Quando i “bisogni economici” diventano “capricci”

Scritto da in data Giugno 28, 2022

La società dei consumi e il marketing ci fanno confondere spesso “bisogni” e “capricci”, quel che è utile con quel che è futile.

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Il marketing

Come sanno bene gli esperti di marketing, spesso è l’offerta che crea il bisogno. I consumatori, cioè quelli che in economia con i loro bisogni esprimono la domanda di beni e servizi, spesso non sanno identificare con chiarezza i loro bisogni o i loro desideri finché non arriva qualcuno particolarmente sveglio, un buon imprenditore, che gli faccia capire con quel mix di informazione, suggestione, convinzione, fascinazione… e presa per i fondelli… che chiamiamo promozione, pubblicità o più in generale marketing, quali sono i suoi reali bisogni e lo convince ad acquistare i beni e i servizi che lui gli offre (il lato dell’offerta, appunto).

Ora, in questo rapporto tra domanda e offerta, tra consumatori e produttori di beni e servizi che è sempre più, in una società complessa e articolata, principalmente un rapporto psicologico, è talora difficile capire se quello che stiamo acquistando lo compriamo perché ne abbiamo realmente bisogno o perché qualcuno particolarmente abile ci ha convinto che ne abbiamo bisogno.

In realtà il rapporto tra produttori e consumatori diventa un vero e proprio rapporto di seduzione, dove il seduttore o la seduttrice (chi si occupa del marketing) mette in campo tutte le sue abilità, tutto il suo fascino, le sue indubbie qualità ma anche una dose non indifferente di faccia tosta, di intraprendenza, di capacità di dissimulazione — e, anche, una dose più o meno grande di menzogne — per convincerci a scegliere lui o lei. Ma si sa, in amore come in guerra non ci sono regole e per chi si occupa di marketing la vendita in fondo è sia amore, una abilissima opera di seduzione, che guerra, un’opera di conquista commerciale!

In questa quotidiana lotta noi consumatori, i sedotti, intimamente ci sentiamo appagati dal fatto che qualcuno ci desideri — in realtà desidera i nostri soldi, ma non sottilizziamo! — e ci facciamo pertanto languidamente lusingare, magari a volte ce la tiriamo un po’ per non far credere che siamo persone di facili costumi, in realtà non vediamo l’ora di cedere alle dolci lusinghe della società dei consumi.

D’altra parte, se il capitalismo ha vinto sul comunismo — storicamente è andata così, piaccia o non piaccia — è anche perché il capitalismo è riuscito a suggestionare e a offrire a grandi masse di consumatori beni di ogni sorta, mentre nei paesi cosiddetti comunisti spesso si faceva la coda anche per acquistare beni di prima necessità. Chiunque abbia più di trenta anni e abbia avuto l’esperienza di visitare i paesi oltre cortina prima della caduta del Muro di Berlino nel 1989, ricorderà le vetrine dei negozi scarne, le confezioni dei prodotti spartane, il personale scortese.

Il capitalismo ha vinto perché è riuscito a suggestionare con consumi diffusi e disponibili per grandi masse di persone, più del comunismo che aveva magari grandi ideali ma che in pratica costringeva la gran parte dei cittadini di quei paesi a vivere quotidianamente in condizioni di ristrettezza. I grandi ideali sono una bella cosa ma la miseria non piace a nessuno!

Nella nostra civiltà consumistica, quindi, qualcuno ogni tanto ci fa credere che abbiamo bisogni che in realtà, se ci soffermiamo un attimo a pensare, non sono esattamente dei bisogni quanto piuttosto delle futilità, dei capricci, se non peggio. Peggio, perché in realtà dietro a quei consumi che ci sembrano così necessari, così indispensabili, così urgenti da non poterne più fare a meno si nasconde la fregatura. Dietro alla mega offerta imperdibile si nasconde una filiera produttiva fatta di sfruttamento, salari da fame e diritti negati. Dietro a un servizio efficientissimo si nasconde una lotta feroce tra aziende, una selezione darwiniana dove il più grande divora i più piccoli. Facciamo alcuni esempi pratici per capirci meglio.

Il caso Amazon

Amazon, gigante delle vendite online, ci ha convinti che possiamo acquistare sulla sua piattaforma qualunque libro (in realtà ormai vendono qualunque cosa, ma prendiamo l’esempio del libro), e che possiamo riceverlo a casa nostra nel giro di ventiquattro ore. Molti sono convinti che acquistare un libro su Amazon e riceverlo direttamente a casa ventiquattro ore dopo sia un nostro bisogno. Chissà come siamo riusciti a vivere fino a qualche anno or sono, quando i libri occorreva andare a comprarseli in libreria, raramente ti facevano lo sconto e talvolta capitava che il titolo che cercavamo non era nemmeno disponibile, bisognava ordinarlo e sarebbe arrivato nel giro di qualche giorno o addirittura, la settimana successiva.

