Afghanistan: a poche ore dalla pace

Scritto da in data Febbraio 28, 2020

Per chiunque abbia messo piede in Afghanistan, quello che sta per accadere non può non creare una certa emozione, che sia positiva o negativa. Penso a soldati, diplomatici, politici, operatori umanitari, persone che hanno vissuto mesi nel paese degli aquiloni, del miele e dello zafferano.

Per chi come me ha frequentato quel paese per 19 anni, entrando nelle case, guadando fiumi, camminando tra le mine, ascoltando storie e raccontando un paese, non nego che al solo pensiero della parola Pace, i brividi mi attraversano il corpo.

Ho amato l’Afghanistan dal primo momento in cui ho messo piede. Ho amato le montagne intorno a Kabul, i sufi perseguitati dai radicali, le storie di resistenza delle donne, le stelle così basse ad Herat che ti sembra di poterle toccare. Le distese di campi rossi di papaveri, anche se poi sarebbero diventati quella maledetta droga che nessuno è riuscito a debellare.

Ho amato i fiumi in piena del Panshir, il giallo di Bamyan, le fabbriche di mattoni della provincia di Helmand, roccaforte dei talebani. Ma soprattutto ho amato la gente, con i modi gentili di chi incontra un’aliena, quella sfrontata intelligenza oscurata da un incolpevole analfabetismo. I tratti forti degli uomini con gli occhi verdi e i turbanti perfettamente avvolti, gli sguardi delle donne nascosti dai burqa così intensi da tagliare qualsiasi tessuto i radicali volessero imporre loro.

In Afghanistan ho amato, pianto, litigato, mentito per salvarmi. Ho messo alla prova me stessa. Ho sfidato la vita e rischiato la morte. Sono cresciuta, ho imparato. Ho perduto. Ho vinto. Ho lasciato pezzi di me ogni volta che ho perso un amico, e mi sono ricostruita quando ne ho fatti altri.

Ma soprattutto ho scritto. Ho raccontato tutto quello che potevo. Ogni persona che ho incontrato, ogni evento che ho assistito. Ho inghiottito la violenza e ne ho tirato fuori storie. Ho dato tutto quello che avevo, e ho ricevuto quanto più un paese può umanamente donare ad una persona che lo visita. Mi ha lasciata entrare e ne sono diventata parte.

E’ il posto dove ho riso a crepapelle, dove ho singhiozzato come se non ci fosse un domani. Dove ho confrontato le mie paure e le ho superate. Ho avuto il privilegio di andare quasi ovunque e di conoscere persone straordinarie che neanche la migliore fantasia di uno scrittore avrebbe potuto inventare.

bambini afgani

Ho visto donne togliersi il Burqa e smettere di avere paura. Donne fatte pezzi, con i nasi e le anime tagliate. Ho visto uomini cambiare mentalità e riconoscere le donne. Ho visto anche il male, i morti, la puzza dei cadaveri, i bambini saltati sulle mine, le autorità corrotte. I colleghi uccisi, ho calpestato la terra insanguinata, ho lavato i vestiti impolverati e ho riempito taccuini. Montagne di libretti scritti fitti fitti con la mia penna stilografica.

Ho conosciuto soldati, presidenti, ambasciatori, ma sono diventata amica di drogati, detenute, insegnanti, medici, ragazze e ragazzi.

L’Afghanistan per me è l’essenza dell’essere umano, eroi, carnefici, coraggiosi e inetti, intellettuali e ignoranti, follia e ragione. E’ quel buco nero dove nessuno vorrebbe entrare, oltre il quale si trova un giardino meraviglioso se si ha il coraggio di affrontarlo.

Ma cosa sta succedendo? Forse nulla, forse tutto. Domani in Qatar dopo tanti mesi di trattative e tira e molla, gli americani e i talebani firmeranno un accordo di pace. Ormai le guerre non si vincono più – mi disse una volta un generale italiano a Kabul – al massimo puoi aspirare a creare una nuova stabilità”. Così è.
Ora dovremmo monitorare quanto questo accordo sia vero o quanto estetico. Intanto il fatto che non siano presenti autorità afgane, già racconta un’altra storia. L’accordo non è tra talebani e afgani, ma tra talebani e americani. A Kabul ci sarà il neorieletto presidente Ghani che però non verrà lasciato solo, riceverà il segretario generale della Nato Stoltemberg e il segretario della difesa Esper. Perché il passo successivo è tra le mani di Ghani: se domani l’accordo verrà firmato a Doha, il condizionale è sempre d’obbligo, poi inizieranno trattative intrafgane, tra talebani e il governo afgano. Gli americani vogliono battere in ritirata, non andandosene del tutto perché l’Iran, il “grande nemico americano”, sta a due passi, ma hanno capito che in Afghanistan non hanno speranze contro i talebani, troppo radicati, troppo mafiosi, troppo sostenuti. E poi ci sono le elezioni americane, Obama portò ai suoi elettori poco prima la presa di Bin Laden, Trump porterà a casa qualche migliaio di soldati e un accordo di pace che anche se non funzionasse, ai talebani gliel’hanno fatto firmare. Non si conoscono i dettagli, si parla dei talebani che contrastano l’Isis, che entrano nei giochi politici, scambio di prigionieri.

E le donne? Che prezzo pagheranno perché la presenza di chi le voleva a casa, senza lavoro, senza studi, senza medicina, possa girare ufficialmente per le strade? E gli afghani, mediamente molto giovani, come gestiranno una possibile pace, quando per tutta la loro vita non l’hanno mai conosciuta? Sono quarant’anni che l’Afghanistan scavalla da una guerra e l’altra.

E i donatori internazionali continueranno a mandare soldi? Le organizzazioni umanitarie si sentiranno al sicuro? E i talebani cosa vorranno in cambio? E la droga? L’Afghanistan è il maggiore produttore di oppio al mondo (da cui deriva l’eroina). Ci sono ancora tante domane e una grandissima incognita. Senza contare le divisioni politiche, i Signori della Guerra, la corruzione, le mine che colpiscono 200 persone al mese, la povertà, i profughi.
Sogno un Afghanistan dove una che fa il mio lavoro, non avrà bisogno più di tornare. Lo sognano anche gli afgani, non ci resta di scoprire il prezzo di tutto questo perché ci presentano facile una cosa che non lo è affatto, che ha moltissime implicazioni e interessi. Basta solo citare i paesi intorno come l’Iran e i Pakistan, o la Cina che ha mani in pasta ovunque.
Staremo a vedere, la mia promessa dal primo giorno che ho superato il confine del Pakistan e ho respirato l’aria di Jalabad, è stata di non dimenticare mai questo popolo e questo paese fino a quando ci fosse stata una storia da raccontare.

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