L’economia della Russia tra velleità imperialistiche e sanzioni economiche

Scritto da in data Aprile 5, 2022

Le velleità imperialistiche di Putin sono difficilmente realizzabili, perché la Russia ha un’economia debole e per molti versi arretrata.

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Sanzioni contro la Russia

La guerra tra Russia e Ucraina prosegue, ma non si sta mettendo bene per la Federazione Russa. Qualche giornale ha ribattezzato l’armata russa  con la sarcastica definizione di “armata lessa”. Dal Cremlino i toni cominciano a farsi meno arroganti e gli obiettivi strategici, oggettivamente poco chiari, vengono ridimensionati. Inizialmente bisognava “denazificare l’Ucraina” e neutralizzarla dal punto di vista militare, negli ultimi giorni, più modestamente, si rivendica la conquista del Donbass, in gran parte già in mano di milizie filorusse. La guerra sbagliata di Putin potrebbe trasformarsi anche in una disfatta strategica e militare, mentre la disfatta politica, mediatica ed economica è ormai un dato di fatto. I paesi occidentali hanno, infatti, varato durissime sanzioni economiche contro la Russia.

Quando si parla di sanzioni economiche si confrontano opinioni contrastanti. Alcuni sostengono che le sanzioni sono inefficaci perché non fermano i carri armati russi. Vero, ma l’alternativa qual è? Semplice, l’alternativa è un intervento militare diretto a fianco dell’Ucraina. Chi sostiene questa tesi solitamente smania per mettersi l’elmetto in testa ma dimentica che la Russia ha 7.000 testate nucleari, dettagliuccio non di poco conto.

L’altro argomento a favore di questa tesi è che storicamente le sanzioni applicate a paesi come Cuba, Corea del Nord o Iran, per ricordare i casi più noti, non hanno mai distolto quei paesi dai loro propositi e non sono servite nemmeno per cambiare quei regimi. Vero anche questo, ma solo in parte. Le sanzioni hanno pesato in maniera negativa sulle potenzialità di sviluppo di quei paesi, hanno sfiancato la loro economia, hanno ridotto il benessere della popolazione, hanno marginalizzato quei paesi riducendo anche le loro capacità di iniziativa politica.

C’è un terzo argomento, che forse è il più sostanzioso: le sanzioni colpiscono il paese sanzionato ma finiscono per danneggiare, in un mondo globalizzato e interdipendente, anche i paesi che quelle sanzioni le impongono. Vero anche questo, e per questa ragione le sanzioni vanno calibrate adeguatamente per evitare che facciano più danno a chi le impone che non a chi le subisce. Noi europei siamo fortemente dipendenti dal gas russo e questa situazione, al di là dei proclami e della propaganda, non può essere migliorata nell’arco di pochi mesi, ci vorranno anni, molti anni e investimenti consistenti. Diversa è la situazione per gli Stati Uniti, che dal punto di vista energetico sono ormai autosufficienti e cominciano a essere esportatori di petrolio e gas. Ma gli Stati Uniti sono meno dipendenti dei paesi europei anche dall’interscambio commerciale con la Federazione Russa, che è invece un importante mercato d’esportazione per le produzioni europee. Si capisce quindi la maggior decisione del presidente Biden nel richiedere sanzioni sempre più dure contro la Russia, tanto chi le paga sono gli alleati europei.

Sanzioni economiche alla Russia erano già state imposte dopo l’annessione della Crimea nel 2014. Una ricerca fatta nel 2016 da un centro di studi economici tedesco, il Kiel Institute, aveva calcolato quanto fossero costate quelle sanzioni ai vari paesi nei primi due anni di applicazione e i risultati erano che la Russia aveva perso circa 36 miliardi di dollari, la Germania circa 23, la Francia 5, l’Olanda e la Polonia più di 4, l’Italia 3,5, gli Stati Uniti soltanto 300 milioni!

