L’anno che sta finendo, il nuovo anno che verrà

Scritto da in data Dicembre 20, 2021

Riassumiamo alcuni dei principali eventi economici del 2021 per capire cosa accadrà nel 2022.

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L’anno che sta finendo

Ci avviciniamo al Natale e all’Anno Nuovo e, se non per convinzione almeno per tradizione, bisognerebbe sforzarsi di essere più buoni: è il momento di fare i bilanci su quel che è accaduto nell’anno che sta svanendo e di squadernare i migliori propositi per l’anno che verrà. “Vaste programme” avrebbe detto De Gaulle. Decisamente troppo per le nostre deboli forze, ci limiteremo quindi a sottolineare soltanto alcune delle questioni di più stretta attualità.

Nel 2021, la ripresa economica è stata robusta, il PIL italiano è cresciuto del 6,3%, abbiamo recuperato i due terzi di quanto avevamo perduto nel 2020. Anche l’occupazione è cresciuta, come hanno ripreso a correre le esportazioni: segnali positivi che dovrebbero proseguire anche nel 2022. Le previsioni per il nuovo anno sono di una crescita attorno al 4%. Nel 2021, grazie al fatto che la crescita del PIL è stata superiore a quella del debito, il rapporto tra debito pubblico e PIL che nel 2020 aveva raggiunto la stratosferica cifra del 155,6%, è sceso di quasi un punto percentuale e, secondo le previsioni del ministero dell’Economia, dovrebbe continuare a scendere nei prossimi anni.

La crescita italiana è stata di poco superiore a quella della media degli altri paesi europei, quindi una volta tanto non siamo il fanalino di coda, ma su tutti pesa l’incertezza causata dal riaccendersi dell’inflazione che nell’Eurozona è arrivata nell’ultimo trimestre del 2021 al 4,9%.

Soprattutto sono cresciuti in maniera abnorme i costi di petrolio e gas che, a oggi, producono gran parte dell’energia che consumiamo, al di là dei buoni propositi per quel che riguarda la transizione energetica.

Il governo Draghi è dovuto intervenire per ridurre il costo delle bollette per le famiglie, ma ancora poco o nulla è stato fatto per le imprese. In molti settori ad alto consumo energetico, da quello siderurgico o metalmeccanico a quello della ceramica o della carta, gli aumenti dei costi dell’energia si sono mangiati i profitti derivanti dalla ripresa economica, e molte aziende, se questo trend dovesse continuare, saranno costrette a chiudere.

Ma la ripresa della nostra, come di tutte le altre economie, è stata possibile nel 2021 grazie all’arrivo dei vaccini anti Covid-19. Nonostante l’ostilità preconcetta e incomprensibile dei no vax, dei no green pass e di tutti i cacadubbi di complemento, possiamo dire che il fondamentale evento economico del 2021 è stata la diffusione dei vaccini.

Big Pharma

Sicuramente è stato il principale evento economico per Big Pharma, il complesso delle grandi multinazionali del settore farmaceutico che, grazie ai vaccini, hanno fatto e stanno facendo soldi a palate. Affermare questo elementare dato di fatto significa sposare tesi “complottiste” o ”antivacciniste”? Assolutamente no. Le case farmaceutiche hanno realizzato enormi fatturati ed enormi profitti: si chiama capitalismo! Cerchiamo di scendere giù dalla pianta! Nel sistema capitalistico le aziende, tutte, comprese quelle farmaceutiche, restano in piedi se producono fatturati e fanno profitti. In caso contrario, banalmente, chiudono! Scandalizzarsi perché le aziende farmaceutiche fanno profitti sulla salute di noi tutti è una forma curiosa di ipocrisia.

Cerchiamo di guardare le cose nella giusta prospettiva. Di fronte a una pandemia globale la cosa più ragionevole da fare sarebbe liberalizzare a livello globale la produzione di vaccini, anche perché molti paesi, quelli più poveri, non possono permettersi di comprarli.

Ma un provvedimento del genere andrebbe contro gli interessi delle multinazionali farmaceutiche che hanno una grande capacità di lobbying e quindi di influenzare le decisioni della politica. Il problema non è economico ma politico!

Teniamo presente, poi, che il settore farmaceutico è in gran parte privato e se devi affrontare un’emergenza è semplicemente più pratico affidarsi a chi ha gli impianti, le competenze tecniche e scientifiche, il know how per produrre i vaccini, magari aiutandolo con contributi pubblici affinché possa accelerare la ricerca e la produzione.

Se non vi sta bene che la vostra salute venga utilizzata da qualcuno per fare profitti, questo non è un problema economico ma un problema di scelte politiche. Smettetela di votare per quei politici, quasi tutti, che negli ultimi trent’anni vi hanno raccontato che bisognava ridurre la spesa sanitaria e bisognava privatizzare la sanità perché ce lo chiedeva l’Europa, ce lo chiedevano i mercati, ce lo chiedeva il Padreterno. No, ve lo chiedevano loro. Vogliamo fare l’elenco dei politici, di tutti gli schieramenti, beccati a trafficare con le forniture al sistema sanitario? Meglio lasciar perdere perché non vogliamo rovinarci l’umore.

