Kuzhir. Un non-luogo

Scritto da in data Giugno 27, 2019

La storia classica della mela non mi convince.
Più che in due metà uguali, in alcuni casi è stata suddivisa in tanti pezzi differenti per forma e dimensione. Sto andando a cercare questi pezzettini – o a spargerli.
Quello sull’isola di Olkhon è, a quanto pare, particolarmente grandicello.
Kuzhir non è bella.

È un insieme di case di legno a disposizione casuale, terra, polvere, fango, buche, caffè, negozietti e furgoncini. L’isola non ha quasi niente, ma tutto contribuisce a renderla affascinante. Ho fatto colazione non al bar, ma in famiglia, con zuppa di polpette e patate, insalata e tè con latte. Ho giocato a “mafia”, ho riso, sono uscita alla sera con Maria, che gestisce l’ostello per la stagione estiva, per assaggiare un pesce marinato e per ascoltare la sua vita, scoprendo gli universali: appena mangia pane o dolci ingrassa e si lamenta. Mi chiede se tornerò la prossima estate o se penso di andare a Mosca quest’inverno.
Mentre passeggio per l’ultima volta, con un sole caldo, sento un clacson e vedo mani che si agitano dal finestrino: «Bye Elenora».

La pioggia sull’isola

Le strade sono divenute fango con ricche pozze d’acqua, il cielo è sempre grigio. Mi incammino sotto la pioggia per mangiare qualcosa, a colazione: le auto non si muovono, le escursioni sono impossibili da fare. Molti hanno anticipato il rientro, riempiendo i minibus al completo. Sono sull’isola di Olkhon senza poterla vedere. Ho avuto in dono un tramonto e una serata limpida, prima che la pioggia trasformasse ogni sfumatura. La prima cosa a cui rinuncio è la lezione di yoga che mi ero aggiudicata grazie a una ragazza conosciuta in treno che stava andando proprio lì, a Kuzhir, la città principale dell’isola, per un ritiro. Al mattino mi preparo, mi incammino nel fango, osservo il cielo grigio, denso e allo stesso tempo etereo, come se non ci fosse il tempo: la lezione è saltata, non si fa. Rientrando all’ostello, conosco Elena, proveniente da Mosca, Paul, un ragazzo tedesco, e Alexandra, una donna buriata fidanzata con un ragazzo americano: Marina, la donna che gestisce l’ostello insieme a Maria, una giornalista di Mosca che in estate torna sull’isola dove vive sua madre, ci presta l’auto per andare a fare colazione. Mi unisco al gruppo, anche se solitamente preferisco la solitudine. La pioggia continua, si ferma, riprende: l’acqua non è forte né particolarmente fastidiosa. Il freddo lo si sopporta rifugiandosi nei baretti e i colori grigiastri e marroni non influiscono sull’umore, come avviene solitamente in una giornata di novembre a Milano.

Kuzhir

Kuzhir è bella senza motivo.
È bella nella sua aria fresca, nelle sue finestre colorate e nelle case di legno. Bella perché le strade sono di terra e fango e sono larghe e ampie e portano a un lago che si crede un mare. Kuzhir è bella per la sua roccia famosa, quella sacra e sciamanica, per la scultura che la precede. Fatta di semplici pali avvolti da nastri colorati, la sua presenza lascia senza parole per il suo essere magico e forte. Kuzhir è bella perché è vuota e piena, è polverosa e fangosa, è cristallina, verde, marrone e blu. È bella come una donna matura e stanca, come un uomo brizzolato. A Kuzhir è bello non fare niente: camminare se il tempo lo permette, vedere il lago, fare il bagno, mangiare, bere la vodka con i turisti russi. A Kuzhir, sull’isola di Olkhon, giace ancora allegro il mio pezzettino di cuore, insieme a una felpa che ho scordato in ostello. A Kuzhir d’inverno ci sono -50°C e 1.500 abitanti intenti a bere vodka. Sul lago ci si viaggia in auto, d’inverno.

