23 giugno 2020 – Notiziario in genere

Scritto da in data Giugno 23, 2020

Per ogni caso di violenza sessuale denunciata, ne esisterebbero almeno altri 20 che restano sconosciuti. Le donne del collettivo cileno Lastesis sotto attacco. Joy, storia di una rifugiata albina. Kenya: una giornalista in tv denuncia la pratica di schiarire la pelle per “ottenere più privilegi”. Le donne manager migliorano la performance delle aziende. Un dito medio di fronte alla proposta di proibire l’aborto.

Violenza sessuale e stupri di guerra

Per ogni caso di violenza sessuale denunciata, ne esisterebbero almeno altri 20 che restano sconosciuti. È la stima che ne fa l’Onu in occasione della  Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sessuale legata ai conflitti’, il 19 giugno di ogni anno. Una data in cui le Nazioni Unite sensibilizzano i governi a combattere questa piaga, a prevedere aiuti per le vittime e combattere l’impunità. Ne abbiamo parlato anche qui su Radio Bullets. In molti Paesi la violenza sessuale, gli stupri, la tratta, la prostituzione forzata, gli aborti forzati, la sterilizzazione contro bambini, donne ma anche uomini e ragazzi, rappresentano una conseguenza della guerra. Le vittime, nella stragrande maggioranza dei casi, per paura e per pressioni culturali, non denunciano.

“Questa violenza è uno dei reati segnalati meno frequentemente e la sua segnalazione è stata resa ancora più difficile con la pandemia di Coronavirus”, ha detto Antonio Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite, nel suo messaggio per il 19 giugno. “La malattia ha limitato la capacità delle vittime e dei sopravvissuti di denunciare questi atti e ha anche esacerbato gli ostacoli strutturali, istituzionali e socio-culturali alla segnalazione’’. Guterres ha invitato tutti a “dimostrare la nostra solidarietà alle vittime, impegnandoci ad ascoltarle e a tener conto delle loro esperienze e decisioni”. Per l’Onu combattere l’impunità per la violenza sessuale è un elemento centrale per scoraggiare e prevenire tali crimini. È anche una parte fondamentale del processo di riparazione e risarcimento per le vittime.

America Latina

Le donne del collettivo cileno Lastesis sotto attacco. “In cucina ci vogliono, confinate nel tedio dello spazio domestico, nella sfera privata, messe a tacere, invisibilizzate”. Inizia così il post su Facebook del collettivo Lastesis, Valentina Barile le ha intervistate nei giorni scorsi per RadioBullets: Dafne Valdés, Sibila Sotomayor, Paula Cometa e Lea Cáceres.Le prime due lavorano nell’ambito teatrale, le altre in quello dell’insegnamento e della moda. Il collettivo è nato più di un anno fa per “tradurre” le teorie femministe in un linguaggio corporeo, musicale, performativo e replicabile dalla collettività. E così è stato. Il collettivo si è concentrato, in particolare, sul libro Calibán y la bruja dell’italoamericana Silvia Federici e sulle tesi di Rita Segato, un’antropologa femminista di origini argentino-brasiliane tra le più celebrate in America Latina. “Vogliono riportarci in quel luogo di subordinazione nel quale siamo state storicamente confinate”, si legge nel post di Lastesis tradotto da Non Una Di Meno Pescara.

https://www.facebook.com/colectivo.lastesis/videos/700723500692573/?__xts__%5B0%5D=68.ARCjsSLMegMfRXfSshy8J-9_iUJwpffExqbCgWoe80u7ZB12VnTyWIeo0EJREGfgbMcd5H2IX2WNiAQwN1TtCtQloT5psFMsnUXJZaAPvOUTzWH9kXjVedrIaEr8YyM9H72MwqMqQK67q-IP2TI4eoFvVOlRCbX4gcMN3OkCLJ8dnnjVSJ78AkC3lpNXTQMrTppxcD-e4mcJN3-4CMz9TsdDvV6mWymEtuJejgVgpsezxi5jpmmpocaCKrOX20QJD68BsdAILKEHercFm9lC5m1fXjW7WHDVpzlQ6TPmmEQ3AJT4P6POIzhQM5KJcUf-xKnsUuLgxsh7jukQC1jse4a3ZbsheN5AB54&__tn__=-R