Addio al blocco dei licenziamenti

Negli ultimi mesi, venuto meno il blocco dei licenziamenti, abbiamo assistito a sempre nuove chiusure di impianti produttivi, generalmente di aziende multinazionali, con una cadenza ormai quasi settimanale. Elenchiamo le più note: Embraco e Whirpool, che si trascinano ormai da tempo, cui si sono aggiunte GKN, componentistica per il settore auto a Firenze, Gianetti Ruote, sempre settore auto a Ceriano Laghetto, Timken nel Bresciano, Caterpillar nelle Marche.

Sono aziende che delocalizzano non perché sono in crisi ma per riorganizzare la loro produzione, seguendo le dinamiche delle catene globali del valore e sfruttando le convenienze in termini di minori costi del lavoro e di minore imposizione fiscale che trovano in altri paesi.

Di fronte a queste notizie si scatena un trito e ritrito psicodramma politico-mediatico. I lavoratori, spesso licenziati da un giorno con l’altro con un semplice sms o con una email, giustamente incazzati, preoccupati e impotenti, si mobilitano in proteste che servono a poco. I sindacati preannunciano sfracelli, ma in realtà sono anch’essi impotenti. Poi si mobilita il circo mediatico dei talk show televisivi con inviati sul campo che intervistano madri di mezza età che scoppiano in lacrime perché non sanno come crescere i propri figli, padri ultracinquantenni disperati perché sono troppo giovani per andare in pensione ma troppo vecchi per trovare un altro lavoro, giovani che pensavano, avendo trovato un lavoro a tempo indeterminato, di riuscire a sfuggire a una vita di precariato. Mentre baldanzosi inviati ci scodellano queste drammatiche storie umane, negli studi televisivi si scatenano i dibattiti con arguti opinionisti e politici di tutto l’arco costituzionale, e cominciano le geremiadi fatte di stupore, indignazione, beceri pistolotti moralistici su quanto sono cattive le multinazionali. La pantomima è capace di proseguire per ore con il politico che si impegna a presentare, illico et immediate, in Parlamento una proposta di legge per punire questi mascalzoni che si comportano in maniera così disumana. Poi si aggiunge il commentatore che sottolinea l’assoluta mancanza di garbo: «Licenziare la gente con un sms, ma a che punto siamo arrivati, che inciviltà!». Perché se gli avessero mandato una raccomandata, nella sostanza, cosa sarebbe cambiato? Ovviamente nulla. Il problema è che gran parte di quei commentatori e politici che schiumano indignazione, sono gli stessi che da trent’anni a questa parte hanno esaltato le “future sorti progressive” del libero mercato, del neoliberismo, della globalizzazione senza regole, del turbocapitalismo che sinora ha dato grandi vantaggi a quelli che ricchi lo erano già, mentre tutti gli altri hanno perso diritti, tutele e reddito. Come ha detto Warren Buffet, grande imprenditore e uno degli uomini più ricchi d’America: «È in corso una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo».

Il problema non sono le multinazionali, i manager o gli imprenditori che delocalizzano incalzati da una competitività esasperata: loro fanno il loro mestiere. Ebbene sì, abbiamo scoperto l’acqua calda: i capitalisti fanno i capitalisti!

Il problema non è nemmeno economico, come ha capito Warren Buffet, uno decisamente sveglio: il problema è politico!

Aggiungiamo che l’idea di fermare le delocalizzazioni, come sta pensando di fare il nostro governo introducendo qualche multa alle aziende che si spostano all’estero, è non soltanto inefficace ma assolutamente ridicola.

La questione in realtà è ancora più complicata, perché i neoliberisti qualche osservazione sensata la fanno pure. Le aziende delocalizzano, sostengono costoro, perché trovano nel nostro paese un ambiente ostile, un contesto che non favorisce il business, che non agevola chi vuole fare impresa. Elenchiamo alcuni dei problemi segnalati, che sono oggettivi: tasse troppo alte sulle imprese, eccesso di burocrazia, costi dell’energia tra i più alti in Europa, norme contorte, amministrazione pubblica inefficiente, sistema giuridico che funziona con tempi biblici, sistema politico invadente, incompetente e corrotto. Una decina di anni fa un giornalista del Gruppo Espresso-Repubblica, Luigi Furini, scrisse un libro che ebbe un discreto successo e che si intitolava: “Volevo solo vendere la pizza”. Era un racconto autobiografico, tra l’ironico e il disperato, in cui raccontava una sua piccola avventura, o meglio, una sua disavventura imprenditoriale. Aveva deciso di aprire nel centro di Pavia una piccola attività di vendita di pizza al taglio. Nulla di particolarmente complicato, peccato che dopo aver passato due anni a scontrarsi con la burocrazia, le autorizzazioni, la Asl, la Camera di Commercio, l’Agenzia delle Entrate, la Guardia di Finanza, le regole sindacali, le tasse, le carte bollate, le multe, i cavilli normativi, i consulenti vari, l’inefficienza dei tribunali, dopo aver perso tempo, pazienza e soldi decise di vendere a un cinese e lasciar perdere. Svolgere un’attività d’impresa a qualunque livello, in Italia è oggettivamente e incomprensibilmente complicato.

