A che punto è la notte: il rapporto Istat 2021

Scritto da in data Luglio 12, 2021

L’Istat ha presentato il Rapporto 2021 sull’economia e la società italiana: vediamone i punti salienti.

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Rapporto Istat 2021

Riprendiamo la nostra analisi sull’Italia e sui suoi problemi partendo dall’ultimo rapporto sull’andamento dell’economia e della società italiana pubblicato dall’Istat, l’Istituto Nazionale di Statistica.

Lo scorso 9 luglio è stato presentato a Roma il Rapporto Istat 2021 che ci fornisce in poco meno di 300 pagine il quadro più aggiornato sullo stato del nostro paese, su quello che è accaduto nel 2020 e sulle prospettive per il 2021.

Il quadro che emerge è impietoso e, d’altronde, il 2020 è stato un anno anomalo, l’anno della pandemia, un evento che nessuno di noi aveva mai vissuto e nemmeno pensava di dover vivere.

Cerchiamo in questa puntata di porre l’attenzione su alcuni dei principali risultati che emergono da quel rapporto.

Nel 2020 il PIL, il prodotto interno lordo italiano, si è ridotto dell’8,9%. Questo crollo ha causato anche la perdita di quasi 800.000 posti di lavoro. I più colpiti sono stati i lavoratori a termine, gli autonomi e, in misura minore, i lavoratori a tempo indeterminato.

La caduta del PIL e gli interventi statali a sostegno dell’economia hanno messo sotto stress anche la finanza pubblica. Il disavanzo pubblico, in sintesi la differenza tra entrate e uscite dello Stato, è arrivata al 9,5% portando quindi a una ulteriore crescita del nostro debito pubblico.

Le previsioni per il 2021 sono di un recupero del PIL attorno al +4,8% anche se i più ottimisti preannunciano una crescita che potrebbe superare il 5%.

Nel 2020 comunque la crisi economica è stata mondiale. Il settore dei servizi è stato colpito più duramente rispetto alle attività industriali, che hanno retto meglio sia in Italia come negli altri paesi.

Le prospettive, per quanto in via di miglioramento, sono ancora caratterizzate da forti incertezze legate all’andamento delle campagne vaccinali, allo sviluppo di nuove varianti del virus più contagiose e pericolose e da come stanno funzionando le varie misure di sostegno all’economia messe in atto nei vari paesi.

L’analisi al livello mondiale

A livello internazionale nella prima parte del 2021 ci sono economie che sono ripartite in maniera piuttosto energica, come quella cinese ma anche quella statunitense, mentre l’Europa ha andamenti più ondivaghi anche perché molte misure restrittive sono rimaste in vigore fino a poche settimane fa in quasi tutti i paesi.

La Cina, che nel 2020 era stata una delle poche economie a non subire una contrazione ma anzi era cresciuta del 2,3%, si prevede che nel 2021 crescerà di almeno l’8%.

Gli Stati Uniti, che nel 2020 avevano subito un calo del 3,5% del PIL, nel 2021 cresceranno del 6,3%.

Nell’area Euro i paesi che hanno subito una maggiore flessione del PIL sono stati la Spagna (-10,8%), l’Italia (-8,9%), la Francia (-8,1%) mentre la Germania ha perso solo il -4,9%.

In Italia sia i consumi delle famiglie che gli investimenti sono diminuiti, ma si sono ridotte anche le esportazioni (-13,8%).

Nella prima metà del 2021 c’è stato un recupero, sia nei settori industriali come anche in quello delle costruzioni, mentre ancora al palo sono rimasti i servizi, soprattutto quelli legati al settore turistico, per il persistere di limitazioni ai movimenti.

Il dato incoraggiante è che nel primo semestre del 2021 le esportazioni italiane hanno ripreso a crescere a ritmi abbastanza sostenuti, soprattutto quelle verso gli altri paesi dell’Unione Europea come anche verso mercati quali la Cina e gli Stati Uniti.