Nessuno, o comunque poche persone, si chiede quali siano le conseguenze sulla filiera del libro di queste nuove modalità di acquisto. In fondo è il bello della modernità e della tecnologia. Possiamo fare cose che prima non si potevano fare, si possono avere comodità che prima neanche sognavamo, peccato che questa nostra presunta “comodità” non sia gratis. Qualcuno la paga. La pagano le librerie che chiudono, la pagano i distributori librari che chiudono perché non hanno la massa critica di Amazon e in ventiquattro ore non riescono a consegnare, e quindi chiudono gli editori, soprattutto i più piccoli, che vedono gli spazi commerciali sempre più ristretti, che non hanno alcun potere contrattuale con giganti come Amazon e o accettano le condizioni — non vogliamo dire capestro, ma certamente poco convenienti — proposte da Amazon o restano fuori. Il risultato finale sono migliaia di posti di lavoro qualificati persi, centinaia di aziende che chiudono, un mercato editoriale che si restringe e si impoverisce e quindi un’offerta libraria che si riduce e si dequalifica. Il mercato sarà dominato dai best seller scritti da personaggi famosi che hanno grande visibilità mediatica: l’influencer procace e discinta con le labbra a canotto che dispensa baci virtuali ai suoi followers dal suo profilo Instagram, e mette in piazza in un libro le sue avventure sentimentali con personaggi famosi e sempre molto benestanti; il cantante che racconta come è arrivato al successo; il calciatore che  rievoca i suoi rocamboleschi goal, mentre se uno scienziato rimasto a studiare nel suo laboratorio di ricerca vuole pubblicare un libro, magari importante, prima fatica a trovare un editore disposto a scommettere sul nome sconosciuto e poi fatica a distribuire e vendere il suo libro. D’altronde, i libri un tempo si leggevano per imparare, per approfondire, per capire, per cercare con un po’ di sforzo di allargare i propri confini intellettuali, tutte cose antiquate e decisamente demodé. Oggi i libri si “consumano” e quindi, nella frenesia del consumo, l’acquisto si fa d’impulso e la consegna deve avvenire in tempi olimpionici.

Le offerte “tutto incluso”

Ma facciamo un altro esempio. Vediamo continuamente offerte di piani telefonici a prezzi sempre più bassi e veniamo irresistibilmente sedotti da queste pubblicità. Nessuno può resistere di fronte a un “tutto incluso” a sei euro al mese! Ora, oggettivamente, cosa cambia nella vita di ciascuno di noi se il piano tariffario del nostro cellulare ci costa sei euro invece di otto? Ben poco, ma dietro quei due euro in meno, c’è una competizione senza esclusione di colpi tra colossi delle telecomunicazioni, e il risultato di quei due euro risparmiati sono, a valle di quel settore, milioni di euro di fatturati che si spostano da un’azienda all’altra, stabilimenti che chiudono, posti di lavoro che si perdono. E quello che oggi ci sembra un risparmio, nel giro di qualche anno si trasformerà in riduzione del PIL, riduzione di base produttiva, aziende che chiudono in Italia e delocalizzano in paesi dove la manodopera costa meno perché per poterti offrire il piano tariffario a sei euro al mese da qualche parte dovranno pur tagliare, e non potendo tagliare sulla tecnologia debbono necessariamente tagliare sui lavoratori.

A Milano, come in altre grandi città, negli ultimi anni hanno cominciato a comparire supermercati aperti h 24. Ora, se l’estensione degli orari di apertura dei negozi è sicuramente una comodità, mi sfugge però quale sia la necessità di tenere aperto un supermercato alle tre di notte! Anche questo non è un bisogno, potrebbe essere il futile desiderio di qualche sonnambulo, ma quel capriccio ha anch’esso il suo volto oscuro.

Un supermercato aperto h 24 significa che ci saranno degli addetti che devono rifornire gli scaffali di notte, ma quel personale deve costare poco altrimenti il supermercato, che normalmente ha margini di ricarico risicati, non ci sta dentro e nelle ore notturne il flusso di clienti è comunque basso. Allora cosa si può fare? Magari quei lavoratori non li si assume direttamente, non li si mette, come suol dirsi, “a libro paga”, costerebbero troppo, ma li si prende da cooperative esterne che, come fornitori, possono essere pagati meno di quanto stabilirebbero i contratti di settore. Le cooperative sono una forma ibrida di impresa, godono di tutta una serie di vantaggi fiscali e contributivi e dovrebbero servire per favorire l’occupazione dei lavoratori, mentre invece vengono spesso utilizzate come escamotage per consentire forme di sfruttamento delle quali faremmo volentieri a meno.

E anche qui sorge spontanea la domanda. Perché? Perché siamo convinti o ci siamo lasciati convincere che tenere aperto un supermercato alle tre di notte sia una conquista, un fatto positivo, una necessità, una questione di libertà e non piuttosto quello che è in realtà, cioè un capriccio?

