Buon viaggio!
Scritto da Eleonora Viganò in data Dicembre 19, 2019
Scrittori, pittori, autori contemporanei e classici, giornalisti, cantanti: tutti parlando di viaggio. La maggior parte di noi spesso si concentra sul luogo, le date, cosa portare con sé ma il viaggio si chiede anche perché e come. Un flusso di coscienza sul viaggio: tra Alain de Botton, un’intervista durata tre ore e mezza, stereotipi di luogo e genere e tante domande senza risposta.
Come e perché
Delle cinque domande del giornalismo – le famose 5W – il dove sembra essere la richiesta più comune in materia di viaggio. Ho suddiviso i miei podcast in tappe cronologiche per Paese e quando acquistiamo un libro, ci rivolgiamo a qualcosa che più o meno contenga la nostra meta: le guide e i libri tematici sono i più diffusi.
Di recente, tuttavia, mi sono interrogata su altri due aspetti poco considerati: come e perché. Il motivo? Mi sono imbattuta nel libro di Alain de Botton, L’arte di viaggiare e ho parlato a lungo con l’autrice Polaris Anna Maspero. Non solo: sono stata intervistata dalle tre e mezza alle sette di sera per una tesi dedicata al Cammino di Santiago. In quel contesto informale e poco strutturato, nel quale rispondendo a una domanda ne aprivo altre venti e divagavo dall’originale, scordandomela, ho capito quanto contino le riflessioni che ci facciamo quando viaggiamo. Che sia vicino o lontano, che sia per qualche giorno o per mesi: è importante sapere – o quanto meno chiedersi – perché lo stiamo facendo e come lo stiamo facendo.
Pianificare un viaggio – ormai è risaputo – si compone di tre momenti classici: preparare, partire e tornare. Qualsiasi sia l’istante in cui vi chiediate come e perché: quello è il momento che fa la differenza tra inconsapevolezza e consapevolezza.
Che differenza c’è tra un cammino e un viaggio? Tra una vacanza o n weekend breve e un viaggio lungo? Tra le comodità e la disorganizzazione? Tra il racconto stereotipato e quello lucido e reale?
I come e i perché, sembra che siano davvero fondamentali: senza quelli i nostri racconti potrebbero apparire piatti e vuoti, senza emozioni.
Sul Cammino di Santiago
Così ho iniziato il mio resoconto, nel 2014, sul Cammino di Santiago:
Un ragazzo con fatica sale sul suo monociclo, cercando l’equilibrio, una coppia cammina da 3-4 mesi, ci sono bambini in sidecar improvvisati con il papà accanto e una donna in bici sfreccia lungo la strada portando sulle spalle un pappagallo in una gabbia. Non è un circo, ma la grande e strana famiglia che popola la strada verso Santiago. Il cammino francese è solo uno dei possibili percorsi che si snodano lungo il nord della Spagna, a partire dalla cittadina di Saint Jean Pied de Port fino a Finisterre, la fine delle terre conosciute. Dai Pirenei all’oceano Atlantico l’emozione che si prova ad arrivarci con le proprie forze, a piedi, è superiore allo sforzo fisico e mentale che si compie per percorrere quei 900 km circa – le distanze ufficiali parlano di 869 km. La parte fisica è una delle tante soddisfazioni innegabili, ma le vere bellezze sono la strada, i luoghi carichi di storia e significato, la natura e le persone incontrate. Si vive in una dimensione che diventa sempre più onirica e, avvicinandosi alla meta, quasi magica. C’è chi compie il percorso perché ha perso pezzi di vita, chi cerca un rimedio all’insoddisfazione lavorativa e chi vuole l’amore. I racconti straordinari di vite ordinarie diventano pretesto di dialogo nei pomeriggi e nelle brevi serate negli albergue del pellegrino, dove la luce si spegne alle dieci. Dal pretesto si prosegue con il riconoscersi nell’altro e quindi con la confidenza. «Io mi chiamo Ray, come Ray Charles, ma non canto così bene. Sono nato in USA, come Bruce Springsteen, ma vivo in Francia da vent’anni», si presenta così, mentre cammina lento e curvo sotto il peso del suo zaino con tenda per accamparsi, uno dei personaggi più sorridenti del mio viaggio. Avrà poco più di 60 anni, ha iniziato il suo cammino qualche anno fa, in Francia, dopo aver perso lavoro e moglie e aver chiuso i rapporti con la figlia. Ora è ripartito da Cahors, perché camminare gli pulisce la mente. Insieme abbiamo percorso solo un breve tratto prima di Fromista, ma ci siamo ritrovati in molte tappe e in qualche albergue a condividere una cena semplice e comunitaria. Abbiamo conosciuto le stesse persone: The Legend, ossia l’autista di autobus ungherese partito a piedi da Budapest tre mesi fa, il trio di giovani ragazzi Italia-Brasile-Russia, il taciturno tedesco Mathias. Rivedersi di tanto in tanto lungo il percorso, e poi a Santiago, mi ha dato quella sensazione di famiglia apparentemente incompatibile con un viaggio che ho intrapreso da sola.
