Il sogno di Osamu: abbracciare suo figlio

Scritto da in data Febbraio 10, 2021

Osamu ha 35 anni e viene dalla Nigeria. Ha iniziato a lavorare all’età di 10 anni mentre frequentava la scuola poiché il padre, soldato in pensione, non veniva pagato. È stato in Libia nei campi di detenzione, e racconta a Caterina Puletti che le torture non sono state niente in confronto alle violenze che ha subito da ragazzino anche se, appena possibile, è scappato insieme ad altri che erano con lui. Ha un figlio di sei anni, Emmanuel, che non ha mai visto se non dietro lo schermo di un cellulare e spera di abbracciarlo presto.

Foto di copertina: Francesco Madonia
Voice over di Marcello Manuali e la canzone è “Africa will be great again” di Femi Kuti

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“In Libia quando ci davano il cibo mangiavamo, quando non ce lo davano non mangiavamo, anche per giorni. Molte persone sono morte e poi sono state buttate nei container”.

Affondi i piedi nella sabbia, respiri a pieni polmoni e davanti hai il mare, immenso. È estate, sei in ferie e puoi finalmente goderti dei giorni di riposo dalla tua vita caotica, dalle scadenze e dalle conversazioni superficiali. Si tratta di una pausa, una settimana, al massimo due e tutta quella frenesia da cui hai voluto prendere le distanze, ora, non è altro che un brusio lontano. Dall’altra parte del mare tutto si muove, le pause non sono ammesse e il tempo corre rapido lasciando dietro di sé chi non riesce a tenere il passo. È notte, un ragazzo vede il mare per la prima volta e ha paura. Si lancia disperato verso un gommone arenato sulla spiaggia, la gente si accalca, qualcuno cade, viene calpestato, nessuna compassione. Riesce a salire sull’imbarcazione fatiscente e chiude gli occhi: il blu dell’acqua lo terrorizza, non sa nuotare e la notte è appena iniziata.

OSAMU, 35 ANNI, NIGERIA

«Sono nato in Nigeria, nello stato di Edo. Ho 2 sorelle, una vive a Roma e l’altra in Germania, e sei fratelli. Da piccolo non ero molto felice perché a partire dai 10 anni ho iniziato a stare per conto mio e a lavorare, dato che i miei genitori erano poveri e non stavano più insieme. Entrambi vivevano vite differenti così ho dovuto trovare un modo per vivere meglio. Ho lavorato come muratore, come giardiniere, sono andato nelle fattorie e altre cose del genere. La mattina andavo a scuola e poi nel pomeriggio lavoravo anche con la pioggia o sotto il sole battente, certe volte ho lavorato pure di notte».

La fuga

«La prima volta che mi sono spostato non era per venire in Italia, non la conoscevo nemmeno. Sono andato nella città di Lagos, sempre in Nigeria, dove ho iniziato a lavorare come camionista per una buona compagnia. Avevo uno stipendio buono, ma c’è stato un problema al lavoro e sono dovuto scappare. Dovevo obbedire alle istruzioni del boss e un giorno mi ha assegnato un carico da portare a Maiduguri, nel nord della Nigeria, ma arrivato là sono stato fermato dalla polizia. Il cibo che stavo trasportando era per l’organizzazione terroristica Boko Haram ma io non lo sapevo, due ragazzi che erano con me sono stati uccisi dalla polizia, io sono riuscito a scappare e mi sono rifugiato a casa di mio padre, a Kano. Tre mesi dopo sono andato in Ghana e sono rimasto lì per due anni, ma non avevo un buon lavoro e quando un amico mi ha proposto di andare in Libia, per guadagnare di più, sono partito».

La detenzione in Libia

«In Libia la situazione era completamente diversa da come ce l’aspettavamo. Siamo stati venduti a qualcuno che si occupava del traffico di migranti in Europa, eravamo degli schiavi. Sono stato lì per otto mesi, andavamo a lavorare come imbianchini ma poi tutti i soldi andavano al boss. Le persone che tornavano senza soldi venivano torturate, rinchiuse nei container e a volte morivano. Così un giorno siamo partiti per andare al lavoro, con degli amici, e non siamo più tornati. Molte volte ho pensato che sarei morto, ma se ancora non è il tuo tempo di morire non importa cosa tu debba affrontare, non morirai mai».

La partenza

«Nella notte del 20 ottobre 2016 ho preso una barca dalle coste della Libia, c’era tantissima gente, e sono riuscito a salire senza pagare nulla. Cinque barche che stavano davanti a noi sono affondate e sono morti tutti. Noi eravamo in tanti su un gommone, c’era una coppia con un neonato che non smetteva di piangere e stavano per buttarlo in mare, ma io ho preso il bambino con me e l’ho cullato per tutto il viaggio. A un certo punto il gommone si stava riempiendo d’acqua ma fortunatamente abbiamo visto la luce di un elicottero che puntava verso di noi, poi è arrivata una grande barca che ci ha caricati tutti e ci ha portati in Sicilia dove siamo rimasti per tre giorni. Il 26 ottobre sono arrivato a Perugia».

L’Italia

«Una volta arrivato in Italia pensavo che i problemi fossero finiti invece hanno continuato a crescere. Prima avevo paura di morire, in Italia ho cominciato a pensare al mio futuro e a preoccuparmi di come sarebbe stata la mia vita. Sono stato nell’ostello di Ponte Felcino per più di un anno, poi sono andato a Castel del Piano per due anni e alla fine a Perugia per otto mesi. Mentre ero a Perugia ho ottenuto i documenti del permesso di soggiorno, ma hanno chiuso l’appartamento dove stavo a causa del decreto Salvini così non ho potuto prendere la residenza. Con il permesso di soggiorno puoi lavorare, ma ti pagano in nero e quando qualcuno cerca di usarti come schiavo non va bene. L’opportunità di avere un lavoro è buona, ma devi essere pagato per le ore che fai e io non voglio accontentarmi. Mi sono iscritto alla scuola guida per prendere la patente, ma non avevo mai tempo di studiare perché per andare al lavoro facevo 18 km, tra andata e ritorno, in bicicletta. Avrei potuto dormire vicino a dove lavoravo ma sarei dovuto stare in un container pieno di topi con 40° al sole».

Il lavoro

«Mi sto preparando per prendere il patentino di saldatore e per il muletto. Se lavoro per 5/6 giorni poi voglio averne uno di riposo, devo studiare e fare altre cose. Nonostante il Covid penso che vivrò meglio di adesso dato che l’anno scorso era peggio di questo, sono speranzoso. A metà gennaio, finalmente, dovrei affittare un appartamento a Monteluce. L’ho cercato tanto, ma molte persone non vogliono proprio sentir parlare di dare casa ad africani».
Mentre ci prendiamo un tè, Osamu con fermezza, senza versare una lacrima, dice che sta facendo tutto questo per suo figlio, appena avrà una casa e un lavoro stabile lo farà venire in Italia. Poi mi mostra alcune foto di Emmanuel, sembra un bambino vivace e quando gli dico che si assomigliano Osamu scoppia in una risata fragorosa. Così me ne vado e mentre torno a casa mi immagino Osamu ed Emmanuel, padre e figlio, seduti davanti a un tè, a ridere insieme.

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