Parliamo di povertà in ottica di genere

Scritto da in data Luglio 2, 2021

A cura di Marcella Corsi

Ha impressionato l’opinione pubblica il crollo del tasso di occupazione femminile annunciato dall’ISTAT tra dicembre 2019 e dicembre 2020: dal 50% all’48,6% a fronte di una modesta contrazione per gli uomini. Aggiungiamo, citando il rapporto Save The Children (2021), che nell’anno della pandemia 96.000 madri con figli minori hanno perso il lavoro. Tra queste, 4 su 5 hanno figli con meno di cinque anni: sono le madri che a causa della necessità di seguire i bambini più piccoli hanno dovuto rinunciare al lavoro o ne sono state espulse.

A fronte di queste stime la recente pubblicazione del Rapporto integrato sul mercato del lavoro 2020 ha confermato il carattere straordinario dei contraccolpi della pandemia sul mercato del lavoro e ha evidenziato come le categorie più penalizzate dall’emergenza sanitaria siano state quelle già in precedenza caratterizzate da situazioni di grande svantaggio: le donne, i più giovani (15-24 anni) e gli immigrati.

Con queste premesse è più che lecito preoccuparsi per le ripercussioni che si potranno avere in un prossimo futuro sui fenomeni di povertà ed esclusione sociale nel nostro paese, soprattutto in ottica di genere.

Va detto però che questo tipo di valutazioni si scontrano con nuovi (e vecchi) problemi relativi all’invisibilità dei fenomeni in essere. “Essere poveri” non ha un significato univoco per uomini e donne, perché sconta il diverso accesso delle persone alle risorse economiche proprie dei nuclei familiari. Purtroppo gli indicatori di povertà si basano sui redditi familiari e sul presupposto che le differenze tra gli individui − in termini di indipendenza economica e di carico assistenziale − possano essere trascurate in base al presupposto della condivisione delle risorse e della loro uguale ripartizione tra i membri della famiglia. Misurando la povertà a livello familiare piuttosto che a livello individuale, gli indicatori non sono in grado di valutare la misura in cui ciascun individuo (uomo, donna, giovane, anziano, etc.) contribuisce al reddito familiare, e neanche le effettive possibilità di utilizzare le risorse disponibili.

La divisione dei compiti tra i sessi all’interno delle famiglie (con le donne ancora considerate come soggetti da destinare “naturalmente” alla cura) corrisponde a un accesso di genere alle risorse e alle opportunità. Inoltre, la maggior parte del lavoro che la cura implica rimane invisibile nel calcolo del reddito familiare, mentre contribuisce significativamente alle risorse familiari nel loro complesso.

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