La recessione in arrivo
Scritto da Pasquale Angius in data Luglio 25, 2022
Molti economisti ritengono che entro fine anno le economie europee saranno in recessione: cerchiamo di capire il perché.
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La caduta del Governo Draghi
Mercoledì scorso il cosiddetto “governo dei migliori” è passato a miglior vita. I partiti, in stato di fibrillazione pre-elettorale, hanno dato il ben servito al “migliore” degli italiani, quel professor Mario Draghi che tutto il mondo c’invidia, per fare precipitare la Repubblica nelle solite miserie della campagna elettorale, della propaganda, delle mirabolanti promesse regolarmente non mantenute, dei piccoli calcoli di bottega, degli sgambetti e degli insulti reciproci. Dopo che l’Italia per ben diciassette mesi aveva “volato alto” nei consessi internazionali, mandando in giro per il mondo come una Madonna pellegrina il migliore di tutti noi, l’unico capace di dare lustro e credibilità a un paese di cialtroni, ora riprecipiteremo nella porcilaia della politica italiana, nella pochezza delle nostre classi dirigenti, nell’approssimazione e nell’inaffidabilità che ci contraddistinguono. Mentre i pochi responsabili con la testa sul collo si rendono conto del disastro, il resto del paese, ignorante e indifferente, fa proprio il vecchio motto mussoliniano “me ne frego” e pensa a come meglio trascorrere le ultime vacanze prima dell’apocalisse che ci investirà in autunno. Mentre i pochi illuminati vedono all’orizzonte funeste prospettive, il volgo inconsapevole sguazza nella sua inadeguatezza culturale e morale.
Le principali testate giornalistiche, con assoluto sprezzo del ridicolo, da giorni ci rifilano una rappresentazione caricaturale della crisi di governo mentre si sprecano le lodi per l’uomo della Provvidenza, che per nostra straordinaria botta di… fortuna — volevo dire fortuna — si era messo a disposizione e, bontà sua, aveva deciso nella sua incommensurabile magnanimità di provare a governarci, di provare a insegnarci come si sta al mondo, come si tengono le posate in tavola, come ci si comporta in quella buona società che noi, poveri beoti, non siamo abituati a frequentare. Uno sforzo inutile, come regalare perle ai porci e, d’altronde, come dice un vecchio proverbio «a lavar la testa all’asino si perde tempo e sapone».
Per carità non vogliamo disconoscere le indubbie competenze e capacità del professor Draghi però, se qualcuno se lo fosse dimenticato, l’Italia è una democrazia parlamentare, le elezioni non sono una disgrazia, un flagello biblico o il passo verso il precipizio, ma l’esercizio naturale del sacrosanto diritto che hanno i cittadini di scegliersi chi li governerà. Poi, che le scelte non siano sempre delle più felici è indubbio, ma da qui a demonizzare le libere elezioni e a preconizzare il default del paese, ce ne corre.
Certamente l’autunno sarà un periodo molto difficile, soprattutto sul piano economico e sociale. I più pessimisti già preconizzano l’arrivo entro fine anno di una violenta recessione. Non mi azzarderei in previsioni che nessuno è in grado di fare, ma cerchiamo almeno di capire quali sono i problemi principali.
L’inflazione
Cominciamo dall’inflazione, ne abbiamo già parlato in alcuni podcast precedenti. La settimana scorsa la BCE ha aumentato i tassi d’interesse dello 0,5% e ha preannunciato che in autunno ci saranno ulteriori aumenti. Secondo alcuni economisti, le banche centrali hanno sottovalutato nei mesi scorsi il problema dell’inflazione e stanno intervenendo con un certo ritardo. In realtà altre banche centrali, a cominciare dalla Federal Reserve americana, erano già intervenute ma negli Stati Uniti l’inflazione è più elevata che in Europa. In secondo luogo, è probabile che le banche centrali abbiano fatto un calcolo un po’ cinico ma che ha una sua logica stringente. Nel 2020, con lo scoppio della pandemia e i lockdown, quasi tutte le economie, con l’eccezione della Cina e di pochi altri paesi, hanno subito cali consistenti del PIL cui si è fatto fronte inondando imprese e famiglie di sussidi di vario genere, aumentando così un po’ dappertutto il debito pubblico. Gli Stati Uniti sono stati il paese più generoso: prima il presidente Trump e poi Biden hanno riversato sui cittadini americani ben 2.500 miliardi di dollari.
