Messaggi in mongolo, satellitari e vodka

Scritto da in data Luglio 18, 2019

Le distanze sono enormi, le strade sterrate, gli autisti corrono troppo e le mete da raggiungere sembrano sempre vaghe, lontane e indefinite. Si fanno scelte, con il tempo che si ha: avevo deciso di voler vedere a tutti i costi Karakorum e per questo mi ero affidata a un classico tour. Poi, nei giorni rimanenti, ho escluso il deserto del Gobi – troppo lontano – e ho chiesto consiglio per un luogo tranquillo, in cui arrivare da sola con i mezzi e senza troppi fronzoli da turisti.
Il gestore del mio ostello a Ulan Bator mi ha dato un consiglio: «ti piacerà», mi disse. Ed è stato di parola.

L’arrivo al Parco Nazionale del Terelj

Quando arrivai in hotel, entrai con passi lenti e guardandomi intorno con calma. Era un albergo freddo e impersonale, con i tetti spioventi: UlanBataar-2, si chiamava, facendo presagire l’intera catena. Ricordo colori verdi e grigi, una luce soffusa e una hall troppo piena di vuoto, troppo grande per una persona sola, senza clienti, al bancone della reception. Quando arrivai cercai qualcuno con cui parlare – o meglio – a cui mostrare un fogliettino stropicciato che stringevo in mano come se potesse scapparsene da un momento all’altro. Prima spiegai in inglese che avevo bisogno soltanto di fare una telefonata, poi consegnai il bigliettino.
L’uomo non si scompose: prese il biglietto, compose un numero di telefono, disse qualcosa che ovviamente non capii e attaccò. Mi disse solo di aspettare, era tutto a posto.
Sostai a osservare quel grigio verde, quell’atmosfera da sala da biliardo e la cupezza che un albergo per le vacanze all’interno di un Parco Nazionale non avrebbe dovuto avere: assomigliava più a una casa di riposo o al limite alla scena di un film come Shining. Per Wes Anderson non c’era abbastanza colore. Dopo qualche minuto, troppi comunque, arrivò una donna: bassa, abbastanza in carne e vestita senza capo né coda con abiti fantasia che non si intonavano a niente. Non sapeva una parola di inglese ma era quella giusta: dovevo solo seguirla. Con sé non aveva niente, indossava forse un paio di infradito e aveva i capelli raccolti indietro con un mollettone.
Quando arrivammo a destinazione – dopo aver attraversato prati, ruscelletti e ponticelli in legno – mi trovai davanti tre ger e una baracca di travi di legno poco distante, che scoprii essere il bagno: un buco, in sostanza. Non ero l’unica occidentale. Intravidi un uomo sui 30 anni e una donna più vecchia. Poi c’erano alcuni bambini e un altro uomo mongolo: una famiglia intera, in due tende. La terza era per i turisti: la affittavano in estate per arrotondare. La donna straniera era un’australiana di 71 anni che viaggiava con la pensione da otto, lui… beh lui era un italiano proprio della mia città, con il quale non andai per nulla d’accordo e con il quale per fortuna non dovetti avere molto a che fare.
Eravamo arrivati lì più o meno nello stesso identico modo.

I bigliettini per non sbagliare

A Ulan Bator avevo chiesto al gestore del mio ostello un luogo da poter visitare in totale autonomia, senza tour né guide – fuorché eventuali locali presenti sul posto – che non richiedesse troppi giorni per gli spostamenti. Mi aveva guardato, mi aveva dapprima preso poco sul serio indicandomi i soliti posti e le solite agenzie: avevo già un tour, che temevo moltissimo, e che avevo deciso di considerare – come direbbe Davide Foster Wallace – «una cosa divertente che non farò mai più». Il motivo per cui lo avevo scelto era semplice: volevo a tutti i costi visitare Karakorum e con il tempo a disposizione era il solo sistema praticabile. Il tour mi era stato prenotato da una coppia di italiani conosciuti in rete grazie a un’esperienza condivisa senza saperlo: il Cammino di Santiago. Eravamo sullo stesso percorso a poche tappe e giorni di distanza. Sarei andata con loro, ci saremmo conosciuti dal vivo a Ulan Bator per la prima volta.
Il gestore fu in realtà molto paziente con le mie innumerevoli richieste strampalate e alla fine mi diede le indicazioni per arrivare da sola con i mezzi al Parco Nazionale del Terelj. Avrei dovuto prendere tre bus, mi indicò a voce i numeri e su un foglietto scrisse due frasi in mongolo: una per l’autista del terzo bus che diceva «Portala all’Hotel UB2» e la seconda per l’uomo alla reception che recitava «chiama questo numero…», un telefono satellitare, quello della famiglia che mi avrebbe accolto nella ger senza indirizzo, al parco del Terelji, dovrei avrei incontrato un italiano di Pavia. Le famiglie mongole che trascorrono qui l’estate – oltre a produrre formaggi e latte di yak – arrotondano ospitando stranieri per 10mila tugrik a notte (5 euro).

Le prime volte

La ger era spartana, con una batteria e due fili per fare luce e la puzza di fumo quando si cucina. I letti erano assi di legno sovrastate da tessuti e coperte. La notte mi sentivo una bambina nei suoi giochi d’avventura. La mia prima volta a cavallo fu proprio lì, su un esemplare tozzo e piccolino di quelli usati dalla mia famiglia sempre per i turisti. Ricordo di aver camminato per ore in un verde soffice su fino alle cime dolci. Ho visto per la prima volta uno yak e per la prima volta ho fatto il bagno in un ruscello gelato, mezza nuda. Ogni cosa, lì, era libera: cavalli, mucche, cani, persone, tende, yak, capre e pecore. Per la prima volta ho calpestato la steppa e al ritorno dal mio peregrinare con l’italiano, l’australiana e il figlio della mia famiglia mongola, nella valle ho incontrato un’altra famiglia mongola che ci ha chiamato per condividere il formaggio, il tè con latte di yak – ci si mette il sale –, il loro burro, una crema dolcissima, un pezzetto di carne e tre bicchierini di vodka fatta in casa.
Ascoltai i loro canti e conquistai la simpatia di un anziano. Ho riso, tanto. Abbiamo comunicato a gesti. Italia lo hanno capito. Intorno tutto verde, in testa l’azzurro, una mandria di yak poco distante e i cavalli ad aspettare.
Sporca, ingrassata e alcolizzata, in quel momento mi sentivo felice e fortunata. Avevo avuto il meglio dall’inatteso e dal non programmato.
I viaggi sono sempre due: uno dentro di me e uno fuori di me.

Foto di Eleonora Viganò

I Viaggi di Eleonora:

Tutte le tappe del viaggio in Russia
Tutte le tappe del viaggio in Tanzania
Tutte le tappe del viaggio in Etiopia
Potete ascoltare il nostro notiziario quotidiano, a cura di Barbara Schiavulli, Paola Mirenda e Cecilia Ferrara con i Balkan Bullets

Ascolta anche:

E se credete in un giornalismo indipendente, serio e che racconta dai posti, potete sostenerci andando su Sostienici


[There are no radio stations in the database]