Uno dei settori più colpiti dalla crisi nel 2020 è stato quello turistico con un calo di fatturato del 60%, circa 27 miliardi in meno rispetto all’anno precedente. Questa contrazione ha causato la perdita di circa 450.000 posti di lavoro.

Quando si parla di settore turistico si intendono una serie di comparti diversi. Quelli più colpiti sono stati ovviamente quello alberghiero, che comprende non soltanto gli hotel in senso stretto ma anche gli altri comparti dell’accoglienza, dagli agriturismi ai campeggi, dai bed & breakfast alle seconde case, e poi il settore dei pubblici esercizi, bar, ristoranti, locali. Ma ci sono anche altri comparti colpiti in maniera meno diretta dalla crisi del settore: il commercio, i turisti che acquistano prodotti da quelli artigianali all’abbigliamento, la filiera agroalimentare che rifornisce la ristorazione, il settore dei trasporti, i servizi legati al turismo, dalle agenzie di viaggio, ai servizi ricreativi e culturali, i servizi alla persona.

Gli effetti sull’occupazione, come dicevamo, sono stati pesanti e la crisi ha colpito soprattutto i giovani, dove con questa definizione si intendono coloro che hanno meno di 35 anni. In quella classe d’età è più alta la percentuale di lavoratori a termine, di precari o di chi lavora in nero e quindi sono stati maggiormente penalizzati soprattutto nel settore dei servizi.

PIL e debito pubblico

La finanza pubblica nel 2020 è stata sottoposta a un notevole stress. L’Unione Europea ha temporaneamente sospeso tutti i vincoli derivanti da regole e accordi su bilanci e debiti pubblici, per consentire ai governi dei singoli paesi di mettere in campo politiche economiche robuste a sostegno della domanda e dei redditi. Il risultato è che il debito pubblico è cresciuto per tutti i paesi europei, ma l’Italia, che già partiva da un livello molto elevato (il 134,6% del PIL nel 2019), a fine 2020 aveva raggiunto il 155,8% con una crescita in un solo anno di 21,2 punti percentuali. Peggio di noi ha fatto la Spagna che ha aumentato il suo debito pubblico di 24,5 punti percentuali. La Francia invece l’ha aumentato di 18,1 punti mentre la Germania di soli 10,1 punti.

Gli altri paesi comunque hanno un livello di debito molto più basso rispetto a noi, si va dal 120% del PIL per la Spagna al 115,7% della Francia, al 69,8% della Germania.

Nel 2020 il reddito disponibile delle famiglie si è ridotto del 2,8%, una contrazione nettamente inferiore a quella del PIL, ma i consumi delle famiglie sono invece crollati con una riduzione del 10,9%. Un po’ i lockdown che hanno chiuso gli italiani in casa e hanno ridotto le occasioni di spesa, un po’ la contrazione dei redditi per molte famiglie ma soprattutto l’incertezza sul futuro hanno spinto gli italiani a spendere molto meno di quello che avrebbero potuto, aumentando invece il tasso di risparmio. L’incertezza sul futuro, incertezza sia sanitaria che economica, ha portato a una crescita della propensione al risparmio. La gente, anche chi non ha subito riduzioni di reddito, spinta dalla paura ha finito per spendere di meno e risparmiare di più. Nel 2019 la quota di reddito destinata al risparmio era stata dell’8,1%, nel 2020 è cresciuta al 15,8%. Fenomeni analoghi comunque si sono avuti un po’ in tutti i paesi europei.

Le spese che si son ridotte maggiormente sono innanzitutto quelle legate ai servizi ricettivi e di ristorazione (-39%) seguite da quelle per ricreazione, spettacoli e cultura (-26,4%), trasporti (-24,6%), abbigliamento e calzature (-23,3%). Sostanzialmente invariate le spese per prodotti alimentari, abitazioni, acqua, elettricità.

