Quando finisce un giorno?

Scritto da in data Giugno 6, 2019

72 ore – anzi di più – sono lunghe, ripetitive, dense e diverse. Riaffiorano ricordi di altri viaggi, di acquisti, di infanzia mentre un uomo dell’Azerbaigian sorride con denti marci e di metallo, Nathalia – che viaggia con sua figlia di 12 anni – racconta i motivi della separazione, un uomo grasso e malato tocca i fianchi a sua moglie cercando le sigarette: sputacchia, beve. È evidente che si amano, in qualsiasi lingua. Siamo in pigiama e infradito, stiamo vestiti comodi, sistemando il letto: il solo spazio a disposizione insieme a un piccolo tavolino, in basso. La gente sale e scende a qualsiasi ora: quando finisce un giorno? – Seconda parte.

Abbiamo fatto una sosta molto lunga a Perm-2: siamo arrivati poco prima che tramontasse il sole ed è salita qui una nuova amica. Si chiama Nathalia, parla inglese, ha una figlia di 12 anni – Veronika – ed è nata il 10 luglio 1982. Lei si fermerà ad Omsk per andare a trovare la sua famiglia. Mi spiega i motivi della sua separazione. «Mio marito» mi dice «non riesce a stare da solo: parenti, amici, gente: aveva sempre la necessità di circondarsi di persone».

Sulla Transiberiana

Il mio telefono mi dice che ci siamo mangiati un’altra ora. Sono le 23:20. Il fuso orario mi disorienta, in treno. Individuo l’ora del tramonto, a spanne. Mangio a caso, anche per golosità o “noia” che non lo è. Non penso di aver avuto momenti di noia in questi due giorni. Stanotte ho salutato con trasporto e una stretta di mano Eva, suo marito – malato e sofferente – e il ragazzo. Ricordo che a un certo punto – nel corso della giornata – ero seduta di sotto, accanto a lei. Lui era di fronte, sul letto con il ragazzo dai capelli neri, che guardava fuori: non ha mai parlato molto, nemmeno con loro in russo. Avrei voluto fermare l’immagine, fare una foto: lui verso il finestrino; marito e moglie l’uno verso l’altro. O ancora quando il ragazzo dormiva e loro mangiavano e bevevano sul tavolino lì accanto.

Ricordo – dicevo – che in quel momento lui – l’uomo grasso e malato – si è avvicinato alla moglie toccandole i fianchi: cercava solo le sigarette. Solo quelle. Ma i fianchi ha continuato a toccarli, senza pigiare troppo con le mani, solo tocchi leggeri, in risposta alla reazione di lei, risoluta e imbarazzata. In quel momento oltre a quei gesti, gli occhi di lui si sono caricati di quell’amore che non è desiderio, ma nemmeno solo affetto. Si sono caricati per quei fianchi e per la reazione scomposta di Eva. Ecco: da lì in poi ho compreso la loro conversazione solo dai gesti e da una qualche parola. Lei lo ammoniva: le sigarette lì non c’erano. Ne aveva fumate già troppe. «Una sola, ancora, ne ho fumate solo cinque» risponde lui. Si calmano e si zittiscono.

Ekaterinburg

Sempre stanotte a Ekaterinburg sono saliti i miei nuovi compagni di “appartamento”. Un uomo dell’Azerbaigian, un po’ viscido, dai denti di metallo e gli altri marci, con gli occhiali spessi, i capelli neri e unti. Aveva la pancia, un classico, e una risata che sembrava mi stesse prendendo in giro. Era notte, avevo sonno, non capivo niente, avevo appena divorato una roba alla cipolla e volevo che nessuno rompesse per cambiare letto: voglio stare qui, costa anche di meno e io avrei pagato di più.
Insieme a lui un altro uomo, più nordico, dall’aria più pacifica. Non ricordo il nome e ne ho perso subito le tracce. Entrambi dovevano scendere a Novosibirsk, ma mentre il primo è sceso di corsa, quasi si stesse scordando, alla stazione precedente, dell’altro nessuna traccia. Il tizio dell’Azerbaigian voleva provare a parlarmi: qualche domanda solita, qualche tentativo scherzoso e mellifluo di provarci a gesti e risatine volgari, qualche cosa su euro e viaggio che non ho voluto capire appositamente. Non mi sembrava del tutto sicuro parlare di queste spese, mentre dormivo con un certo quantitativo di rubli ed euro sotto il cuscino.