Bicchierini di vodka

Quella mattina ci infiliamo in un hotel in cui possiamo fare la banja, la sauna russa, e assaggiare il pesce essiccato. Al ritorno l’auto si impantana nel fango ma continuiamo a sorridere, a parlare, a raccontarci perché siamo lì: Russia, Germania, Italia e Stati Uniti.
Alla sera gli ospiti russi dell’ostello ci invitano a fermarci per un bicchierino di vodka insieme. Molte famiglie russe, soprattutto di Irkutsk, trascorrono le vacanze estive qui: mi hanno accolto con curiosità, chiedendosi cosa facessi lì, in mezzo alla pioggia e al freddo. Mi hanno invitato ad assaggiare i piatti cucinati da loro, anche di tradizione buriata: una zuppa con polpette, un’insalata, pane, burro e affettato, patate, l’omul marinato. Al ristorante costruito all’interno di una ger, la tipica abitazione mongola, ho invece assaggiato i booze: dei ravioli enormi ripieni di carne e brodo e il tè con latte e sale, come lo fanno in Mongolia, di cui ormai si sentono gli influssi. Maria ancora oggi si ricorda dell’ultima notte, quando siamo scappate dall’ostello per mangiare un tipo particolare di pesce: «non l’hai ancora provato!» Mi dice, trascinandomi fuori. Ricordo anche di un pranzo con lei e Marina, in famiglia, prima della sola escursione che sono riuscita a fare quando ha smesso di piovere, il quarto giorno. Siamo state amiche, Maria e io, per quel breve periodo: non si può che essere amiche, se si mangia insieme il pesce di notte.

A piedi sotto l’acqua

Prima, però, è stato fondamentale decidere di restare: non è stato difficile non prendere il primo minibus, quando i trasporti hanno ripreso a funzionare, nonostante Paul ed Elena mi avessero cercato a lungo per avvisarmi: «noi partiamo, vieni?» No, non ne sono convinta. Resto ancora un po’.
Sono riuscita a girare l’isola sotto la pioggia incessante, la pioggia che travolge le tende di turisti accampati sulle rive e le spiagge del Baikal, che le rende piccole, insignificanti e indifese. La pioggia che ha bloccato i mezzi, le escursioni, i bagni e riempito bar, locali e ostelli. Ho camminato lungo la spiaggia e nei boschi vicini, con il mio kway rosa. Qui ho incontrato Richard, un uomo proveniente dall’Australia, in pensione, che viaggiava in lungo e in largo con calma e con tempi molto distesi e rilassati. Abbiamo camminato, parlato e fatto merenda in un bar di legno pieno di soprammobili strani.

Un lago che si crede mare

L’ultimo giorno il cielo si apre. Non torno, prenoto la famosa escursione verso nord, per vedere una piccola parte di isola e di Baikal. Resto per vedere distese uniformi, compatte e quasi metalliche che solo grazie al vento riescono a dire: siamo fatte di acqua. Le coste a picco su un lago che si crede mare permettono di vederlo dall’alto, creando strisce di colori: dal verde al marrone, insieme al blu e alla foschia grigia. Nel tempo rimasto prima della partenza ripercorro le vie di Kuzhir, cercando il motivo per cui possa piacermi un insieme di baracche dalle finestre colorate, il fango, le assi di legno, i piccoli negozi di souvenir, le bancarelle, i bar spogli e i furgoncini russi che non si sa da che parte decidano di andare e li devi scansare. Prima di partire abbraccio Maria: non me ne andrei, se potessi restare ancora.

Borscht e mirtilli della dacia

Il viaggio prosegue, si torna a Irkutsk dove prendo un treno per Ulan Udè e da lì – dopo 10 ore di attesa – un altro treno per Ulan Bator, la capitale della Mongolia. Di solito è più comune prendere un treno diretto, al mattino da Irkutsk, per godersi il panorama del lago e per fare un viaggio lungo che permette di integrarsi in quel mondo folle che si crea sul treno. Nel mio caso, complice la voglia di vedere uno dei più famosi templi (dazan) buddisti e la testona di Lenin, ho diviso il viaggio in due parti: due treni notturni. A Irkutsk una famiglia – lei dermatologa, lui commerciante, con una bambina di 3 anni – conosciuta sull’isola mi ospita per una doccia e un borscht caldo per cena preparato dalla madre di lei, per dolce una marmellata di mirtilli colti nella dacia. Era sabato e fino a lunedì mattina non sarei arrivata in ostello: quelle attenzioni erano meglio di qualsiasi giro in città.

In copertina, foto di Eleonora Viganò

I Viaggi di Eleonora:

Tutte le tappe del viaggio in Russia
Tutte le tappe del viaggio in Tanzania
Tutte le tappe del viaggio in Etiopia
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