Gli effetti economici delle pestilenze: la “peste” antonina
Scritto da Pasquale Angius in data Gennaio 24, 2022
Nella seconda metà del II secolo d.C. la peste antonina devasta l’Impero Romano: ci vorranno decenni per ricostruire l’economia e ritrovare una nuova stabilità politica.
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La peste antonina
Oggi ci occuperemo delle conseguenze economiche delle pandemie, ma non parleremo della pandemia che stiamo vivendo da due anni a questa parte, quella da coronavirus. Faremo un piccolo excursus storico su una delle più tremende pandemie del passato.
Gli esseri umani sono affetti spesso, senza rendersene conto, da quella che alcuni psicologi hanno chiamato la just world fallacy, tradotta in italiano come “ipotesi del mondo giusto”, un bias cognitivo (distorsione cognitiva) che si basa su pregiudizi e presupposti errati. Noi ci convinciamo, sin da bambini, che nella nostra vita esista una sorta di “giustizia immanente”: chi si comporterà bene prima o poi sarà premiato e chi si comporterà male prima o poi verrà punito. Questa distorsione della realtà ci porta a credere che quel che accade nel mondo, e nella nostra vita, sia determinato esclusivamente dal nostro comportamento e dalle nostre scelte: purtroppo non è così. Tale distorsione cognitiva spiega anche fenomeni che potrebbero sembrare abnormi, o quantomeno paradossali. Se crediamo che il nostro destino sia determinato esclusivamente dai nostri comportamenti, significherebbe che se uno è ricco se lo merita, ha agito nella maniera corretta; viceversa se uno è povero anche lui se lo merita, avrà fatto delle scelte sbagliate. Questo spiega perché spesso chi è ricco non prova alcuna empatia, compassione o comprensione per chi è povero, come quel fenomeno connesso che, sempre gli psicologi, hanno chiamato victim blaming, la colpevolizzazione della vittima. Se una donna ha subito una violenza sessuale forse se l’è cercata; se qualcuno ha subito una rapina forse ha favorito i ladri; se qualcuno ha avuto sfortuna nella vita probabilmente era una persona cattiva, e via di questo passo. Molteplici sono gli esempi che si potrebbero fare, ma il problema è che spesso applichiamo questo bias cognitivo anche all’interpretazione della storia facendo così fatica ad accettare che nella storia dell’umanità ci siano forze ed eventi che vanno al di là della possibilità del controllo umano. Le pandemie rientrano tra queste: sono eventi imprevedibili, molto democratiche, nel senso che colpiscono tutti indistintamente, poveri e ricchi, istruiti e ignoranti, belli e brutti, giovani e anziani, abbiamo grandi difficoltà a contenerle e a sconfiggerle persino oggi, che viviamo in una società avanzata da un punto di vista scientifico e tecnologico.
Aggiungiamo a tutto quanto detto che soltanto da alcuni decenni gli storici dell’economia hanno cominciato a dedicare le loro ricerche anche a ricostruire e valutare quali siano state le conseguenze economiche delle pandemie del passato. Il tema è rimasto confinato nei dibattiti e negli studi accademici fin quando il Coronavirus non ci ha posto di fronte a qualcosa di inaspettato, costringendoci a guardare al passato nel tentativo di capire meglio, se non il futuro, quanto meno il presente.
Peste o vaiolo?
Ci occuperemo oggi di quella che è passata alla storia con il nome di “peste antonina”. Il termine peste veniva utilizzato nel mondo preindustriale per definire tutta una serie di morbi di cui era sconosciuta l’eziologia. Secondo la maggior parte degli storici la peste antonina altro non fu che un’epidemia di vaiolo.
Dobbiamo tornare indietro nel tempo, al secondo secolo dopo Cristo. L’Impero Romano era all’apice del suo fulgore e ai suoi vertici c’era un uomo di grandi capacità e di grande visione politica: Marco Aurelio. Per chi conosce Roma, una sua statua equestre − una copia dell’originale ovviamente − campeggia nella piazza del Campidoglio. Per chi ha visto il film “Il Gladiatore” si tratta dell’imperatore che compare all’inizio del film e che, nella finzione cinematografica, verrà assassinato dal figlio Commodo, impaziente di conquistare il potere. Nella realtà storica, invece, Marco Aurelio morì mentre conduceva una campagna militare contro le popolazioni germaniche del “barbaricum”, i territori ostili al di là del Reno e morì anche lui di vaiolo. Era da alcuni decenni che imperversava proprio quella che fu chiamata “peste antonina”, facendo riferimento alla famiglia imperiale alla quale anche Marco Aurelio apparteneva, quella degli Antonini.
