Il tempio e il tassista

Scritto da in data Luglio 4, 2019

Sono ricordi sfumati quelli che mi legano a Ulan Udè: non era stata una scelta consapevole. Mi sono persa il percorso lungo il Baikal durante il giorno ma ho visto un tempio in Buriazia e la scultura eccentrica che ritrae il volto di Lenin in dimensioni eccessive. Ricordo un tassista gentile e curioso, con la voglia di spiegare, raccontare, accogliere una straniera nel suo Paese.

Ricordo le contrattazioni sul prezzo, i cilindri per la preghiera e una notte sola su un treno per Ulan Bator.

Altri treni

Altri treni, stavolta due, e altri letti e cuccette, e compagni di viaggio. Ho viaggiato solo di notte, rinunciando a vedere il Baikal dal mio finestrino un po’ inconsapevolmente, per potermi fermare a Ulan Udè e per poter avere più giorni a disposizione. Ero rimasta più di quanto previsto sull’isola di Olkhon, decidendo di restare: a Mosca mi era successo per un caso, per un treno pieno, per un procrastinare continuo nell’acquisto del biglietto. A Mosca grazie a quel lento rimuginare mentale, sono riuscita a innamorami di una città a prima vista a me ostile, sono riuscita a divertirmi in coda in stazione per prenotare un posto in treno, mentre le signore dietro di me ripetevano a voce alta frasi in russo che avrei dovuto comprendere. Sull’isola, invece, ho scelto di rimanere e di non avere fretta, smania, voglia di andarmene.

Ricordo la frenesia di Paul, la sua scarsa pazienza e la sua voglia incontenibile di poter prendere il primo minibus per il porto, quando il servizio si fosse ripreso. Eravamo bloccati, quindi inizialmente ho subito la situazione, ma ne ero felice e quando Paul è venuto a cercarmi: «sta partendo, ci sono posti» avvisandomi che finalmente uno dei minibus si era liberato – quelli prima si erano riempiti in pochi secondi – ho detto con molta calma che non sarei partita. Non riuscivo a staccarmi da quel luogo, nemmeno con la prospettiva di godermi il lago da altri punti di vista.

Le trasformazioni della Buriazia

Il biglietto per Ulan Udè lo avevo già fatto, indovinando i tempi senza conoscerli. Non sarei rimasta a dormire in città ma avrei potuto visitarla grazie a un secondo treno notturno per Ulan Bator: avevo tutto il tempo per vedere templi, chiese e la faccia enorme di Lenin che riempie una delle piazze della terza città della Russia orientale. Sono in Buriazia, una regione autonoma, in cui i lineamenti e la cucina si fanno sempre più mongoli: non è stato un brusco cambiamento, come spesso capita viaggiando in aereo. Le trasformazioni di colori, paesaggi, cibo e volti sono state graduali, come il cambio dell’ora. Durante questo viaggio gli orari di partenza e di arrivo dei treni erano ovunque indicati con l’orario di Mosca: una cosa curiosa, che obbliga a fare conti per non sbagliare. Ora hanno tolto la regola e ciascuno segue il proprio fuso.

Straniere curiosità

A Ulan Udè ricordo di aver fatto avanti e indietro per la città diverse volte, ho comprato un paio di pantaloni grigi per sostituirne un paio rotti, ho visto una chiesa ortodossa senza cercarla e ho contrattato a lungo con un tassista per farmi portare al tempio buddhista – che si chiama datsan (Ivolginsky) – più importante della regione. Ho contrattato a lungo con lui per farmi portare a un prezzo decente – non ricordo quale – fino al tempio, aspettare con me, riportarmi in stazione. La strada è stata lunga, in auto ricordo di aver pensato che avrebbe potuto portarmi chissà dove, in fondo non credo che fosse un tassista regolare. Invece mi ha parlato di lui con estrema dolcezza, con un modo che ricordo amichevole e profondo: restando in una dimensione rispettosa, non eravamo cliente e fornitore, ma due stranieri l’uno per l’altro, curiosi l’uno dell’altro. Al tempio mi ha spiegato che i cilindri con le scritte erano per le preghiere, mi ha indicato il senso in cui farli girare e come io dovevo girarci attorno. Mi ha guidato, senza che io chiedessi niente, facendomi da Cicerone orgoglioso dei suoi luoghi e della sua terra.
Non ricordo la conversazione avuta con lui e ho cercato ovunque una traccia scritta di quel momento: non ho preso appunti, non so cosa mi ha detto della sua vita, della fede, del suo lavoro. Non ricordo se fosse sposato né quanti figli avesse. Ma sono certa che una famiglia, una foto di famiglia deve avermela mostrata.

Direzione Mongolia

Il tempio non era uno solo, questo lo ricordo, era come una specie di parco con tanti piccoli tempietti sparsi. Quella giornata è sfumata nella mia memoria: forse per la stanchezza, forse per la sosta nell’attesa di un altro treno che spesso non ti fa stare nel presente, nel qui e ora tanto caro al buddhismo. Non era particolarmente bello, comparato ai ricordi che avevo della Thailandia, ma nella sua imperfezione, nel suo carattere quasi trash, quel luogo riusciva ugualmente a trasmettere sacralità, a modo suo. In città ho semplicemente passeggiato osservando: venditori ambulati, chiese, funzioni religiosi, statue, sculture enormi di Lenin, locali della globalizzazione, una via larga e pedonale, la stazione, ho mangiato a caso.

Ho controllato più volte il biglietto del treno e quando sono salita ho scoperto di essere sola nello scompartimento: nessuno andava a Ulan Bator quella notte. Avremmo dovuto attendere alla frontiera: avevo il visto e il passaporto a portata di mano. Era la notte del 14 agosto, il 15 sarei arrivata in Mongolia per starci una settimana prima di procedere per Pechino, la fine del mio lungo viaggio. Ero a poco più di metà percorso come giorni e a pochi – relativamente pochi – chilometri dall’arrivo.

Il 15 agosto sarei stata in un posto denso, come ogni anno: alle cascate di Foz do Iguaçu in Brasile, a Leon durante il Cammino di Santiago, a Londra nel 2013, a Kanyakumari nel 2011 e poi a Kolo nel 2017 e a Mekellé per Ashenda nel 2018.
Nel 2016 avrei festeggiato a Ulan Bator: dicono – lo dicono davvero – che sia la città più brutta del mondo.

In copertina, foto di Eleonora Viganò

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