Volti, abiti, gesti e attitudini
Scritto da Eleonora Viganò in data Giugno 13, 2019
Non parlavamo la stessa lingua eppure abbiamo comunicato con il cibo, i gesti, l’osservazione. Ho osservato, scrutato, quasi fissato uomini e donne sconosciute che hanno abitato con me per ore e giorni, provando una lieve nostalgia nel vederli scendere. Ho visto madri con bambini piccoli e vasini in mano, ho assaggiato pane, prosciutto e cetrioli conditi con sale, ho salutato con il pensiero un uomo dal volto bruciato e rugoso.
Ho parlato solo con Nathalia di sciamanesimo, di fusi orari e di sua figlia. Alexandra, che si è tolta la parrucca prima di presentarsi, mi ha parlato con gli occhi – Terza parte.
Alexandra
Alexandra Sergej è salita sul treno al mattino del terzo giorno: una donnina bassa e robusta e bionda. Si è asciugata il sudore dal collo con un fazzoletto, prima di togliersi la parrucca. Si è coperta il capo con un foulard e infine si è presentata, dando per scontato che fossi russa. Aveva gli occhi piccolissimi azzurri e trasparenti, incassati. Le rughe, la corporatura e la voce mi fecero pensare che fosse sull’ottantina. Scenderà a Irkutsk. Non so nulla di queste persone eppure intuisco qualcosa: come se da pochi sguardi e dalla condivisione di cibo si potesse creare un legame, una nuova lingua con cui parlare. Mi hanno offerto di tutto: dai biscotti con i semi di girasole fino ai cetrioli portati da casa e conditi solo con un po’ di sale.
Il semplice fatto di esserci, di esistere lì su quel treno a quell’ora e in quella data, di potersi vedere, osservare forse anche fissare, genera un filo, un sentimento, una sensazione di complicità. Dopo aver passato ore o addirittura giorni a osservare volti, abiti, gesti e attitudini, la persona proprietaria di quel volto, abito, gesto e abitudine ti può quasi mancare. Ti dispiace, si crea un vuoto, una piccola nostalgia. Nessuno rivedrà mai nessuno: dura un istante grande quanto una capocchia di spillo, fino a quando non salgono altri passeggeri e si ricomincia a osservare, scrutare, capire.
L’uomo in bermuda, le madri e il pescatore
Mi ricordo un uomo in bermuda e camicia sempre attaccato al finestrino: è sceso a Omsk insieme a Nathalia e a sua figlia Veronika, di 12 anni. C’erano molte donne con i figli, senza mariti e senza aiuti: madri di 22, massimo 24 anni, con appresso e addosso bambini di 1-2 anni. Le vedevo muoversi lungo i corridoi con i vasini in mano. Ne ho vista salire una, accompagnata alla stazione da una donna e un uomo, probabilmente la madre e il marito. L’hanno aiutata a salire e a sistemarsi prima di scendere e salutarla dalla banchina, attraverso il finestrino. Un’altra madre è scesa a Omsk: un uomo correva, fuori dal treno, lungo il binario e verso la nostra carrozza che ancora andava prima di fermarsi, mentre il figlio diceva – senza urlare – papà.
Il mio preferito è stato un uomo che indossava un giubbotto da pescatore: l’ho guardato a lungo, cercando di mantenere una certa discrezione. Si metteva in corridoio attaccato ai finestrini e appoggiato ai sedili esterni. Mi piaceva: mi piaceva quel viso dalla pelle mattone solcata da rughe poco profonde, ma veritiere, con i lineamenti di qualcuno che da giovane doveva essere stato davvero un bell’uomo. Oltre ai muscoli, che emergevano dallo smanicato, aveva qualcosa che ricordava una pietra corrosa dal vento: non direi levigata, no, proprio solcata, plasmata, in sfaccettature dure e spigolose. È sceso a Krasnojark, insieme ad altri tre uomini che portavano addosso attrezzatura pesante, sembrava quasi da campeggio o davvero da pesca. Avrei voluto salutarlo, ma non l’ho fatto, se non osservandolo a lungo: ho immaginato un saluto simile, da parte sua.
Gli sciamani
Nathalia è stata la separazione a prima vista più difficile: l’unica donna della mia età che parlava un po’ in inglese, senza essere per questo una turista. Mi ha spiegato i fusi orari, mettendosi accanto a me e disegnando su un foglietto una mappa della Russia. L’ha divisa in zone e per ogni zona mi ha indicato le ore. Abbiamo parlato anche di sciamanesimo. Le ho detto di non saperne nulla e nonostante questa mia ignoranza, ero affascinata dall’argomento: un po’ come lo sono da tutto ciò che è spirituale, diverso, estraneo e sconosciuto. Mi ha detto che lo sciamanesimo è diffuso in tutta la Russia come cultura, soprattutto nelle grandi città, ma che gli sciamani vivono isolati in meditazione soprattutto a nord, nella Russia più estrema, dove le case sono poche, i villaggi piccoli e distribuiti in sparuti gruppetti, dove il clima è rigido e raggiunge d’inverno temperature bassissime, avvolgendo ogni cosa nella neve. I veri sciamani non si fanno pagare per guarire: sono uomini normali, che vivono come gli altri, senza strani riti o elementi scenografici, quelli sono solo per i turisti. Mi dice che il termine sciamano – come ruolo, come “nome comune” – è utilizzato moltissimo a Mosca, mentre in altri parti della Russia assume altri nomi. Nathalia ha voluto disegnarmi una nuova mappa della Russia, sullo stesso foglietto, indicandomi i villaggi spersi, dove si possono trovare gli sciamani. Le ho chiesto quindi di scrivermi i termini con cui si indicano gli sciamani nelle varie zone. L’ho vista agitarsi, quasi arrossire e sudare, scuotendo mani e testa: «non si può, non posso!» Ha ripetuto. Non solo è un segreto, ma non è un suo segreto: è quello di un altro uomo e non può dirmi il suo nome. Dopo qualche minuto, mi sono resa conto del fraintendimento: conosceva uno sciamano per nome e cognome. Portava con sé un segreto, aveva un nome proprio di sciamano. L’ho calmata, facendole capire che non intendevo chiederle quello: sul mio quaderno sono quindi apparse scritte in cirillico di tutti i termini con cui si indicano gli sciamani nelle varie zone. Mi ha guardato, con la penna a mezz’aria, e per essere ancora più sicura mi ha detto: «non come Nathalia o Eleonora».
No, l’ho rassicurata nuovamente, non come Nathalia o Eleonora.
Nathalia, il terzo giorno
Ci siamo scambiate velocemente i contatti prima che potesse scendere di corsa. Ho salutato di sfuggita la figlia Veronika con un tocco di mano sulla spalla. Sua madre era già lontana, giù sui binari, alla stazione. Veronika voleva diventare medico e disegnava benissimo: vorrei tanto sapere se realizzerà i suoi sogni. In una delle prime conversazioni sua madre mi aveva mostrato i suoi disegni: sembravano fumetti. Erano colorati, in bianco e nero, stilizzati, spigolosi, dalle sfumature fantasy. Pur senza essere una che se ne intende, ho capito subito che erano il risultato di una passione molto forte, quasi struggente.
Nathalia se n’era andata, Alexandra era salita. Al mio terzo e ultimo giorno ero ormai più distaccata. Mentre spingevo le porte spesse e metalliche, grigie o di legno tra carrozze e vagoni per andare nella zona ristorante, ho pensato a un film. Un film come il Titanic, credo. Ho ordinato l’ultima colazione: omelette, burro, formaggio e pane.
In copertina, foto di Eleonora Viganò
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