Yemen: Antisar, la guerra sul corpo di una donna

Scritto da in data Aprile 21, 2021

Di Laura Silvia Battaglia.

È il caso che da dieci giorni divide l’opinione pubblica in Yemen, ma che dimostra anche come, quando si tratta di difendere i diritti delle donne sul piano internazionale, valgano i double standard. E invece, sulla vicenda della modella yemenita Entisar al-Hammadi − rapita, secondo quanto ricostruito dal suo avvocato Khaled al-Kamal, ai primi di marzo da uomini armati a un nuovo check-point nell’area di Shamlan a Sana’a e adesso detenuta nelle prigioni delle milizie houthi, che governano il Nord del Paese da sei anni − bisognerebbe agire subito.

Il caso

Entisar al-Hammadi, 20 anni, nata nel 2001 da padre yemenita e madre etiope, e residente a Sana’a, nel Nord dello Yemen, è diventata molto nota nel paese per il suo desiderio di fare carriera come modella e di volere “esportare” la moda yemenita all’estero, raccontato sulla piattaforma “Yemen future” che scova giovani influencer locali e ne riferisce sogni e aspirazioni. Entisar aveva raggiunto la popolarità anche grazie alla partecipazione attoriale, lo scorso Ramadan, nelle serie tv “Dam al-Gharib” e “Ghurbat al-Banna”, trasmesse sul canale locale Yemen Shabaab. Durante un’intervista su un canale televisivo locale lo scorso anno, la ragazza aveva raccontato come i genitori non fossero inizialmente favorevoli alla sua scelta:

I testimoni

La prima a raccontare l’accaduto è stata una delle testimoni del rapimento-arresto, poi rilasciata e amica della modella, avvenuto vicino a una delle vie più centrali della città, Haddah Street, Yusra al-Nashiri. Le ragazze, due e non quattro, fermate in auto e non, come avevano diffuso alcune fonti come Yemen Akhbar e News Yemen inizialmente, mentre passeggiavano, sono state portate in un centro di detenzione femminile delle milizie. L’accusa mossa alle due donne, con cui sarebbe stata giustificata la detenzione immediata, sarebbe quella di avere organizzato e partecipato, in una delle loro case, a “una festa spudorata”. Ma le amiche della ragazza e gli attivisti e le attiviste per i diritti civili delle donne a Sana’a ritengono che si tratti di un’accusa “fabbricata” per punire le attività pubbliche della ragazza e per assestare un colpo definitivo ai sostenitori dell’empowerment femminile, di cui Entisar era diventata, senza volerlo, paladina. L’avvocata yemenita per i diritti umani Hoda al-Sarari, in un tweet ha definito l’azione di arresto «uno sporco metodo per colpire le donne yemenite» mentre l’attivista Sonia Saleh, già detenuta nelle prigioni degli houthi per motivazioni simili, ha chiamato gli yemeniti a esprimere solidarietà, sostenendo che «Entisar è stata arrestata insieme alla sua amica a causa del suo lavoro di modella e per averlo fatto vestendo abiti della tradizione yemenita, senza nemmeno considerare la sua situazione familiare». La Saleh ha anche raccontato gli orrori subiti durante la sua detenzione, sostenendo che le torture a lei riservate le avevano fatto dimenticare anche il nome dei suoi due bambini.

La famiglia

La situazione familiare di Entisar al-Hammadi, citata dall’attivista Sonia Saleh, è quella alla quale si riferisce il generale dissidente degli Houti Muhammad al-Kumim che, dai suoi account social, ha postato questa riflessione contro l’azione delle milizie: «Entisar è una ragazza del mio vicinato e la sua casa non è distante dalla mia. Suo padre è cieco, la madre è anziana e la famiglia ha un figlio minore disabile. Quali valori e quale morale ha questo gruppo di miliziani retrogradi per infierire così contro persone oneste e con problemi simili?»

La madre della ragazza ha preferito non rilasciare dichiarazioni dettagliate. Si è limitata a dire al quotidiano emiratino The Nationalrilanciato da alcuni media locali on line, che «le accuse di immoralità sulla mia ragazza sono false e infondate». Sempre secondo il quotidiano, la madre di Entissar ha confermato la detenzione della ragazza e il deferimento del suo caso all’ufficio dell’accusa, con un primo interrogatorio e una prima sessione del processo previsti per mercoledì 14 aprile. La madre, a detta di The National è apparsa reticente e preoccupata, augurandosi che la figlia venisse liberata presto, mentre un’altra fonte vicina alla ragazza detenuta ha rifiutato di rivelare i particolari dell’arresto «a causa delle intimidazioni delle milizie».

