La prima cosa che feci a Irkutsk
Scritto da Eleonora Viganò in data Giugno 20, 2019
Non erano né Irkutsk né Lystvyanka gli obiettivi di quel momento preciso. Dopo quelle ore per raggiungere la città cuore della Siberia, la città con l’aeroporto, le belle vie, i condomini molto alti e il fiume, non ero così tanto interessata a mangiare omul o a girare per la città. L’ho apprezzata e ho apprezzato le rive del Baikal viste dalla striscia di asfalto, terra e bancarelle tra la nebbia e il sole.
La prima cosa che ho fatto, inoltre, non aveva nulla a che fare con il mio scopo: raggiungere l’isola di Olkhon, nel lago Baikal. L’isola magica dove piovve per due giorni.
L’arrivo a Irkutsk
Ho mangiato omul appena sono arrivata a Irkutsk. È un pesce del lago Baikal che si trova un po’ ovunque soprattutto sulle bancarelle di Lystvyanka, una località di villeggiatura poco distante da Irkutsk. Ci si arriva comodi, senza impiegarci decenni, con un autobus. Quando sono arrivata a Irkutsk, dopo aver ammirato come un sogno l’insegna della stazione andando con la mente a Michele Strogoff e ai banchi delle scuole medie, dove Pino – l’insegnante di italiano – dedicava del tempo per leggerci Verne ad alta voce, la prima cosa che ho voluto, desiderato e pensato di fare non è stato né mangiare omul né andare a Lystvyanka. Nemmeno visitare la cittadina. La prima cosa che ho chiesto è stata una doccia. Tre giorni e quattro notti non sono tanti: non ho sudato, non ho corso, avevo le salviettine e l’acqua in bagno che ovviamente non sono bastati.
Un corso di yoga sull’isola nel Baikal
Non avevo un ostello prenotato e poco prima di scendere avevo conosciuto una donna che stava andando a un ritiro di yoga sull’isola di Olkhon. Dovevo decidermi in poco tempo: andare con lei immediatamente senza sapere se davvero fosse possibile per me frequentare quel corso oppure desistere e fermarmi a Irkutsk per poi proseguire per l’isola il giorno seguente con più calma. La donna occupava uno scompartimento con alcuni viaggiatori che nascondevano la vodka in buste di carta, ma che non riuscivano a dissimulare la loro allegrezza. Mi offrirono da bere davanti a un tramonto incorniciato nel finestrino: io ero altrove, non so come ci fossi finita lì. Ero con la mente tra l’arrivo – ormai mancava davvero poco – e quelle bottiglie di vodka accompagnate da chiacchiere qualsiasi. La donna dello yoga era su uno dei letti superiori e cercavo di parlarle, lei di chiedere permessi per me alla sua insegnante. Una coppia di turisti tedeschi molto giovani stava tenendo banco in modo chiassoso: non ricordo dove fossero saliti, forse era un viaggio breve, di un solo giorno, l’ultimo, sta di fatto che dormirono per quasi tutto il tempo. Erano nel loro anno sabbatico post diploma, come capita spesso in Germania: non potevo fare a meno di vederli invecchiati, con una villetta a schiera e la pancia prominente di lui, le rughe e i piedi gonfi di lei. Non erano viaggiatori belli, non ai miei occhi, ed era la prima volta che davo un giudizio così rigido.
L’ostello
Davanti alla stazione, tra un avanti e indietro per decidere, alla fine trovai un uomo con cui dividere il taxi: biondo e rasato, venne con me fino al mio ostello che ora non ricordo proprio come lo avessi trovato. Ricordo invece che dall’esterno sembrava una catapecchia pericolante. Era un condominio molto alto al quale si accedeva attraverso una corte malmessa e poco curata. La porta di ingresso cadeva a pezzi, le scale erano fatiscenti. C’erano rifiuti, forse un po’ di puzza, muri scrostati di sicuro. L’uomo mi accompagnò e dissi: «non andare. Prima verifico che sia ok, poi puoi andare via» con il tuo taxi che ho pagato io. Quando si aprì la porta trovai una reception moderna, essenziale, pulita. Le stanze erano ordinate e impeccabili, l’accoglienza la trovai buona, anche se la ragazza di quel turno non sapeva parlare l’inglese. Era presto, molto presto.
La prima cosa che ho fatto
La prima cosa che ho fatto è stata una doccia mentre ripensavo al continuo accadere del treno e alla sua calma nel diaframma e nell’addome in sintonia e in concerto con il dondolio della carrozza.