Quelle enormi masse di danaro, dal 2021 si sono trasformate in domanda di beni e servizi che hanno consentito a tutte le economie di recuperare gran parte della perdita di PIL avvenuta nel 2020. Facciamo l’esempio del nostro paese. Nel 2020 il PIL italiano è crollato dell’8,9% mentre nel 2021 è cresciuto del 6,6%. Ma la crescita è avvenuta aumentando il debito pubblico, non solo in Italia ma anche in tutti gli altri paesi. È verosimile credere che le banche centrali e i governi, quando dalla primavera del 2021 è iniziata la ripresa ed è iniziata la corsa dei prezzi, abbiano pensato che un po’ di inflazione avrebbe aiutato i governi a ridurre le dimensioni reali del debito e quindi abbiano esitato a intervenire. Per chiarire bene questo punto facciamo sempre un esempio pratico. Prendiamo il caso dell’Italia. Il debito pubblico italiano supera i 2.750 miliardi di Euro, se in un anno abbiamo un’inflazione del 10% cosa succede a quel debito? In termini nominali nulla, restano 2.750 miliardi a cui bisognerà aggiungere gli interessi nel frattempo maturati che negli ultimi anni erano comunque molto bassi. Ma cosa succederà invece in termini reali? Accadrà che quel debito, a causa dell’inflazione, si sarà svalutato del 10%, cioè con quei soldi si potrà comprare un 10% in meno di beni e servizi, perché nel frattempo i prezzi di beni e servizi sono cresciuti del 10%. Quindi, in termini reali quel debito di 2.750 miliardi di Euro varrà soltanto 2.475 miliardi. Come per magia sono spariti in un anno 275 miliardi di Euro senza bisogno di aumentare le tasse o ridurre la spesa pubblica. L’inflazione si è tradotta per lo Stato italiano debitore in un autentico regalo. Ma la stessa cosa è successa anche per tutti gli altri Stati, che magari sono pure un po’ meno indebitati di quello italiano, ma il problema del debito ce l’hanno anche loro, tutti.
Quindi, l’aver sottovalutato per mesi il problema dell’inflazione probabilmente rispondeva a un calcolo preciso. Ma la situazione è cambiata tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022, quando si sono aggiunti ulteriori elementi di incertezza. Il primo causato dai cinesi. Dagli ultimi mesi del 2021 la Cina, preoccupata di non far mancare gli approvvigionamenti al proprio immenso apparato produttivo e alla propria altrettanto immensa popolazione, ha cominciato a far incetta sui mercati internazionali di materie prime — metalli, componentistica, prodotti energetici, derrate alimentari — causando ovviamente un rialzo abnorme dei prezzi. Se la domanda aumenta a fronte di un’offerta stabile aumentano i prezzi. Il secondo evento, lo sappiamo tutti, è stata l’aggressione russa all’Ucraina. Quella guerra ha causato un’ulteriore impennata dei prezzi dei prodotti energetici ma anche di metalli e di prodotti agricoli di cui quei due paesi, soprattutto la Russia, sono grandi produttori ed esportatori: grano, orzo, mais, olio di semi di girasole, mangimi, fertilizzanti. Il risultato è che le pressioni inflazionistiche negli ultimi mesi sono diventate molto più forti, costringendo le banche centrali a intervenire.
L’intervento delle Banche Centrali
Ora, qual è il problema, almeno per l’Europa? Negli Stati Uniti le cause principali dell’inflazione sono interne: aumento dei sussidi e dunque della liquidità a disposizione dei consumatori che si è tradotta in un aumento abnorme della domanda. Poi, anche lì c’è il problema dell’aumento dei costi energetici e delle materie prime, ma è un problema secondario anche perché, dal punto di vista energetico, gli Stati Uniti sono autosufficienti.