Comunque la crisi economica ha portato nel 2020 a una riduzione dei redditi primari delle famiglie, cioè quelli derivanti da lavoro e capitale, quindi i redditi che derivano da stipendi e da attività imprenditoriali, di circa 98 miliardi di euro. A fronte di ciò il governo ha distribuito alle famiglie circa 61 miliardi di euro che hanno, in parte, attenuato la caduta del reddito primario. Sussidi vari, cassa integrazione, contributi a fondo perduto, anche se elargiti in maniera talora scoordinata o con ampi ritardi, hanno comunque svolto una fondamentale funzione di ammortizzatore sociale.

Aumento della povertà assoluta

Nel 2020 sono aumentati anche i poveri assoluti, cioè coloro che hanno un reddito mensile inferiore a quello necessario per acquistare un paniere di beni e servizi ritenuti essenziali per condurre una vita accettabile. Rientrano in questa categoria 5,6 milioni di italiani con una crescita di circa 2 punti percentuali rispetto al 2019. I poveri sono cresciuti maggiormente al Nord che non nel Mezzogiorno e nel Centro Italia, anche se nel Mezzogiorno l’incidenza della povertà, cioè la percentuale di poveri sul totale della popolazione al Sud, è più elevata. Questo dato si spiega con il fatto che le attività economiche sono state maggiormente colpite là dove erano più floride cioè nelle regioni settentrionali. Nelle famiglie composte esclusivamente da stranieri la povertà assoluta è cresciuta maggiormente rispetto alle famiglie di cittadini italiani. All’incirca il 27% di queste famiglie vive in povertà assoluta. Un altro dato inquietante è che si contano 1,3 milioni di minori che vivono in povertà assoluta.

Più del 20% degli italiani maggiorenni hanno comunque visto nel corso del 2020 peggiorare le proprie condizioni economiche.

La pandemia ha poi avuto effetti demografici importanti con un aumento deciso della mortalità. Nel 2020 il totale dei decessi è stato il più alto mai registrato nel nostro paese dal secondo dopoguerra, complessivamente 746.146 decessi.

La pandemia ha fatto crescere la mortalità sia direttamente, con i morti per Covid, sia indirettamente in quanto l’emergenza sanitaria ha portato gran parte della popolazione, anche le fasce più anziane e fragili, a ritardare o a rinunciare a prestazioni sanitarie, cure, interventi chirurgici, esami diagnostici. La riduzione delle attività di prevenzione sulle altre patologie avrà conseguenze sulla popolazione e sui tassi di mortalità, anche se sono effetti difficili da stimare e che vedremo svilupparsi nel corso del tempo.

Nel 2020 inoltre c’è stato anche un minimo storico di nascite dall’Unità d’Italia. Il sommarsi di calo delle nascite, aumento della mortalità e contrazione dei flussi migratori ha fatto sì che la popolazione residente in Italia sia diminuita di 400.000 unità.

Altro dato negativo è il calo dei matrimoni e, considerando che i due terzi delle nascite avvengono all’interno del matrimonio, questo fatto ha avuto effetti negativi sul tasso di natalità. Nel 2020 ci sono stati 87.000 matrimoni in meno rispetto all’anno precedente. La diminuzione è stata più marcata nel Mezzogiorno e sono diminuiti non soltanto i matrimoni religiosi ma anche quelli civili che, invece, negli ultimi anni erano sempre stati in crescita.

Il calo delle nascite invece è stato più accentuato nel nord ovest del paese. Esso è dovuto in parte a ragioni strutturali di natura demografica, a cominciare dalle modificazioni intervenute nella popolazione femminile in età feconda: le donne tra i 15 e i 49 anni sono sempre meno numerose.

I lockdown avrebbero potuto portare a una crescita demografica. Le persone sono rimaste forzatamente più a lungo in casa e quindi, oltre che guardare la televisione avrebbero potuto fare altro ma, probabilmente, l’incertezza sul futuro non ha favorito le decisioni riproduttive. D’altronde la riduzione delle nascite è proseguita pure nella prima metà del 2021. L’incertezza sia sanitaria che economica ha spinto molte coppie a rinviare le scelte di concepimento.

Inoltre nel 2020 anche i flussi immigratori si sono ridotti del 30%.