Irkutsk è una tappa classica lungo la rotta della transiberiana, non solo perché è una delle città principali di questa zona, tanto da essere chiamata la Parigi della Siberia grazie alla sua ricchezza, alle sue vie, all’aeroporto, alla sua importanza commerciale, alla sua posizione strategica lungo il fiume Angara, ma anche perché da qui si può – impiegando un intero giorno di viaggio su pulmino e barca – raggiungere Olkhon situata nella parte centro-occidentale del lago Baikal e terza isola lacustre più grande al mondo. A 40 minuti di bus, invece, c’è Lystvyanka, luogo di villeggiatura, turismo e riposo. Questa cittadina è ridotta a una striscia di asfalto e sterrato con il mercato, i luoghi per mangiare, le agenzie che vendono tour e i bar. L’omul – il pesce tipico essiccato – lo si trova ovunque. A 4 km dalla zona più viva, brulicante di turisti, si trova il museo del lago. Andando dalla parte opposta e salendo un po’ è possibile ammirare il Baikal dall’alto, scendere per bagnare i piedi o farsi addirittura un gelido bagno estivo.
L’isola sciamanica
Il mio obiettivo reale era tuttavia l’isola. Non Irkutsk – che sono riuscita comunque a visitare – non la cittadina sul lago dalle cui rive si vedeva una leggera nebbia che formava una striscia parallela all’acqua – ma l’isola degli sciamani, l’isola magica e misteriosa e – a quanto dicevano – bellissima. Mi capitò sott’occhio solo un parere negativo, ma non me ne curai.
All’ostello mi indicarono dove recarmi per il servizio minibus che portava all’imbarco. A causa di alcune incombenze pratiche – l’acquisto del biglietto per Ulan Bator – non riuscii a prendere il bus delle 10:00, chiesi di poter prenotare quello di mezzogiorno, ma l’incomprensione fece in modo da farmi finire su quello delle 14:00. Arrivai in tempo per il tramonto, dopo un viaggio nel sole e nelle distese tutte identiche di prati, erba, alberi, in compagnia di due donne russe in vacanza da quelle parti. Loro scesero prima di me.
Nell’ostello spartano e semplice, consigliato da una donna incontrata a Irkutsk quando ormai avevo perso le speranze di trovare un alloggio a buon mercato e non pieno, trovai ad accogliermi una donna buriata che mi suggerì escursioni, mi diede una stanza tutta per me – dopo notti di camerate – mi mostrò i luoghi principali per qualsiasi necessità. Appoggiai lo zaino e corsi a vedere il punto più famoso dell’isola: la roccia sciamanica dove si mescolano spiritualità e natura. Seguii un gruppo di persone dall’aria interessante lungo un sentiero che portava accanto alla roccia. Li osservai mentre recitavano preghiere con una collana dalle pietre grosse e massicce tra le mani. Si sussurravano parole, si passavano oggetti: un uomo – il solo del gruppo – si staccò per salire quasi fino in alto, arrampicandosi sulla roccia. Quando arrivò in cima mostrò qualcosa e le donne risposero. Io nel frattempo cercai di conversare con la sola ragazza del gruppo che conoscesse l’inglese. Fu restia a darmi spiegazioni sullo sciamanesimo. Viveva in Germania e mi disse che sua madre aveva scritto molti libri in merito. Mi disse di stare attenta, perché può essere pericoloso.
Le mucche potranno mangiare
Iniziò a calare il buio in un luogo senza luci lungo le strade e senza vere e proprie strade: sono vie ampie di polvere e terra battuta, di un marrone quasi pallido, che tagliano – come in un quadro di Mary Poppins – prati e boschi e che creano un senso all’insieme di case di legno di Kuzhir, il nome della città nella quale mi trovavo, centro abitato dell’isola – d’inverno sono in 1.500.
Risalii in tempo per vedere la distesa di sabbia a destra: «come a Miami», mi disse un ragazzo di Irkutsk. Il vento soffiava fortissimo. Mi avvolsi nella mia felpa leggera e ripresi la strada per l’ostello, chiacchierando. In quel momento la donna conosciuta in treno, quella dello yoga, mi riconobbe e mi salutò poco prima di arrivare al mio alloggio.
A Kuzhir piovve per due giorni, senza sosta. Una donna mi disse: «è meglio così: le mucche potranno mangiare, la terra è secca».
In copertina, foto di Eleonora Viganò
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