Quel terribile morbo pare provenisse dall’Oriente. Nel 165 d.C. le legioni romane pongono sotto assedio Seleucia, una città che si trovava poco più a sud dell’odierna Baghdad e che faceva parte dell’Impero dei Parti, l’altro grande impero che sfidava Roma lungo i suoi confini orientali. A guidare l’armata romana c’è un abile generale: Romano Avidio Cassio. Seleucia viene conquistata, i Romani attraversano il fiume Tigri e convergono sulla capitale dell’impero partico Ctesifonte, che viene a sua volta conquistata e distrutta. I romani sono vittoriosi ma saranno costretti a ritirarsi da un nemico invisibile. Molti soldati vengono colpiti da una malattia sconosciuta che provoca prima febbri molto elevate per poi manifestarsi con eruzioni cutanee che si trasformano in pochi giorni in vesciche purulente. Centinaia di soldati muoiono mentre le truppe si ritirano ad Antiochia, la capitale romana della provincia di Siria. Da lì il morbo si diffonderà in tutto l’impero e in pochi anni raggiungerà tutto il bacino del Mediterraneo, anche la Gallia e il Reno. La globalizzazione in epoca romana era determinata dagli intensi traffici commerciali tra le diverse province dell’impero, e dalle legioni che si spostavano da un territorio all’altro per affrontare le minacce esterne lungo il “limes”, il lunghissimo confine che partiva dalla Britannia, passava lungo il corso del Reno e del Danubio e arrivava fino alla Mesopotamia e al Nord Africa. Il contagio si diffuse quindi tramite i mercanti e i soldati.
Le conseguenze economiche della peste
La peste antonina imperverserà per alcuni decenni, causerà milioni di morti e disarticolerà l’economia dell’impero. Secondo le stime di alcuni storici scomparve, a causa di quel morbo, tra il 10% e il 20% della popolazione.
La ricerca storica e l’archeologia si avvalgono, oltre che di fonti dirette, testimonianze di storici o altri che hanno lasciato documenti scritti, di metodi scientifici che consentono, anche in mancanza di fonti storiche certe e dirette, di ricostruire a grandi linee gli eventi accaduti nel passato. Diverse ricerche hanno dimostrato che nel periodo successivo al 165 d.C. nell’Impero Romano ci fu una drastica riduzione del numero di alberi tagliati. Gli alberi venivano tagliati per due fondamentali ragioni: farne legname da utilizzare nella produzione di manufatti di vario genere, oppure per fare spazio a nuovi terreni da mettere a coltura. Se improvvisamente si riduce in maniera significativa la quantità di alberi tagliati se ne può dedurre che l’economia e la popolazione sono in declino.
Negli ultimi decenni del II secolo d.C. anche la produzione delle miniere d’argento diminuisce bruscamente. In diverse zone dell’Impero, nello stesso periodo, raddoppia il numero di lapidi per seppellire i morti sulle quali veniva riportato il marchio di fabbrica dei produttori, consentendoci di risalire al periodo della sepoltura.
Diversi papiri provenienti dall’Egitto, all’epoca una delle più prospere regioni dell’impero, documentano che dopo il 165 d.C. ci fu una drastica riduzione del numero dei contribuenti, cioè di coloro che erano tenuti a pagare le tasse, segno di un improvviso aumento della mortalità. Sempre in Egitto, nello stesso periodo, è documentata una forte riduzione dei contratti di affitto agricolo: in pratica non si trovava più manodopera per coltivare i campi in quanto la popolazione era stata decimata dalla pandemia.