La difesa e il giallo del check-point

L’avvocato e consulente legale della giovane, Khaled al-Kamal, ha parlato lunedì scorso dopo che la sua cliente, per ragioni sconosciute, non è comparsa al primo interrogatorio nella prima sessione del processo. La data nuovamente stabilita dalla corte è domenica prossima, ma l’avvocato ha dichiarato che Entisar al-Hammadi è già vittima di maltrattamenti in prigione, motivati «dal suo lavoro artistico». La linea della difesa chiede «il rilascio incondizionato» della giovane basato sulle particolarità della sua adduzione. Al-Kamal ha infatti espresso dei dubbi sul posto di blocco dove Entisar sarebbe stata fermata all’interno dell’auto con la sua amica, esprimendo ragionevoli dubbi che tale posto di blocco fosse stato istituito appositamente e per specifico (e privato) volere di una figura della sicurezza. Se così fosse, secondo la difesa, «il pubblico ministero dovrebbe rilasciare immediatamente l’artista Entisar Al-Hammadi» poiché questo tipo di arresti non è legalmente consentito dalla legge, che garantisce «la libertà personale di ogni cittadino, nonché la libertà di riunione, movimento, residenza, passaggio». In sostanza, la strategia della difesa si basa sulla definizione di responsabilità individuali negli alti gradi della milizia volti a colpire in modo specifico la al-Hammadi, con una non ben definita finalità e, per quanto possibile, a diminuire la pressione sulle responsabilità generali del governo houthi. Khaled al-Kamal ha comunque confermato che, come in molti altri casi già visti, il processo continuerà nonostante la natura infondata delle accuse contro l’imputata e il fatto che il gruppo houthi non sia riconosciuto a livello internazionale.

Prigioni a Sana’a, situazione delle donne

Negli ultimi due anni, gli osservatori locali hanno registrato un considerevole aumento dell’aggressività delle milizie houti nei confronti delle donne. Si tratta di un cambio di rotta notevole da parte dei ribelli del Nord, noti in questi anni di guerra per il loro atteggiamento tradizionalista ma rispettoso nei loro confronti, tale per cui fino al 2017 non era nemmeno permesso operare una perquisizione dei loro effetti personali ai check-point. Invece, sempre più frequenti sono adesso le conferme di restrizioni motivate da preoccupazioni di promiscuità sessuale, (dal divieto di richiedere anticoncezionali in farmacia a quello di lavorare negli spazi pubblici, come i ristoranti; dalla chiusura dei caffè all’abolizione dei manichini femminili nei negozi) e gli arresti, con abusi e torture nelle prigioni.

Anche il numero delle prigioni femminili non ufficiali è cresciuto e ciò che preoccupa di più è il potere progressivamente più ampio di alcuni leader delle milizie responsabili di queste strutture segrete. Gli attivisti locali confermano l’esistenza di una prigione segreta dedicata alle donne nel quartiere di al-Jarf, vicino all’aeroporto, controllata dal leader houti Abu Hassan al-Madani. Nella zona opposta della città, a Sud, nel quartiere Haziz, ne esiste una seconda, controllata da un altro leader, il cui soprannome è Abu Jihad. Ce ne sarebbe una terza in città, chiamata al-Nakhwa, nell’area di Dars, controllata da Khaled al-Madani. Infine, la prigione Imran ha come responsabile un altro leader chiamato Abu Hamza. Verrebbe utilizzata agli stessi scopi anche un’altra prigione segreta nel vicino governatorato di Dhamar: sarebbe allocata in una stazione di polizia vicino al parco Hran ed è controllata dal leader houti locale Hadi Kaba. Nelle prigioni, dove opera la “Zainabiyat”, ossia l’unità di polizia locale incaricata del controllo della morale, è stato registrato l’uso di tecniche di tortura con stupro riprese in video per ricattare le vittime.