L’arte di viaggiare di Alain de Botton
Viaggio per conoscere, per sperimentare, per la bellezza dell’ignoto, per il confronto, per viaggiare e basta. Il come. Viaggiare per tempi lunghi, brevi. Viaggiare con gli aerei, con i treni, i bus. Viaggiare restando, viaggiare solo per vedere monumenti. Cosa cambia, come cambia un Paese visto in modi diversi?
Nel libro di Alain de Botton si possono trovare alcuni spunti interessanti, diluiti in altrettante “banalità”, sulle dinamiche di viaggio dell’autore stesso, su cosa sia “esotico” e perché questo esotico a volte può piacerci a tal punto da considerarlo migliore di ciò che abbiamo nella nostra terra natale: perché ci corrisponde caratterialmente di più. Perché nel nostro Paese a volte la nostra vera natura non trova spazio. Ci piacciono le cose che si discostano da ciò che odiamo nel Paese di origine. Alain parla dei viaggi di Flaubert, del senso per il viaggio di Baudelaire, di Hopper e Van Gogh… Si sposta nei luoghi, nei temi e nei “personaggi” con una certa disinvoltura. Vede con occhi altrui e osserva le sue mete con il loro sguardo.
Raccontare il viaggio, senza stereotipi
Durante la mia intervista per la tesi, tra i tanti aspetti che mi hanno commosso – il ricordo di persone, stati d’animo, eventi e il collegamento come una sorta di filo di Arianna tra tanti episodi di viaggio distinti – c’è stata una discussione in chiusura su come si racconta il viaggio e sulla difficoltà di uscire da certi stereotipi. Come si fa a trasmettere l’India sapendo che non è solo questo – anzi non è per nulla questo – ma che non si riesce a non parlare dei clacson, dei templi, dell’odore di gelsomino e urina che si mischia lungo le strade, delle crisi isteriche dovute al fatto che fosse il mio primo viaggio e dormivo nei lodge indiani del tutto spartani e – spesso – sporchi? Come faccio a dirti l’oltre che ho vissuto senza cadere nella banalità delle contraddizioni, della povertà e della ricchezza? Come faccio a non dire ridendo che Priya faceva arrabbiare sua madre esattamente come tutte le quindicenni del mondo? Ora ne ho consapevolezza, di quanto sia difficile, ma un tempo no: ci ho messo qualche viaggio, qualche perché, tantissime letture e confronti per capirlo e comunque ancora non so raccontare l’India, anzi il Tamil Nadu, anzi Devarkulam, dove ero di base. Non so raccontare forse nemmeno gli ultimi viaggi, senza quel rischio alla generalizzazione, quasi come se fosse più facile per la nostra mente: dare etichette, ingigantire, rendere tutto piatto, semplice e uniforme, vedendo solo ciò che è così diverso da noi, senza sfumature.
Donne: come se non ci fosse differenza
La laureanda mi chiede, tra le domande generiche sul viaggio: com’è viaggiare da sola da donna? Noti differenze rispetto a racconti di uomini? Ho risposto così: viaggio e faccio ogni cosa come se non ci fosse differenza, come se fossi nel mondo ideale che vorrei, non sentendomi mai diversa da un uomo. Poi nei fatti so che convivo con un po’ di paura e timore in più: dall’autostop che è un estremo, fino a tornare a casa in treno dopo una cena a mezzanotte e mezza. Scegli la carrozza con solo donne o quella con tante persone o quella davanti con il controllore. Una donna fa un check automatico, quando sale su un treno sola di notte: conta i passeggeri e li identifica in base al sesso. È innegabile e anche molto innato.
Quanti temi ha in sé il viaggio. Quante sfaccettature!
Mezzi di trasporto e riflessioni
Alain de Botton cita i mezzi di trasporto, parla del treno come un momento per avere le idee, per sviluppare il pensiero laterale, per dare respiro alla creatività, lasciando che la nostra parte “censoria” si occupi solo di guardare fuori dal finestrino: penso alla transiberiana, ai miei 3 giorni e 4 notti su un treno. Mi sono sentita protetta. Viaggio è anche un weekend veloce? Viaggio è stato anche stare a Londra per cinque settimane, con il mondo che veniva da me? Viaggio sarà anche l’esperienza di meditazione che farò dal 26 dicembre al 6 gennaio, senza cellulare, letture, scrittura, senza niente che non sia meditazione?
Cos’è, in fondo, un viaggio? Attesa, preparazione, spostamento. Una cesura, qualcosa che vive di una sua propria vita, che ci avvolge, che ci mette in crisi, che ci cura, che lenisce ferite, che le amplifica, che ci turba, consola e conforta, che ci pone domande, che ci fa riposare, conoscere noi stessi e gli altri, rischiare, vedere, apprezzare, ridimensionare. Pensare.
In copertina, foto di Eleonora Viganò
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