Ferragosto a Ulan Bator

Scritto da in data Luglio 11, 2019

La Mongolia è il paese dalle lunghe distanze e distese, di yak mai visti primi, di contrapposizioni giustapposte come il tempio antico – o quanto meno vecchio – e il grattacielo che luccica verso l’alto di Ulan Bator; la povertà e i negozi tirati a lucido della via principale.

Non fa freddo a ferragosto, ma lo farà in inverno quando le ger della periferia della città inizieranno ad accendersi, bruciando e inquinando. Dal memoriale ai caduti russi si può vedere tutta la città ai propri piedi e pensare – senza dirlo – che, nonostante tutto, la città più brutta del mondo non è quella. Forse non è mai esistita.

L’ostello introvabile

Quella volta avevo prenotato un ostello: di solito li cerco sul posto, come a Mosca, dove mi sono persa alle cinque del mattino impiegandoci tre ore, altre volte li prenoto poche ore prima del mio arrivo, in modo da essere certa perlomeno del mio arrivo – cosa non così scontata visto che in Etiopia, per un calcolo errato di coincidenze, ho dovuto sostare una notte non prevista a Woldia. A Ulan Bator avevo prenotato, ma non trovavo l’ostello. Ho girato con zaino e mappa in mano, credo per ore, chiedendo e portando avanti una parte della mia ricerca insieme a un uomo che non mi convinceva per atteggiamento e modo di fare. Anche lui era alla ricerca di un posto per dormire, con scarso successo, soprattutto perché aveva trovato tutto molto caro. Mi ha seguito – e finto di aiutarmi – per un po’, fino a quando non ha trovato un luogo a lui congeniale.
Io ho continuato la mia ricerca senza cedere ad altri ostelli e in effetti ho fatto bene: era un luogo accogliente, pulito, ordinato. Molto bianco e asettico, senza alcun fronzolo o intento di sembrare parte integrante del territorio. Era moderno e funzionale ed era ciò di cui avevo bisogno.

I tugrik e il treno fino a Ulan Bator

Ero a Ulan Bator o Ulan Baatar, capitale e città più popolosa della Mongolia: uno Stato noto per la sua bassa densità di popolazione, per il deserto del Gobi e per Gengis Khan. Mi trovavo sullo snodo che rende possibile, in treno, andare dalla Siberia alla Cina. In borsa avevo moltissime banconote: ero riuscita a cambiare gli euro o i dollari con la moneta del luogo, la sola cosa che si trasforma in modo repentino da un paese all’altro, insieme alla lingua (forse).
Avrei poi, dopo una settimana, cambiato ancora altri euro in yuan cinesi.
In quel momento, tuttavia, ero piena di tugrik che sembravano moltiplicarsi tra le mani a ogni mio acquisto. Uscivo con sostanziosi mazzi di soldi: 1 euro valeva 2.300 tugrik, oggi ne vale 2.900 circa. Con ogni resto, le mie banconote aumentavano in modo spropositato senza che io riuscissi davvero a spenderle. Ero spersa, stanca dalle due notti di treno spezzate: su quel treno in cui ero sola – quello precedente era stato accompagnato da alcuni turisti di cui ricordo ben poco – ho cercato di osservare facendo su e giù per le carrozze e restando incantata da una donna, anziana, con le rughe evidenti e i capelli bianco-grigi portati raccolti in modo vaporoso, che stendeva la pasta sul treno. La sua carrozza era diventata una casa, piena di effetti personali disposti occupando lo spazio necessario. Il sedile era un piano di lavoro perfetto per appoggiare un tagliere e preparare una specie di pane. L’ho osservata a lungo prima che arrivasse la nipote con la quale mi sono scusata per il mio modo invadente di propormi.

Le contrapposizioni

Ed ero lì, il 15 agosto 2016, dentro alla città più brutta del mondo – come dicono – intenta a conoscerla e ad assaporarla con calma e girovagando senza interessi specifici. Una donna, al semaforo, mi ha fatto a modo suo i complimenti per i tatuaggi. La via principale è un corso molto largo, pieno di negozi, una sorta di boulevard molto moderno, dove primeggiano i locali per mangiare – che in alcuni casi perdono la loro tradizione per acquistare quelle più internazionali – negozi di cachemire e di souvenir. Arrivata alla piazza con la statua di Gengis Kahan, ho osservato a lungo quella miscela di moderno e antico che mi ha colpita: templi di una volta accanto a grattacieli alti e lucidi.
Le ger sono visibili nella parte più periferica della città andando a visitare il Memoriale Zajsan: si trova in alto, su una collina panoramica nella zona a sud ed è un monumento dedicato ai soldati russi uccisi nella Seconda guerra mondiale. Di quel luogo ricordo soprattutto la vista della città tutta, i bambini che giocavano con le fontane ai piedi della collina, una statua di Buddha e i templi poco distanti del Palazzo d’Inverno.
Anche le persone potevano essere vestite in giacca e cravatta e occhiali da sole, pronti a sfidare il grattacielo, o in abiti più semplici, dimessi, tipici della povertà della zona delle ger o ancora in stile casual per nulla dissimile da quello occidentale. Ricordo che mi dissero che il governo – per disincentivare l’utilizzo delle ger come abitazioni in una situazione stanziale e non di nomadismo, favorendo anche la sopravvivenza durante inverni molto rigidi dove le temperature scendono a meno 50°C e riducendo emissioni inquinanti dovute al riscaldamento della ger – aveva costruito alcuni alloggi formicaio, abbastanza fatiscenti e per i quali era comunque necessario indebitarsi. La città aveva una doppia faccia: povera, dimessa, sporca nella parte delle ger e della periferia dei casermoni; moderna e scintillante in centro tra negozi e grattacieli. Quel primo giorno non visitai tutto: lasciai per ultimo il museo e il Monastero di Gandan, situato accanto al mio ostello. Volevo che restasse qualcosa per l’ultimo giorno prima del treno che mi avrebbe portato in Cina.

Il treno per la Cina

Avevo scelto un’opzione diversa dal solito e che sconsiglio: sarei arrivata in treno fino a Erlian dove – se si prosegue in treno – si deve comunque attendere per circa 4 ore tra controllo documenti e la sostituzione dei carrelli per le vetture.
Io a Erlian ho aspettato un bus notturno che mi ha portata a Pechino per le 3 del mattino. Su quel treno avevo condiviso la cuccetta con un tizio polacco – che avrei ritrovato sul bus e anche a Pechino – e con un giocatore di calcio giapponese che giocava in una squadra mongola. Prima dell’ultimo treno, prima dei quattro giorni in Cina, ho trascorso una settimana in Mongolia: le distanze qui sono infinite, le strade per nulla asfaltate, la guida pericolosa e veloce. Ho cercato ger per un po’ di ospitalità e ho cambiato tre bus per arrivare al parco del Terelj: ma questa è la prossima storia.

Incontri di viaggio

A Ulan Bator o Ulan Bataar, il quindici agosto, ho sentito come in sogno una voce che mi chiamava per nome mentre percorrevo un ponte: la coppia dell’est Europa conosciuta a Mosca, la donna che in ostello mi aveva parlato in italiano perché aveva fatto l’Erasmus in Sardegna e l’uomo che ha percorso tutta la strada in autostop, gli artisti di strada, insomma, erano arrivati anche loro in Mongolia.

In copertina, foto di Eleonora Viganò

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Tutte le tappe del viaggio in Etiopia
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