In Europa invece la causa principale dell’inflazione è l’aumento dei costi delle materie prime e dei prodotti energetici, accentuato negli ultimi mesi dalla svalutazione dell’Euro nei confronti del Dollaro, e sappiamo che le materie prime, anche quelle energetiche, sui mercati internazionali si prezzano in dollari. Sempre facendo un esempio pratico per chiarire il concetto: se un barile di petrolio costa cento dollari e l’euro si svaluta del 10% rispetto al dollaro, l’effetto della svalutazione sarà che quel barile di petrolio a noi costerà un 10% in più.
Quindi qual è il rischio? È che la BCE intervenga con misure restrittive come l’aumento dei tassi d’interesse per raffreddare l’inflazione, ma in realtà finisca per rallentare la crescita delle economie europee senza riuscire a ridurre l’inflazione visto che la nostra inflazione è in gran parte importata, cioè ha cause esogene al nostro sistema economico.
Come andrà a finire lo vedremo nei prossimi mesi, d’altronde nessuno ha in tasca la bacchetta magica, nemmeno Madame Lagarde e quindi i banchieri centrali debbono andare un po’ a tentativi, cercando di aggiustare il tiro strada facendo, con gli strumenti che hanno a disposizione.
Conseguenze dell’aumento dei tassi d’interesse
Ma chiariamo anche un’altra questione, che forse non è a tutti chiara. Cosa significa un aumento dei tassi d’interesse da parte della Banca Centrale? Che effetti ha sull’economia?
Il tasso d’interesse stabilito dalla Banca Centrale è il riferimento, per tutto il sistema, dei tassi d’interesse. Quindi, per esempio, le banche aumenteranno i tassi sui mutui per chi vuole comprare casa, ma se aumentano i tassi sui mutui e quindi gli importi delle rate da restituire alla banca, molte famiglie rinunceranno a comprare casa perché la rata potrebbe essere troppo alta rispetto alle loro capacità finanziarie. Chi ha un già un mutuo in corso potrebbe trovarsi in difficoltà a rimborsare una rata più alta.
Il risultato sarà una riduzione degli acquisti di case. Se la domanda di case cala si riduce la necessità di nuove costruzioni, molte aziende del settore chiuderanno o ridurranno l’attività e gli organici, si ridurrà la domanda di materiali da costruzione, di cemento, di pitture, infissi, porte, finestre, piastrelle, sanitari, mobili e via di seguito. L’effetto su un’infinità di settori economici sarà un effetto depressivo.
Se aumentano i tassi d’interesse significa che tutte le aziende che erano intenzionate a fare nuovi investimenti prendendo a prestito soldi dalle banche si troveranno a pagare prezzi più alti e quindi molte rinunceranno ai nuovi investimenti mentre altre li ridimensioneranno; ma se si riducono gli investimenti delle aziende si ridurrà il tasso di crescita dell’economia, si creeranno meno posti di lavoro, aumenterà la disoccupazione. La stessa cosa succederà ai consumatori, molti rinunceranno a fare acquisti a rate perché il costo di quel finanziamento è diventato troppo elevato.
Ma l’aumento dei tassi d’interesse avrà conseguenze anche sui conti pubblici. Prima abbiamo visto che un po’ di inflazione aiuta gli stati a ridurre in termini reali il valore dello stock di debito pubblico, ma il problema si porrà sulle nuove emissioni. Il debito pubblico è costituito da tante piccole tranches che scadono e vanno rinnovate. Ma le tranches che si rinnovano per essere acquistate dai risparmiatori dovranno tener conto dell’aumento dei tassi e quindi offrire rendimenti più elevati. Rendimenti più elevati significa che lo stato italiano dovrà aumentare la spesa per interessi. E se aumenta la spesa per interessi sul debito pubblico ci saranno meno risorse per la sanità, l’assistenza, le pensioni, la scuola e quant’altro. Quindi è probabile che si ridurrà la spesa pubblica, causando un ulteriore rallentamento della crescita economica.
Il rischio quindi è che gli aumenti dei tassi d’interesse da parte della Banca Centrale riducano la crescita o addirittura spingano l’economia in recessione.