Il collettivo Lastesis ha portato , prima in una strada di Valparaíso la performance Un violador en tu camino, poi a Santiago del Cile il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne: a Santiago del Cile, oltre un centinaio di manifestanti hanno liberato il proprio grido di denuncia contro le logiche oppressive figlie del patriarcato, dando inizio a un’ondata inarrestabile. Una protesta che è andata a coincidere con gli abusi e le torture, ad opera parte della polizia e dello stato, sulle donne partecipanti alle proteste. Ora le minacce. “In questo contesto così inappropriato, nel quale come società siamo subendo l’attacco di una pandemia, ma anche della disuguaglianza, l’istituzione che possiede il monopolio della violenza – e resta impunita come causa di molteplici violazioni dei diritti umani – trova il tempo di di perseguire, intimidire, spaventare, censurare e violare un collettivo artistico femminista. Abbiamo scoperto attraverso La Tercera, un media che oltretutto si presta a dare voce a questo atto repressivo e violento, di un attacco diretto a noi e al nostro lavoro da parte dei Carabineros de Chile. Vogliono censurare il nostro lavoro; vogliono negarci il nostro diritto di esprimerci a partire dall’arte; vogliono negarci il diritto alla protesta, travisando il nostro lavoro e incastrandoci nei termini più insoliti. Questa azione dimostra solo l’abuso di potere sistematico da parte di questa istituzione, equiparando la poesia alla vera violenza di cui loro sono gli autori, negando lo spazio alla metafora, all’arte, all’attivismo e alla legittima denuncia che da ottobre il popolo grida ovunque. Oggi siamo noi ad essere direttamente violate, ma lo sono anche tutte le donne, le dissidenti e tutte coloro che resistono in questa lotta contro il patriarcato e le sue nefaste istituzioni. Ma non ci zittiranno, mai più”.

Joy, la rifugiata albina che lotta contro la discriminazione

“Ciao sono Joy, ho 23 anni e sono nata in Nigeria, a Benin City, una comunità che disprezza le diversità, che non tollera chi nasce diverso. Io sono nata albina. In poche parole sono una ‘nera bianca’. In Nigeria le persone albine sono discriminate e uccise per diversi motivi. Ma l’albinismo non è una malattia contagiosa, è una caratteristica genetica. La mia realtà di oggi e il mio passato di ieri non mi permettono di accettare il ragionamento di chi discrimina ed elimina tutto ciò che non comprende”. Joy inizia così il racconto della sua storia, che fa parte del progetto Everyone Can Make a Difference #WithRefugees, lanciato su Spotify per la campagna in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato dall’agenzia Onu per i rifugiati Unhcr.

La persecuzione degli albini africani è un fenomeno che consiste nella discriminazione, mutilazione e uccisione delle persone affette da albinismo che vivono in Africa. Mentre negli Stati Uniti d’America una persona ogni 37.000 è affetta da albinismo e nel resto del mondo una ogni 20mila, il tasso di incidenza è molto più alto in Africa, in particolare in Zimbabwe, dove si stima che il rapporto sia di 1 su 4mila e in Tanzania, dove una persona ogni 1.429 è albina. La mancanza di accesso all’assistenza sanitaria e uno scarso livello d’istruzione hanno permesso, in alcune zone dell’Africa sub Sahariana, la diffusione di miti e superstizioni secondo cui le persone affette da albinismo sono dotate di poteri magici e le parti del loro corpo portano fortuna e successo. In altre parti del continente invece, gli albini vengono considerati portatori di sventura e chiamati zeru zeru, termine che in swahili significa ‘fantasma’, ‘invisibile’.

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I'm so happy to be bringing this to life for #WorldRefugeeDay with @Refugees! I wrote this back when the pandemic was the most pressing thing on our minds, but the sentiment still rings true today, if anything, it's even more appropriate now. There is no alternative but to decide to care, there is no alternative but to decide to do our absolute best in changing our world for the better in every way possible and that starts with centering the people most affected in our push against disparity, inequality, oppression, and violence in all its forms. In America right now, that looks like standing up for black people and standing up against injustice, and refugees are included in that sentiment in every way. What does it look like where you are? And how will you include #refugees ? Sending love and joy and the hope and the dream– the goal, that we carry one another through this. I hope this inspires you, I hope it offers solace, I hope it drives you to support the most vulnerable people, wherever they may be, this #worldrefugeeday and every day after ❤️ finding strength in solidarity #WithRefugees