Nel 2020 sono cresciuti anche i cosiddetti NEET (Not in Employment, Education or Training), cioè coloro che non studiano, non lavorano, non sono impegnati in attività di formazione, nella fascia tra i 15 e i 29 anni. Nel 2008 il 19,2% dei giovani italiani era in questa condizione contro una media europea del 13%. Nel 2020 la percentuale di NEET in Italia è salita al 23,3% mentre la media europea è di poco inferiore al 15%. Le ragioni di questo fenomeno sono varie ma legate prevalentemente alle dinamiche del mercato del lavoro.

La crisi ha avuto un impatto molto forte sulla normale gestione operativa delle imprese andando a incidere sull’andamento dei fatturati, sulla regolarità dei flussi di cassa, sulla disponibilità di liquidità e sulle modalità di finanziamento delle imprese.

Il sistema produttivo italiano è stato pesantemente colpito dalla crisi. Difficile ancora valutare quali saranno le conseguenze, nel lungo termine, dello shock subito nell’ultimo anno e mezzo, perché bisognerà capire quali modifiche nei comportamenti delle famiglie e dei consumatori saranno temporanee e quali invece diventeranno strutturali.

Nel 2020, per quanto l’impatto della crisi sia stato differente da settore a settore, nel complesso il 50% delle imprese ha subito cali di fatturato di almeno il 10% e un 25% ha avuto cali del fatturato di almeno il 25%, ovvero di un’entità tale da mettere a rischio la sopravvivenza stessa di quelle aziende.

Un altro 25% di aziende è invece riuscita a non subire cali consistenti di fatturato grazie alla capacità di tenuta sui mercati esteri.

Il sistema produttivo italiano

Nel rapporto Istat si fa anche un’analisi del sistema produttivo italiano, che viene classificato in quattro macro categorie distinguendo tra:

  • Imprese solide: l’11% del totale, che sono quelle in grado di reagire in maniera strutturata alla crisi e la cui operatività è stata influenzata soltanto marginalmente.
  • Imprese resistenti: il 19% del totale, che presentano elementi di vulnerabilità ma sono in grado di attutire gli effetti negativi della crisi.
  • Imprese fragili: il 25% circa del totale, sono quelle che risultano particolarmente colpite dalla crisi pur non presentando un rischio operativo immediato.
  • Imprese a rischio strutturale: il 45% circa del totale, sono quelle che hanno subito conseguenze pesanti dalla crisi che potrebbero metterne a rischio l’operatività.

Un dato, quest’ultimo, piuttosto preoccupante. Le aziende a rischio e più fragili sono soprattutto quelle del settore dei servizi, mentre più bassa è la percentuale nei settori manifatturieri e in quello delle costruzioni. Il 41,5% delle imprese industriali mostra invece caratteristiche di resistenza e solidità.

L’ultima parte del rapporto si occupa del Piano Nazionale di Ripesa e Resilienza che dovrebbe portare nel nostro paese, nel periodo 2021-2026, investimenti per circa 200 miliardi di fondi europei a cui si aggiungono altri 30 di fondi nazionali.

Quegli investimenti dovrebbero accelerare la transizione ecologica e digitale della nostra economia e rafforzarne il grado di resilienza, e inoltre dovrebbero favorire una maggiore coesione sociale consentendo uno sviluppo più equilibrato dei territori.

Gli investimenti del Piano dovrebbero portare nel periodo di riferimento, tra 2021 e 2026, a una crescita aggiuntiva del PIL, cumulata per i 6 anni, di 4,5 punti percentuali, una media annua di circa 0,7 punti.

In questa puntata vi abbiamo annoiato un po’ con tutti questi dati ma, in economia, lo sappiamo, partire dai dati è fondamentale e per quanto brutti siano dobbiamo sempre cercare, come diceva Antonio Gramsci, di unire il pessimismo dell’intelligenza all’ottimismo della volontà, e nei prossimi anni di ottimismo della volontà ce ne servirà parecchio.

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