La siccità
Ma ci sono anche altri problemi e rischi non secondari, vediamone altri due. Un primo problema è la siccità. Le disgrazie, come si sa, non vengono mai sole e in un anno già molto complicato si doveva aggiungere al caldo infernale che ci tormenta in questi giorni una drammatica carenza di precipitazioni. Secondo le prime provvisorie stime la siccità causerà danni alla nostra agricoltura per circa sei miliardi di euro, in molte aree del paese una parte importante dei raccolti è irrimediabilmente perduta. Inutile dire che nei prossimi mesi questa situazione causerà un ulteriore aumento dei prezzi dei prodotti agroalimentari.
Le forniture energetiche
Un secondo problema sono le forniture energetiche. In un podcast precedente dicevamo che le sanzioni economiche vanno ben calibrate per evitare che facciano più danno al sanzionatore che al sanzionato. E infatti l’Unione Europea e la sua leader, la baronessa Von Der Leyen e il suo fido scudiero Borrell, invece di elaborare una linea politica ragionevole ed efficace sulla questione del conflitto russo-ucraino, hanno colto al balzo l’occasione offertagli da Putin per riposizionarsi politicamente al centro dell’attenzione mediatica, con dichiarazioni sempre più roboanti e bellicose. D’altra parte, nei mesi scorsi abbiamo visto legioni di guerrafondai da salotto, impazienti di mettersi l’elmetto in testa, spingere per sanzioni sempre più dure nei confronti di Mosca. Questi signori ci hanno raccontato una delle più clamorose fake news secondo cui fosse possibile per l’Europa occidentale fare a meno del gas e del petrolio russo in pochi mesi.
Chiunque abbia un minimo di cognizione di causa sa che lo sganciamento dalle forniture russe, soprattutto di gas, richiederà anni, diversi anni. La propaganda e il velleitarismo delle leadership europee saranno pagate dai consumatori europei. Sinora la linea di attacco a testa bassa contro Mosca è servita soltanto a far aumentare ulteriormente i prezzi di petrolio e gas e quindi gli incassi dei russi, ma il rischio vero è che nei prossimi mesi siano i russi stessi a bloccare le forniture all’Europa occidentale, il che precipiterebbe tutta l’Eurozona in una pesante recessione con milioni di disoccupati.
Ora, di fronte a osservazioni di questo genere si alza sempre qualche Pierino a contestare e le contestazioni sono solitamente di questo tenore. C’è chi dice «la colpa è di chi per anni si è legato alle forniture russe», qualcun altro invece che, nonostante il caldo, non esita a calzare l’elmetto, e osserva che «non si poteva fare altrimenti, la Russia va annientata, Putin fucilato, costi quel che costi». Anche il nostro ex premier, suggestionato da queste tesi, qualche mese fa chiese con aria solenne, in una conferenza stampa agli italiani se volevano la pace o i condizionatori…
Sulla prima obiezione verrebbe da dire che, col senno del poi, sono tutti grandi strateghi e inoltre va ricordato che fino a gennaio 2022 la Russia era per tutti i paesi europei un fornitore naturale di materie prime non soltanto energetiche, perché un paese a noi relativamente vicino, politicamente stabile e con prezzi delle commodities molto convenienti. L’alternativa al gas e al petrolio russo era quello proveniente da paesi islamici molto instabili, come l’Irak in preda alla guerra civile, o governati da regimi non certo più liberali di quello di Putin, dall’Algeria alla Libia, dall’Arabia Saudita all’Iran.
Sulla seconda obiezione osservo soltanto che l’idea di annientare la Russia, potenza nucleare con un arsenale di oltre seimila testate nucleari, mi sembra oltre che poco probabile quanto meno bizzarra.
L’aggressione russa all’Ucraina non ha alcuna giustificazione, anche se politiche più accorte e meno approssimative da parte dell’Occidente avrebbero probabilmente potuto evitarla. Ora che la guerra è scoppiata, la cosa più sensata da fare è cercare di farla finire al più presto, e impostare la nostra strategia sull’annientamento della Russia non mi sembra la strada più rapida per porre termine al conflitto.
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