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“Non sono stata io a decidere di andare via dal mio Paese, sono stata rapita”, racconta Joy in un’intervista ad AnsaMed. Rapita per essere sacrificata. “In Nigeria ci sono persone che credono che sacrificare una persona albina possa portare ricchezza. C’è sempre stata questa discriminazione contro le persone albine, sono considerate persone che portano sfortuna. Credo che la gente non abbia capito come funziona l’albinismo e cosa sia e così escludono e discriminano”. A causa della superstizione, “sono stata portata via dalla mia casa in Nigeria, ma poi sono riuscita a scappare dai rapitori e mi sono ritrovata con trafficanti, uomini che vendono le donne. Queste persone mi hanno portato in Libia e mi hanno venduta ad altri uomini. Sono rimasta per due mesi con loro, insieme ad altre donne, poi un giorno hanno deciso di mandarci tutte via”. E da lì, come tanti e tante altre, Joy è arrivata in Italia via mare, attraversando la rotta più mortale al mondo che è quella del Mediterraneo.

Kenya

“Parliamo tutti di Black lives matter. Ma dobbiamo anche riflettere sulla nostra cultura in questa parte del mondo”. Sono le parole con cui esordisce in un post su Instagram la giornalista Yvonne Okwara, che lavora per l’emittente televisiva del Kenya Citizen Tv. Yvonne si riferisce alla pratica in voga nel Paese di schiarimento della pelle “Le ragazze e le donne dalla pelle scura sono trattate in modo diverso. Dobbiamo lavorare due volte più duramente, essere due volte più intelligenti per andare avanti”, dice la giornalista. La pratica di schiarire la pelle “è lo standard fissato: pelle chiara = bellezza = opportunità = lavoro =ricchezza = buon matrimonio = bei figli. Sono questi atteggiamenti che hanno alimentato l’industria dello schiarimento della pelle”, denuncia Okwara.

Prima di difendere il movimento Black lives matter, il movimento che ha ripreso vigore in seguito alla morte dell’afroamericano George Floyd, morto per il fermo violento da parte di agenti della polizia e le cui immagini hanno fatto il giro del mondo, “prima di giudicare uomini e donne perché si schiariscono, dicendo loro di amare la propria pelle, perché non si esamina cosa ci ha portato qui e come siamo arrivati a questo?”, si chiede la giornalista: “Non è stato facile per me. Soprattutto in questo settore, ho visto i privilegi che la pelle chiara ha accordato ad altri!”. Avere la pelle scura “a volte è estenuante, ma è anche gratificante. Ma deve cambiare”.

https://www.instagram.com/p/CBkOUsrAaFm/

Australia

Una buona notizia arriva dall’Australia: le donne manager migliorano la performance delle aziende. A dirlo è una nuova ricerca australiana condotta dalla Curtin Business School di Perth. Analizzando il collegamento tra una maggiore diversità di genere e il successo nel business e basandosi su sei anni di dati di compagnie australiane raccolti dall’Agenzia federale sull’uguaglianza di genere sui posti di lavoro, la Workplace Gender Equality Agency (WGEA), dallo studio emerge che le compagnie guidate da amministratrici delegate hanno migliorato il proprio valore di mercato del 5%.

Croazia

Un dito medio di fronte alla proposta di proibire l’aborto. È quello che ha riservato in Croazia, Kolinda Grabar Kitarovic, ex presidente della Repubblica, al leader della destra sovranista che proponeva appunto la proibizione dell’interruzione di gravidanza. E la foto di lei che risponde col dito medio è diventata virale. “Sono passati i tempi quando la donna stava in un angolo aspettando di sentire cosa avesse da dire il maschio”, dice Kitarovic, presidente croata dal 2015 al febbraio scorso. Mostrando il dito medio, aggiunge, si unisce all’iniziativa di appoggio “per noi donne e per i nostri diritti”. La sua foto è diventata virale anche perché la politica è nota per le sue posizioni conservatrici e di destra.

L’iniziativa è stata lanciata sui social nei giorni scorsi dopo che Miroslav Škoro, leader della destra nazionalista e sovranista alle elezioni politiche del 5 luglio, ha dichiarato non solo di essere contro l’aborto ma anche che le donne che hanno concepito dopo una violenza carnale “dovrebbero consultarsi con la famiglia, prima di decidersi per una interruzione di gravidanza”. In Croazia l’aborto è legale fino alla decima settimana di gravidanza. Nel 2017 la Corte costituzionale, rispondendo a richieste delle associazioni “pro-vita”, lo ha definito un diritto protetto e garantito dalla Costituzione croata, che non può essere proibito.

In copertina Instagram/Yvonne Okwara

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