Le reazioni del governo riconosciuto

Il governo yemenita di Rabbo Mansour Hadi ha condannato il rapimento della al-Hammadi e ha invitato gli inviati degli Stati Uniti e delle Nazioni Unite in Yemen e la comunità internazionale a condannarlo, nonché a fare pressione sugli houthi affinché liberino le dozzine di donne attiviste che sono ancora detenute nelle carceri del nord. Il ministro dell’Informazione Muammar Al-Eryani ha dichiarato: «Questo caso conferma che i crimini commessi dagli houthi contro le donne sono sistematicamente compiuti e gestiti da organizzazioni che irretiscono le donne per abusarne». Il ministro ha anche paventato l’ipotesi che la morte dichiarata per tumore di Sultan Zaben, direttore del Criminal Investigation Department a Sana’a, un’organizzazione designata da parte degli Stati Uniti e delle Nazioni Unite per investigare sulla tortura e sulla violenza sessuale contro le donne yemenite e confermare le sanzioni agli Houthi, sia da approfondire.

Reazioni sui social media, razzismo e sessismo

La vicenda della al-Hammadi da due settimane spacca l’opinione pubblica in Yemen ed è la cartina di tornasole di una battaglia culturale e generazionale che, ancora una volta, si combatte sul corpo delle donne. Entisar per inseguire il suo sogno, da un paio di anni aveva iniziato a postare sui suoi social foto senza il suo hijab e a indossare abiti tradizionali yemeniti adattandoli a modelli sartoriali famosi e internazionali. La comunità conservatrice intorno a lei non ha accolto queste scelte con favore ma contemporaneamente la giovane ha coagulato molti consensi tra i giovani millennials, le donne e gli espatriati. Gli stessi e le stesse che la stanno difendendo a spada tratta.

I pareri raccolti dal media on line Middle East Eye a questo proposito (ma sono visibili anche da numerosi thread on line) sono paradigmatici: si va da chi la accusa di sabotare la morale a chi ritiene che fosse influenzata dal corrotto modello occidentale, a chi si è sentito offeso per l’adattamento dei tessuti della tradizionale locale alla moda più internazionale. C’è chi sostiene che, nonostante sia dispiaciuto per la ragazza, ci sono cose più serie a cui pensare che difendere una modella o sostenere un lavoro simile, «così inutile» e controverso; c’è infine chi — come accade correntemente in Yemen — la critica per la sua pelle scura e per essere la figlia di una coppia mista (etiope-yemenita).

Razzismo, sessismo, divisioni di casta ideologiche e politiche, sono tutte coagulate e riassunte in questa drammatica vicenda, che al momento non sembra avere né soluzione né adeguata attenzione.

Il caso di al-Hammadi ha la stessa importanza della vicenda dell’attivista saudita per i diritti delle donne, Lujain al-Hathloul, ritornata a casa in febbraio ma agli arresti domiciliari e con il divieto di uscire dal paese e di rilasciare dichiarazioni, dopo 1.001 giorni di detenzione iniziata allo stesso modo con un rapimento, e continuata con tortura, isolamento e condanna per terrorismo contro la corona dei Saud.

Il Consiglio d’Europa ha appena conferito a Lujain al-Hathloul il premio “Vaclav Havel”, ritirato a Bruxelles dalla sorella Lina che vive all’estero. Lina, in occasione del conferimento del premio, ha detto: «Il sostegno internazionale è l’unico modo con cui possiamo smascherare le ingiustizie nel mio paese e proteggere le vittime. Grazie per averci dato la forza di continuare la nostra battaglia». La stessa attenzione adesso merita Intisar al-Hammadi, perché la stessa ingiustizia la riguarda, al netto dell’utilizzo politico che di questa campagna può farne il governo centrale yemenita contro il governo non riconosciuto degli houthi a Sana’a: per questo la piattaforma di femministe yemenite Yemeni Feminist Voice, e alcune prominenti attiviste yemenite all’estero come Bushra al-Maqtari, dall’11 aprile hanno lanciato sui social media l’hashtag #libertàperIntissarHammadi #Freedom_To_Entisar_alHammadi e si augura che le organizzazioni internazionali per i diritti umani facciano la loro parte, come dovrebbero.


Laura Silvia Battaglia è una giornalista, videomaker, scrittrice che si occupa di fronti caldi, in particolare dello Yemen. 

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