L’avventura militare di Putin in Ucraina rischia di trasformarsi in disfatta innanzitutto per ragioni di carattere bellico. L’esercito russo risulta, alla prova dei fatti, meno potente e meno efficiente di quello che la propaganda, sia russa che filoamericana, cercavano di farci credere e, a sua volta, l’esercito ucraino risulta meno “sgarrupato” di quanto sempre le reciproche propagande volevano farci credere. Ma il vero tallone d’Achille della Federazione Russa è un’economia debole. Vediamo alcuni dati. Nel 2021 la Russia ha realizzato un PIL di circa 1.500 miliardi di euro, più basso quindi di quello italiano; il PIL pro capite è di poco superiore agli 11.000 euro annui, circa un terzo di quello italiano.

Struttura dell’economia russa

Il settore agricolo è ancora molto arretrato. C’è abbondanza di terre ma soltanto il 7,5% dei terreni coltivabili sono messi a coltura. Nonostante ciò la Russia è diventata esportatrice di materie prime agricole, dal grano ai mangimi, ai semi oleaginosi.

La Russia è un paese dotato di ogni sorta di ricchezza naturale: petrolio, gas, carbone, nichel, cromo, cadmio, uranio, vanadio, tungsteno, rame, ferro, titanio, bauxite, platino, diamanti, oro, argento, legname.

L’abbondanza di risorse naturali, a cominciare dagli idrocarburi, negli ultimi trent’anni ha portato quel paese, dopo il passaggio dall’economia pianificata sovietica all’economia di mercato, a specializzarsi nella produzione ed esportazione di materie prime soprattutto energetiche. Le esportazioni di gas e petrolio rappresentano più del 60% dell’export russo e circa un terzo delle entrate fiscali dello Stato. Il capitalismo russo è in buona parte quello che è stato definito un “capitalismo di rendita”, basato sullo sfruttamento delle materie prime principalmente energetiche.

Non soltanto l’andamento del PIL dipende dal prezzo di petrolio e gas sui mercati internazionali, ma anche il bilancio dello Stato dipende in maniera importante dalle tasse sull’estrazione e sull’export dei prodotti energetici. Il risultato è che l’economia russa è fortemente dipendente dai mercati internazionali, a differenza di quella dell’Urss che aveva costruito un sistema economico alternativo a quello capitalistico. All’interno dello spazio economico dei cosiddetti paesi socialisti si era costruito un sistema economicamente e tecnologicamente autonomo, non dipendente dagli andamenti delle economie capitalistiche. La Federazione Russa invece è pienamente inserita nei processi di globalizzazione che sono avvenuti in questi ultimi trent’anni, ma il ruolo che gioca in quelle che sono le catene globali del valore è quello di un paese che fornisce commodities, cioè materie prime energetiche, minerarie e agricole al mercato globale, e la cui economia dipende in maniera strutturale dall’andamento dei prezzi di queste materie prime sui mercati internazionali. Qualcuno, in maniera forse un po’ esagerata, ha definito la Russia una “Nigeria con la neve”, a indicare un paese ricchissimo di materie prime e capace di esportarle allo stato grezzo ma con una struttura produttiva debole.

La Russia ha una struttura industriale molto forte e concentrata in alcuni settori dell’industria pesante: siderurgia, armamenti, cantieristica, trasporti; o in alcuni settori avanzati come l’aeronautica e la cosmonautica. Per il resto produce poco e importa quasi tutto.

La struttura dell’economia russa è basata, poi, su grandi aziende sia statali che private, ma di proprietà di oligarchi legati al potere politico. Negli altri paesi capitalisti la struttura produttiva è più articolata e un contributo fondamentale lo danno le piccole e medie imprese, come avviene, per esempio, in paesi come la Germania o ancor più in Italia. Una struttura produttiva basata su piccole e medie imprese serve anche a costruire una classe media ampia e, quindi, a dare una maggiore articolazione alla struttura sociale di un paese. In Russia le piccole e medie imprese producono il 20% del PIL, contro una media tra il 50 e il 60% nei paesi dell’Europa occidentale, e inoltre le piccole imprese russe sono concentrate in prevalenza nel settore dei servizi, per esempio la distribuzione commerciale o le piccole attività artigianali, poco invece nelle attività industriali, nei settori tecnologici o nelle startup. Ciò implica un minor grado di innovazione, minore dinamicità del sistema produttivo che finisce per essere concentrato, come dicevamo prima, più sulla rendita che non sulla creatività e sull’ingegno.

