Libano: cade il governo, ma alla piazza non basta

Scritto da in data Agosto 10, 2020

BEIRUT – “Festeggiare? Festeggeremo quando tutti se ne saranno andati. Credete che le dimissioni del governo siano la fine? Vogliamo che cada anche il parlamento. Siamo solo all’inizio”. I ragazzi della protesta sono di nuovo in piazza. E sono ancora arrabbiati. Un mezzo sorriso che si trasforma in un ghigno quando pensano alle dimissioni del premier Diab e del suo governo. I ministri sono capitolati uno dopo l’altro, prima due, Informazione e Ambiente poi quattro, Finanze e Giustizia, e infine, quando non è stata oggi accettata la proposta di elezioni anticipate nel giro di due mesi, Diab non ha potuto fare altro che un passo indietro, non senza accusare i partiti corrotti, non senza difendere il “suo governo che ha provato a portare il cambiamento”, ma in piazza alle sue parole non crede nessuno. La corruzione è più forte del governo, dice Diab a palazzo mentre nelle strade qualcuno mormora, “i politici libanesi sono un arma di corruzione di massa”.

Il presidente accetta le dimissioni del premier

Il presidente del Libano Michel Aoun ha accettato le dimissioni e ha chiesto al premier di rimanere facente funzioni fino alla formazione del nuovo governo. I ragazzi esultano ma la violenza è in agguato, non si vedono poliziotti, ma militari, le facce tese, pronte. Arrivano dei lacrimogeni, i ragazzi ripiegano ma poi tornano. “Non ce ne andremo. Torneremo ogni giorno fino a quando sarà necessario”. Mentre in altre parti del paese, come a Tripoli, si festeggia sparando in aria, a Beirut non ci riescono, le ferite di una città andata in pezzi meno di una settimana fa è un dolore ancora troppo vivo. Ogni edificio che li circonda parla dell’esplosione che ha devastato la capitale, ogni finestra rotta, ogni vetrina divelta, ogni muro crollato, pone delle domande alle quali le autorità non hanno saputo rispondere. 200 morti, molti dei quali stranieri che non sono ancora stati identificati perché è difficile farlo (almeno 48 siriani sono stati recuperati nella zona del porto, per lo più autisti). Anche un bambino australiano di due anni, la moglie dell’ambasciatore olandese che ha deciso di donare i suoi organi e tanti libanesi, una sfilata di vite andate perdute, se non c’è stato un intento criminale, per la negligenza, per l’inettitudine e la corruzione di chi ha lasciato per sette anni un carico di nitrato di ammonio di 2.700 tonnellate sequestrato da una nave che dalla Georgia andava in Mozambico. Sette anni lasciato lì, materiale pericoloso che ha distrutto il porto, la base navale e almeno 4 quartieri, e chi sapeva ha lasciato perdere. 16 gli arresti, il fermo del capo della Sicurezza, interrogato per ore, e poi le teorie di tutti i tipi che sono rimbalzate negli interstizi delle strade: mini bombe atomiche, razzi, aerei che sorvolavano la città, i militari che se ne sono andati un’ora prima. L’unica cosa certa ce la dice la team leader dei 13 vigili del fuoco italiani giunti (insieme a quattro militari dell’esercito italiano) per fare una valutazione sul rischio chimico e non solo. “L’aria che respiriamo non è contaminata”, spiega l’ingegnera Stefania Fiore. Un lavoro di squadra con i colleghi locali e internazionali per assicurarsi che quello che è esploso non sia pericoloso e quello che invece poteva essere stoccato in un porto non lo diventasse, e qualora lo fosse, come trattarlo: ne è un esempio la nave capovolta che trasportava dell’olio alimentare con fiamme che hanno finito di spegnere solo ieri. E anche un’indagine strutturale su alcuni edifici. La macchina dei soccorsi internazionali è stata abbastanza veloce anche se non imminente, la pandemia non ha aiutato perché col coronavirus tutto è più complicato. Sono 29 le persone disperse e le squadre di ricerca e salvataggio hanno dichiarato chiusa la possibilità di trovare persone ancora vive.

La crisi

300 mila gli sfollati, persone che hanno dovuto lasciare le case danneggiate. Alcune hanno trovato rifugio dai parenti, altri sono stati ospitati in hotel, altri ancora sono finiti in tenda in qualche rifugio, qualcuno sta tornando, qualcuno ha già fatto risistemare i vetri, ma non tutti sono fortunati. L’esplosione ha colpito un paese in default finanziario da mesi, dove la moneta non vale nulla e i prezzi sono esorbitanti. Metà della popolazione libanese vive sotto la soglia della libertà. Quindi non solo una crisi politica: quel sistema settario ereditato dai francesi e che divide il potere per confessioni che la gente non vuole più, ma che, con varie influenze esterne, a partire dagli iraniani con il movimento poi partito degli Hezbollah, controlla buona parte del Libano. Prima di martedì, quando mezza città si è ridotta ad una carcassa di edifici sventrati, già l’elettricità era razionata, ora in alcune zone manca del tutto. 3 ospedali sono stati distrutti, 120 scuole sono inagibili, solo a pensare ai servizi di base.

“Non so davvero cosa accadrà ora”, ci dice Hafiza Saleh del quartiere povero di Karantina, che ha perso la casa. Il figlio di 15 anni si è fatto male a una spalla. Madre single anche di una ragazzina disabile di 18 anni, è disperata. Puliva le case per non dover dipendere da nessuno, ma tra il covid-19 e l’esplosione la sua vita si è completamente fermata. Ma l’ultima parola la rivolge ai paesi lontani, a quelli che stanno donando soldi (300 milioni di dollari raccolti) per la ricostruzione (stimata 15 miliardi di dollari). “Non dateli a questi politici, non dateli a nessuno di loro, li ruberanno e non li useranno per ricostruire”, dice mentre si sistema il velo bianco che le incornicia un viso truccato.

Che cosa succede ora?

L’onda d’urto che ha provocato 5.000 feriti, ha scosso anche la fragile politica libanese. La rabbia è stato il filo che ha trascinato la gente in piazza ogni giorno, da sabato. E come se non ci fossero abbastanza domande, ora c’è quella su cosa accadrà in un paese devastato dal coronavirus, dalla crisi economica, dagli sfollati interni e i profughi di altri paesi. Il governo che continuerà a lavorare al minimo per far passare riforme che riguardano l’arrivo degli aiuti internazionali. Intanto il presidente Aun comincerà le consultazioni con i partiti, gli ex presidenti e primi ministri su chi dovrà sostituire Diab come primo ministro. Le voci sui nomi che girano nei corridoi della politica, sono tre: l’ex premier Saad Hariri, il diplomatico Nawaf Salam, considerato vicino agli Stati Uniti, e l’ex vicegovernatore della Banca Centrale, Mohammad Baasiri, anche lui un alleato degli americani. Chi avrà più voti, formerà il governo che dovrà ottenere l’approvazione del parlamento, si dovrebbe fare in tre mesi, ma potrebbe anche volerci un anno per avere un governo tecnico di unità. Nel frattempo tutto questo non piacerà al movimento della protesta, quelli che urlano “rivoluzione”, quelli che hanno portato una fenice di metallo in piazza dei Martiri e che chiedono un reset completo della politica, quella politica che non li rappresenta, che non è stata capace di parlare della gente, che si è fatta comprare e poi abbattere. Ed è solo l’inizio: è la promessa della piazza.

Beirut, una città ferita

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