La pandemia causò, dunque, una riduzione della popolazione, il declino della produzione agricola e, conseguentemente, anche di quella artigianale ed edilizia, come pure i commerci ne furono rallentati. Quella crisi economica, che durò diversi decenni, ebbe anche devastanti conseguenze a livello politico e militare.
Durante il regno di Marco Aurelio si verificano una serie concomitante di fattori: la necessità di far guerre contro le tribù germaniche che premevano sui confini occidentali dell’impero da un lato e, dall’altro, la necessità di far fronte alla minaccia dell’Impero dei Parti sul limes orientale, in Mesopotamia. Le guerre però costano, bisogna arruolare nuove legioni, pagare regolarmente i soldati, altrimenti non solo non combattono ma potrebbero anche rivoltarsi contro chi li comanda. Secondo gli storici, il bilancio dell’Impero Romano era assorbito per una cifra compresa, a seconda dei periodi, tra la metà e i tre quarti delle risorse, dalle spese militari. Ma la peste antonina falcidia la popolazione, deprime l’economia e riduce anche le entrate fiscali dello Stato, in un momento storico nel quale invece le spese militari esplodono. Come viene affrontato il problema? Con una soluzione classica: l’inflazione. Si cominciano a coniare monete con un contenuto di oro e di argento sempre più basso, anche se il valore facciale resta lo stesso. Questo meccanismo funziona per un po’, fin quando la gente non si rende conto della situazione. Appena i mercanti capiscono che il peso delle nuove monete è cambiato perché si è ridotto il contenuto di oro o di argento, cosa fanno per recuperare valore? Semplice, aumentano i prezzi.
L’inflazione
Ma l’inflazione causa un problema grave, in un’economia antica dove non esisteva il concetto moderno della spesa in deficit. Se le tasse che vengono raccolte dai contribuenti non sono più sufficienti per pagare le legioni perché i prezzi sono aumentati e quindi anche i salari debbono aumentare, le uniche due cose che si possono fare sono o aumentare le tasse, fatto che ha sempre un effetto depressivo sull’economia, oppure ridurre ulteriormente la quantità di metallo prezioso contenuto nelle monete di nuovo conio, finendo quindi per alimentare ulteriormente l’inflazione. L’aumento dell’inflazione si ripercuote negativamente su chi percepisce uno stipendio fisso, e nell’antica Roma erano i funzionari della pubblica amministrazione, non moltissimi, ma soprattutto i soldati. Per salvaguardare l’impero c’era necessità di mantenere un esercito permanente costituito, a seconda dei periodi storici, da 300.000 fino a un massimo di 500.000 soldati. Soldati che dovevano essere pagati regolarmente, dovevano essere armati, riforniti di cibo, vestiario e tutto quanto occorreva per vivere e condurre le campagne militari.
La paga dei soldati era rimasta ferma praticamente dai tempi di Augusto fino alla seconda metà del II secolo, fissata a 300 denari l’anno. Fino al regno di Marco Aurelio, un’altra fonte importante di guadagno per i soldati era costituita dalla possibilità di saccheggio nelle campagne militari oltre confine. Le spedizioni punitive contro le tribù germaniche nel centro Europa, per esempio, procuravano molti schiavi che venivano rivenduti dando ai soldati un’importante integrazione ai loro salari. Ma a partire dalla seconda metà del II secolo questa possibilità di guadagno si riduce perché le tribù germaniche si organizzano e si federano per affrontare meglio la potenza romana, le loro capacità militari migliorano e così il numero di prigionieri che i romani riescono a fare si riduce gradualmente.
Si innescò quindi, negli ultimi decenni del II secolo, una spirale negativa di pericoli alle frontiere, pandemia, crisi economica, aumento delle spese militari, riduzione delle entrate fiscali e inflazione. Questo insieme di problemi precipitò l’Impero in un periodo di grande instabilità politica e militare.
Verso la fine del secolo l’imperatore Settimio Severo, per garantirsi la fedeltà delle truppe, decise di aumentare notevolmente la loro paga, accrescendo ulteriormente la spesa pubblica che fu finanziata riducendo la quantità di argento contenuto nelle monete e causandone una loro svalutazione.