A ciò si aggiungano l’elevato livello di burocrazia, eredità del sistema sovietico, una  corruzione pervasiva presente a qualunque livello, un sistema giudiziario che dipende strettamente dal potere politico, quindi tutt’altro che imparziale.

Un altro problema strutturale della Russia è la carenza di infrastrutture. In un paese così grande costruire un sistema efficiente di trasporti, dalle ferrovie alle strade, implica investimenti colossali e la carenza di infrastrutture adeguate resta un problema storico che esiste dall’epoca zarista, in parte affrontato in epoca sovietica, ma che nella nuova Federazione Russa sconta la mancanza di risorse finanziarie per intervenire in maniera adeguata. Le infrastrutture carenti sono un ostacolo non da poco alla crescita economica di un paese.

“La grande illusione”

Normann Angell, politico britannico vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento, nel 1933 ottenne il premio Nobel per la Pace per il suo forte impegno antimilitarista. Nel 1910 pubblicò un saggio che ebbe all’epoca un notevole successo, tradotto in più di 25 lingue e vendette milioni di copie. Si intitolava The great illusion, la grande illusione. La tesi centrale sostenuta in quel saggio era che la sempre maggiore interdipendenza economica tra i paesi, favorita dalle politiche liberiste, dallo sviluppo tecnologico e dalla crescita dei commerci avrebbe reso obsoleta la guerra. Non aveva più alcun senso conquistare militarmente un paese per conquistarne il mercato, quando lo si poteva fare pacificamente con gli strumenti del libero scambio. La tesi era suggestiva, e questa fu la ragione del suo grande successo, ma fu ampiamente smentita dalla storia. Quattro anni dopo, nel 1914, l’intera Europa precipitava nella Prima Guerra Mondiale, la prima grande carneficina del Novecento.

Nel testo di Angell si sviluppava una vecchia idea, quella che i confini se non sono attraversati dalle merci vengono attraversati dagli eserciti. In pratica, l’interdipendenza economica può essere un forte antidoto contro lo scoppio di conflitti militari. A volte è così, ma non sempre è così.

Un’idea simile ha animato negli ultimi quindici anni la politica dell’Unione Europea. Aumentando l’interdipendenza economica tra Europa Occidentale e Russia si ottenevano due risultati: uno economico, e uno politico. La Russia forniva materie prime, soprattutto energetiche, a buon prezzo e con quello che incassava comprava prodotti europei: auto tedesche, cosmetici francesi, vini italiani, moda e abbigliamento ma anche macchinari e tecnologia, e i turisti russi si riversavano verso i paesi europei spendendo i loro risparmi nelle località di villeggiatura e nei negozi delle nostre città.

Quella scelta è stata annichilita dall’aggressione all’Ucraina lo scorso 24 febbraio. Abbiamo scoperto che dipendere in maniera strutturale dalle forniture energetiche russe ci mette nell’imbarazzante situazione di continuare a finanziare la guerra di Putin, perché non possiamo permetterci di chiudere i rubinetti del gas altrimenti dovremmo chiudere le nostre aziende, fermare il nostro sistema industriale, il sistema dei trasporti e tornare a riscaldarci con la legna. Quindi, era sbagliata quella strategia? No, l’errore più grossolano è stato pensare che il benessere economico e l’interdipendenza commerciale non rendessero più necessaria la politica. Il conflitto in Ucraina non è scoppiato il 24 marzo del 2022, ma nel 2014 e per troppi anni abbiamo finto di dimenticarcelo: quel problema è stato lasciato incancrenire finché non è degenerato, mettendo a rischio il benessere di tutti. Il problema è stato quello di pensare che l’economia potesse risolvere qualunque problema ed evitare qualunque conflitto; il problema è stata l’assoluta mancanza di lungimiranza delle classi politiche europee che hanno perso capacità di visione e di iniziativa. Putin probabilmente si poteva fermare con la diplomazia, ma ci sarebbero volute personalità politiche di altro livello e altre capacità.

