Ma, in questi ultimi 25 anni molte cose sono cambiate a cominciare dai prezzi dei prodotti che acquistiamo e quindi il raffronto va fatto non in termini nominali ma in termini reali, cioè al netto dell’inflazione, al netto dell’aumento dei prezzi dei prodotti che acquistiamo. Detto in altro modo occorre fare il paragone tra cosa Luigi può acquistare con il suo reddito oggi e cosa poteva acquistare con il suo reddito del 1995. Facendo questo paragone Luigi si accorge che, in termini reali, il suo reddito è sostanzialmente rimasto fermo. Le cose che può acquistare oggi sono sostanzialmente le cose che poteva acquistare 25 anni fa.
Purtroppo questo è un problema di Luigi, come della gran parte degli italiani. Questa intuizione di Luigi è un dato confermato da numerose analisi economiche, il reddito reale degli italiani, negli ultimi 25 anni è rimasto sostanzialmente fermo.
Questo significa però che gli aumenti di produttività che ci sono stati in questi 25 anni nel lavoro di Luigi non sono finiti nelle sue tasche. Luigi un sospetto ce l’ha e quindi va a parlare con il suo datore di lavoro chiedendogli un congruo aumento, reale e non soltanto nominale, del suo stipendio. Se la mia produttività è aumentata sarebbe dovuto aumentare anche il mio stipendio ma così non è stato. Il suo datore di lavoro lo ascolta ma gli nega l’aumento perché è vero che la produttività di Luigi è aumentata ma il suo stipendio non è composto soltanto dal netto che gli viene accreditato sul suo conto bancario ogni mese. Ci sono da calcolare anche tasse e contributi che sono quasi pari al netto che riceve in busta paga e quindi il costo, per l’azienda, dello stipendio di Luigi è di quasi 6.000 Euro al mese.
Cuneo fiscale e pressione fiscale
Questa differenza è quella che in termini tecnici si chiama cuneo fiscale e di cui sentite spesso parlare sui mass media. Purtroppo, gli dice il suo datore di lavoro, negli ultimi 25 anni, sono aumentati notevolmente tasse e contributi sul lavoro, come sono aumentate anche le tasse sulle imprese, quindi chi si è appropriato dell’aumento della produttività del lavoro di Luigi non è il suo datore di lavoro ma lo Stato.
Il datore di lavoro di Luigi ha in parte ragione, è indubbio che negli ultimi 25 anni quella che si chiama pressione fiscale, cioè la parte di tasse che ogni cittadino paga sui suoi redditi allo Stato, è aumentata di parecchi punti percentuali. Ma come spesso accade in economia le cose sono un tantino più complicate.
Se andiamo a vedere anche i dati di come il reddito si è distribuito tra capitale e lavoro, detto in altro modo, tra reddito delle aziende e reddito dei salariati e degli stipendiati, o tra salari e profitti, si nota che negli ultimi venti/trent’anni, in Italia, ma anche nella gran parte dei paesi occidentali, c’è stato uno spostamento di diversi punti percentuali dai salari al capitale.
Il risultato su cui vogliamo far cadere l’attenzione, risultato, lo sottolineiamo, dimostrato da centinaia di studi e analisi economiche, è che gli aumenti di produttività, anche notevoli, che ci sono stati negli ultimi due/tre decenni, grazie all’innovazione tecnologica, non sono finiti nelle tasche dei lavoratori, se non in percentuali minime, ma sono finiti in gran parte o nelle tasche dei capitalisti o nelle tasche dello Stato.
Quindi, riassumiamo i due concetti che abbiamo cercato di esplicitare in questo puntata. Innanzitutto il progresso tecnologico fa aumentare la produttività del lavoro e più in generale di tutti i fattori produttivi e questo è uno dei principali motori dello sviluppo economico, sempre, in ogni epoca storica. Quando si parla di crescita economica non si può prescindere dall’innovazione tecnica e scientifica che consente agli esseri umani di organizzare in maniera più efficiente la produzione di beni e servizi.
Il secondo concetto importante è che mentre nei decenni precedenti, per esempio il periodo storico che va dalla fine della Seconda Guerra Mondiale agli anni Ottanta del Novecento, gli aumenti di produttività, determinati dall’innovazione tecnologica, andavano a vantaggio sia del lavoro che del capitale, negli ultimi decenni, per ragioni ovviamente di natura politica, gli aumenti anche considerevoli di produttività, raramente sono andati a vantaggio dei lavoratori e questo è un grosso problema non soltanto sociale e politico ma anche economico. Questo fenomeno è la causa primaria di quell’aumento delle disuguaglianze che c’è stato negli ultimi trent’anni in tutti i paesi più sviluppati.
L’aumento delle disuguaglianze economiche
Negli ultimi trent’anni, il conflitto sociale e politico tra capitale e lavoro è stato vinto dal capitale e la conseguenza è stata che i ricchi sono diventati sempre più ricchi, il numero dei poveri è aumentato e anche i ceti medi si sono impoveriti. L’aumento delle disuguaglianze economiche accettato da tutti, anche dai partiti di sinistra, come se fosse un evento ineluttabile crea, però, enormi problemi perché mina la stabilità dell’intero sistema economico e produce delle crisi devastanti come quella che abbiamo vissuto nel 2008 e che corre il rischio di riprodursi nei prossimi anni, come conseguenza della crisi pandemica di questi ultimi mesi. Perché quando arriva una crisi si pone sempre un problema drammatico: i costi di quella crisi chi li pagherà?
La crisi del 2008, seguita al fallimento della banca americana Lehman Brothers, è stata fatta pagare non alla finanza che l’aveva causata ma ai lavoratori e ai ceti medi che l’hanno subita. Cosa accadrà con la crisi causata dal Covid-19? Nessuno è in grado di prevederlo al momento, ma noi proseguiremo nelle prossime puntate a fornirvi dati e ragionamenti per capire meglio come funziona l’economia.
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