La “furbata” di Caracalla
Anche il suo successore, suo figlio Caracalla, aumenterà nuovamente la paga dei soldati svalutando ulteriormente la moneta. Caracalla tentò anche quella che potremmo definire una “furbata”, cioè inventò una nuova moneta che fu chiamata “antoniniano” con un contenuto di argento superiore in percentuale rispetto al denarius. Nel denarius, la moneta base dell’Impero Romano, la percentuale di argento era del 46% mentre nell’antoniniano del 51%, quindi superiore. Purtroppo però, la nuova moneta, che aveva un valore facciale di 2 denari, pesava in realtà un denarius e mezzo.
Facciamo rapidamente due conti per capire meglio. Il vecchio denarius pesava 3,23 grammi e conteneva 1,46 grammi d’argento. Il nuovo antoniniano pesava 4,4 grammi e aveva 2,25 grammi di argento ma valeva 2 denari. A parità di valore il contenuto di argento del nuovo antoniniano avrebbe dovuto essere quello contenuto in due denari cioè 1,46 grammi per due, cioè 2,92 grammi d’argento, ma in realtà ne conteneva soltanto 2,25, circa il 25% in meno. Con questa riduzione fu possibile, con la stessa quantità d’argento, produrre un 25% in più di monete. Un escamotage che sarà sembrato molto astuto a chi lo inventò, ma che fu ben presto compreso da tutti e quindi non risolse nessun problema ma finì per alimentare ulteriormente l’inflazione.
Ma Caracalla fece un’altra grande innovazione sia politica che economica. Estese la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero. Era certamente un provvedimento di grande civiltà giuridica. Nel 212 d.C. con l’emanazione della Constitutio Antoniniana fu cancellata qualunque differenza tra conquistatori e conquistati. Precedentemente la cittadinanza era stata estesa a tutti gli abitanti dell’Italia nel I secolo a.C e poi, progressivamente, veniva concessa o a singoli per meriti speciali o ai ceti dominanti delle province, che in questo modo venivano inglobati nel sistema di potere romano. La cittadinanza romana aveva una valenza giuridica ma non aveva valenze etniche o nazionalistiche. Ai tempi di Caracalla soltanto il 30% della popolazione dell’Impero godeva della cittadinanza, per cui estendendola a tutti si eliminava una grande discriminazione giuridica tra cittadini e cosiddetti “peregrini”, cioè non cittadini, conseguendo inoltre anche un importante risultato politico: ora tutti si sentivano cittadini dell’Impero, dalla Britannia alla Siria, dall’Egitto alla Dacia, dalla Libia all’Illirico, l’identità romana riguardava tutti, indipendentemente da origine etnica, credo religioso, lingua parlata. L’estensione della cittadinanza rese possibile per tutti l’accesso alle cariche pubbliche o ai ranghi dell’esercito e dunque anche l’accesso alle massime cariche dello Stato.
Ma c’era una seconda ragione, di natura economica, che aveva spinto Caracalla verso la concessione della cittadinanza e si trattava di una una ragione fiscale. I cittadini romani erano contribuenti, quindi tenuti a pagare le tasse e così l’estensione della cittadinanza a tutti allargò di molto la base imponibile. Ora nessuno poteva più sfuggire agli artigli del fisco!
Ci vorranno ancora alcuni decenni per superare i danni economici causati dalla peste antonina. Alcuni storici ritengono che i problemi economici che si manifestarono in quel periodo furono una delle cause che porteranno, un paio di secoli dopo, alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Il dibattito sulle ragioni della caduta dell’impero romano è ancora aperto e sono state individuate decine, se non centinaia, di teorie diverse sulle ragioni di quel grande evento, e non ci addentreremo in un territorio così complesso e accidentato, ma è indubbio che ci vollero decenni per riportare un po’ di equilibrio, per rimettere in sesto i conti. Ci riuscirà, nella prima metà del III secolo, una sequenza di imperatori soldati di origine illirica, i più famosi dei quali furono Aureliano e Diocleziano. Le loro riforme, politiche ed economiche, consentirono all’Impero Romano d’Occidente di resistere altri 150 anni, mentre l’Impero Romano d’Oriente, che poi diventerà Impero Bizantino, resisterà per altri 1.000 anni.
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