La “low cost economy”

Negli ultimi due decenni abbiamo visto affermarsi e diffondersi la cosiddetta “low cost economy”, l’economia dei costi bassi. La globalizzazione ha consentito di allungare le catene delle forniture e delocalizzare le produzioni di molti beni di consumo in paesi nei quali la manodopera costa pochi centesimi all’ora. Di conseguenza, nei paesi dell’Occidente molte fabbriche sono state chiuse e il personale licenziato. I sindacati hanno perso iscritti e potere contrattuale. Le periferie delle nostre città hanno cambiato volto: dove un tempo sorgevano fabbriche e stabilimenti di produzione oggi sorgono centri commerciali. I posti di lavoro persi nell’industria solo parzialmente sono stati recuperati nei servizi, e comunque spesso sono lavori più precari, più dequalificati e pagati meno. La competizione capitalistica, assecondata e favorita da élite politiche succubi se non complici, ha aumentato le disuguaglianze, ha favorito chi era già ricco mentre ha precarizzato i ceti medi e colpito direttamente i lavoratori che hanno perso diritti, capacità contrattuale e potere d’acquisto. Ma, nel magico mondo del capitalismo fatto tutto di lustrini, offerte imperdibili, possibilità infinite, prima che i ceti medi proletarizzati e i lavoratori precarizzati cominciassero a incazzarsi, ecco la nuova bacchetta magica che risolve tutti i problemi: la rivoluzione del low cost. Non ti bastano i soldi? Non arrivi a fine mese? Non ti preoccupare, i beni di prima necessità li puoi acquistare al discount o persino all’hard discount, dove risparmi ancora di più. Vuoi fare le vacanze ma col tuo misero stipendio non te lo puoi permettere? Nessun problema: trovi un biglietto aereo low cost, un soggiorno last minute, una cena al ristorante scontata del 50% ma ci devi andare il martedì sera quando a cena fuori non ci va nessuno! Vuoi comprare abbigliamento alla moda? Se vai all’outlet trovi offerte grandiose a prezzi imbattibili. Devi arredare casa ma anche lì ci vogliono troppi soldi? Che problema c’è?  Vai all’Ikea e con i soldi che una volta ti bastavano appena per comprare un armadio, oggi ti arredi casa.

Ci hanno fatto credere che il low cost fosse una grande conquista, una grande libertà. Grazie al low cost tutti possiamo acquistare beni e servizi che prima soltanto i più benestanti potevano permettersi, e in parte questo è un dato incontrovertibile. Il low cost ha sicuramente aperto nuovi spazi di mercato, ha creato anche posti di lavoro ma l’altro risvolto poco piacevole è lo sfruttamento sempre più intenso, la riduzione delle tutele e del potere d’acquisto dei salari. Come diceva qualcuno, in economia nessun pasto è gratis o come diceva molto più banalmente mia nonna: non ti regala niente nessuno.

L’economia del low cost regala un’illusione di prosperità, ma le cose costano poco o sono cose di poca qualità, o per ottenere quei prezzi così bassi occorre togliere diritti, salario, tutele a chi quelle cose le produce.

Con questo nostro ragionamento dove vogliamo arrivare? Vogliamo negare i vantaggi e le comodità che le nuove tecnologie, i nuovi servizi, aziende che abbiamo citato come Amazon o Ikea ci forniscono ogni giorno? Assolutamente no, non vogliamo prendercela con nessuno anche perché le aziende operano in un contesto che è definito e regolato da altri, da scelte politiche fatte da qualcuno. Le aziende si adeguano e cercano di fare al meglio il loro mestiere, forse sono le regole che andrebbero cambiate.

Quello che vogliamo ricordare a tutti, a noi per primi, è che nessuno di noi è soltanto un consumatore. A parte i pochi fortunati che possono vivere di rendita perché sono ricchi di nascita, a tutti gli altri tocca lavorare per campare e quindi oltre a essere consumatori siamo anche lavoratori e siamo anche cittadini perché facciamo parte di una comunità.

Le nostre scelte, anche quelle di consumo, devono essere razionali e quindi smettiamola di farci prendere per il naso confondendo i “capricci” che arricchiscono piccole oligarchie di super ricchi con i nostri bisogni.

Uscire dalla logica dell’economia del capriccio significa rendersi conto che ognuno di noi, quotidianamente, anche chi è convinto di non sapere e di non capire nulla di economia, fa un’infinità di scelte economiche e quelle scelte ricadono su tutti, anche su noi stessi.

I rapporti economici, gli scambi, i mercati non sono entità trascendenti, impenetrabili e immutabili ma sono relazioni sociali che gli esseri umani creano tra di loro. Le regole dell’economia le abbiamo create noi e sempre noi possiamo modificarle se non ci vanno bene, se non le riteniamo adeguate, modificando i nostri comportamenti.

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