Le sanzioni economiche occidentali stanno colpendo pesantemente l’economia russa, e gli effetti si vedranno nei prossimi mesi. Per il 2022 si prevede un calo del PIL attorno al 10%, la Banca Centrale è già stata costretta a portare i tassi d’interesse dal 9,5% al 20%, l’inflazione è ormai a due cifre. Il rublo ha perso valore, anche se il suo corso è stato riportato ai livelli precedenti allo scoppio della guerra con artifici finanziari. Molte aziende occidentali hanno chiuso i loro stabilimenti in Russia e licenziato il personale. Ora, è vero che i russi sono più abituati degli europei occidentali a tirare la cinghia, è vero che il nazionalismo è un sentimento molto diffuso e ampiamente sfruttato dal regime di Putin per accrescere i suoi consensi, ma fino a quando la popolazione russa sarà disposta a sacrificarsi per sostenere le manie di grandezze di Putin e della sua cerchia di invasati?

L’orso russo nelle fauci della tigre cinese

Un ulteriore problema, di non poco conto, è che dopo la rottura politica con l’Occidente la Russia verrà tagliata fuori dalle catene globali del valore, soprattutto per quel che riguarda i prodotti a tecnologia avanzata, costringendo quel paese a rivolgersi alla Cina e a dipendere sempre più da Pechino, per esempio nel campo delle telecomunicazioni. Questo fatto avrà una ricaduta anche sull’efficienza e sul grado di avanzamento tecnologico delle forze armate russe, che vedranno aumentare il divario con l’Occidente.

Il rischio è che la Russia, strozzata economicamente dall’Occidente, impelagata in una guerra di logoramento in Ucraina, finisca per consegnarsi armi e bagagli alla Cina. La Cina, che ha da sempre mire sugli immensi e ricchissimi territori siberiani che sono contigui al suo territorio. La Cina, che è diventata la fabbrica del mondo, e se potesse aver accesso facilitato alle immense risorse energetiche e minerarie della Siberia potrebbe mettere il turbo ai suoi progetti di sviluppo e accrescere ancor più la sua potenza economica. Il rischio per Putin è quindi che, per salvare l’economia del suo paese, sia costretto a mettere la testa dell’orso russo nelle fauci della tigre cinese. Sarebbe una fine beffarda se chi pensava di riesumare la potenza imperiale russa finisse per trasformare il suo paese in un vassallo della Cina.

Questo rischio dimostra anche l’insipienza dell’Occidente e degli Stati Uniti che, invece di continuare a prendere la Russia a calci negli stinchi avrebbero dovuto, più strategicamente, cercare di attirare quel paese nella sfera occidentale staccandolo dalla Cina. Un duplice errore, occidentale e russo, di cui a lungo termine è possibile, o quantomeno probabile, che si avvantaggi la Cina.

Un’ultima questione riguarda un problema che abbiamo accennato, quello degli oligarchi. La domanda che sorge spontanea è: perché un paese come la Russia, che sulla carta avrebbe enormi potenzialità di sviluppo, non è riuscito negli ultimi tre decenni a imboccare con decisione la strada della crescita economica? Se pensiamo a quel che è accaduto negli ultimi trent’anni in Cina o in altri paesi asiatici che hanno avuto tassi di crescita strabilianti, sorge spontaneo chiedersi perché in Russia la transizione dall’economia pianificata di tipo sovietico a un’economia di mercato non abbia funzionato o abbia prodotto quantomeno risultati deludenti. Nella prossima puntata ci occuperemo di come fu realizzata la transizione dal comunismo al capitalismo, di come siano nati e chi sono i cosiddetti “oligarchi” che sostengono Putin e controllano larga parte dell’economia russa.

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