Deregolamentazione selvaggia e competizione ultraliberista

Il nostro sistema oscilla tra una deregolamentazione selvaggia e una competizione ultraliberista che devasta interi comparti produttivi da un lato, dall’altro statalismo burocratico, normative asfissianti, corporazioni e ceti parassitari iper tutelati e ben rappresentati politicamente che si schierano a falange macedone se qualcuno cerca di scalfire i loro privilegi antistorici. Un sistema economico e sociale che oscilla tra globalizzazione esasperata, iper competizione capitalistica da un lato, regole medievali da ancien régime dall’altro, prima o poi si schianta.

La governatrice della BCE, madame Lagarde, ha preannunciato che a partire dalla prossima primavera si ridurrà il programma di acquisti di titoli pubblici messo in atto negli ultimi due anni per sostenere i bilanci degli stati impegnati ad affrontare le conseguenze economiche della pandemia. La BCE si muove nella stessa direzione nella quale si stanno muovendo anche la Banca Centrale del Giappone e quella statunitense.

A spingere verso una politica monetaria meno accomodante sono da un lato ragioni oggettive: non si può continuare a stampare moneta all’infinito. La ripresa economica è in atto ed è piuttosto robusta, quindi è ragionevole ridurre gli stimoli monetari. Ma c’è una seconda ragione che preoccupa i banchieri centrali e si chiama inflazione.

Molti economisti non credono che le attuali spinte inflazionistiche siano un fenomeno passeggero e quindi è necessario che le banche centrali comincino a prendere contromisure per rallentare la corsa dei prezzi. Occorre quindi fare politiche monetarie più restrittive e, prima o poi, si arriverà probabilmente anche a un rialzo dei tassi d’interesse.

Ma questa nuova situazione cosa implicherà per il nostro paese? Innanzitutto nel bilancio del 2022 il governo avrà a disposizione meno risorse e quindi, o si riducono le spese o si aumentano le tasse. Certo poi arriveranno i soldi del Recovery Plan che finanzieranno investimenti pubblici dando una spinta alla crescita del PIL, ma il sentiero della spesa pubblica con il nuovo anno tornerà a restringersi.

A ciò va aggiunta un’ulteriore notizia. Da pochi giorni si è chiuso il ciclo politico della signora Merkel. Al suo posto è diventato Cancelliere della Germania Olaf Scholz, leader della SPD che è sostenuto da una coalizione cosiddetta semaforo, dove ci sono i socialdemocratici, i liberali e i verdi. Nel nuovo governo tedesco il ministero delle Finanze è finito al liberale Chistian Lindner. Contro la sua nomina si erano mobilitati anche economisti di peso come Joseph Stiglitz, premio Nobel nel 2001, o lo storico dell’economia di origine britannica, Adam Tooze, professore alla Columbia University. Costoro accusavano Lindner di avere concezioni economiche antiquate, da anni Novanta, temendo che la sua adesione all’ortodossia ordoliberista germanica possa creare grossi problemi alla tenuta dell’Eurozona. Le idee economiche di Lindner e del suo partito, hanno scritto, sono un «insieme di cliché conservatori» aggiungendo «[…] il pericolo per la democrazia in Europa deriva dall’applicazione nel momento sbagliato di una disciplina di bilancio inadeguata, che un gruppo minoritario di stati del Nord vuole imporre a una maggioranza di elettori europei». Le critiche di questi autorevoli studiosi non hanno impedito a Lindner di diventare ministro e, per non smentire le peggiori previsioni, si è subito affrettato con tipico zelo teutonico a dichiarare pubblicamente che: «Le riforme greche sono un modello per la Germania!». Quindi, vediamo se abbiamo capito bene: per il neoministro delle Finanze tedesco quelle politiche di austerità che hanno distrutto l’economia greca, ridotto in miseria un paese dell’Eurozona, moltiplicato quel debito pubblico che si intendeva ridurre andrebbero prese come modello per tutti i paesi europei, a cominciare dalla Germania!

Purtroppo la storia ci ha insegnato che quando un tedesco, che noi magari consideriamo non avere tutte le rotelle a posto, raggiunge una posizione di potere e comincia a fare dichiarazioni farneticanti, non andrebbe mai sottovalutato. Almeno questa volta speriamo di sbagliarci.

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