Il letto

In fondo il secondo giorno è iniziato così: di notte. Mentre sistemavo il mio letto ho ripensato a quando da bambina costruivo “case” con i cuscini del divano. Mia sorella e io smontavamo il divano togliendo i grandi cuscini che compongono sedute e schienali e li mettevamo uno perpendicolare all’altro in modo da creare un tunnel. Quel tunnel era la casa, il rifugio, l’avventura: o almeno una sua idea. Mia sorella proseguì con più audacia nell’impresa, facendosi costruire da mia nonna sarta una tenda da giardino. Era di stoffa, triangolare aveva una “porta” che si chiudeva con un velcro. A terra mettevamo un materassino di gomma piuma.

Il mio letto era tutto ciò che avrei avuto per quattro notti e tre giorni. Sopra raccolgo in ordine i beni di prima necessità, in modo da averli a portata di mano, ma senza invadere o sporcare lo spazio. Eventuali biscotti, tazze, formaggini, pane, bevande, bustine di tè sono nello zainetto da passeggio o sul tavolino accanto al finestrino. Ho lo spazzolino pronto, un piccolo asciugamano fornito con le lenzuola e le salviettine per mantenermi pulita, almeno quanto basta. Sto in “pigiama” e infradito, vale a dire il più comoda possibile. Un vestito ampio ieri, una canottiera oggi che fa più caldo. L’abito l’ho comprato a Logrono, durante una delle prime tappe del Cammino di Santiago, perché non avevo nulla per il riposo e stare sempre con le magliette tecniche diventava fastidioso. Lì, mi sono concessa una abitino dalle maniche lunghe, verde, fiorato, di cotone leggero. Corto, da mettere con i leggings. Lo uso solo in viaggio. Stamattina ho la canottiera del Brasile, acquistata durante l’attesa prima di prendere un bus per Lencois, la cittadina colorata di ciotoli e ponticelli, di negozi ed ex-minatori, che consente di ammirare la Chapada Diamantina. In quel viaggio conobbi il francese rimasto nel cuore: sette ore di bus dalle 17:00 a mezzanotte, eppure non so nemmeno come si chiami. Qui ho acquistato un paio di pantaloni neri lunghi al ginocchio e una camicetta leggera beige: ero quasi senza vestiti.

Guardo fuori dal finestrino, mentre penso: le dacie sembrano state lanciate dalla mano di un giocatore d’azzardo, come dei dadi, non come un pizzico di sale. Come le casette del monopoli quando le distribuisci, come il risiko. I campi sono gialli, contornati da alberi verdi che nell’insieme e da lontano non sembrano più nemmeno così alti, l’orizzonte si vede sempre. Sembra secco e acquitrinoso allo stesso tempo. Il paesaggio non tradisce.

In copertina, foto di Eleonora Viganò

I Viaggi di Eleonora:

Tutte le tappe del viaggio in Russia.
Tutte le tappe del viaggio in Tanzania
Tutte le tappe del viaggio in Etiopia.
Potete ascoltare il nostro notiziario quotidiano, a cura di Barbara Schiavulli, Paola Mirenda e Cecilia Ferrara con i Balkan Bullets.

Ascolta anche:

E se credete in un giornalismo indipendente, serio e che racconta dai posti, potete sostenerci andando su Sostienici


[There are no radio stations in the database]